Omicron: non è colpa dei topi

Mentre i casi documentati d’infezione da SARS-CoV-2 ammontano a circa 350 milioni su scala mondiale, con poco meno di sei milioni degli stessi a esito infausto (145.000 e più dei quali in Italia), la contagiosissima variante “Omicron” sta imperversando nei due emisferi e nei cinque continenti, preceduta dalla “Delta” ed affiancata dalla neo genita “Omicron 2”, appena identificata in Danimarca.

Secondo uno studio recentemente pubblicato da ricercatori cinesi su Journal of Genetics and Genomics, la variante omicron costituirebbe il frutto di un “progenitore” della stessa, che dall’uomo si sarebbe trasferito al topo (spillover), che avrebbe ritrasmesso il virus mutato in guisa di omicron all’uomo stesso (spillback). Per quanto suggestiva ed affascinante – e nella pur totale consapevolezza dei molteplici salti di specie e delle innumerevoli traiettorie evolutive che SARS-CoV-2 potrebbe aver compiuto dalla sua origine fino ai giorni nostri – l’ipotesi anzidetta (che per gli Autori dello studio in oggetto corrisponde quasi ad una certezza!), non sembra poggiare su solide basi scientifiche.

Da un punto di vista comparativo, il grado di omologia di sequenza esistente fra il recettore virale ACE-2 umano e quello murino, saltano subito agli occhi le eccessive differenze caratterizzanti la molecola in questione nelle due specie, con particolare riferimento alla regione di ACE-2 specificamente coinvolta nell’interazione con il receptor-binding domain della glicoproteina Spike (S) di SARS-CoV-2, una sequenza di 25 aminoacidi di rilevanza cruciale ai fini dell’adesione e del successivo ingresso del virus nelle cellule ospiti. Si tratta, pertanto, di una teoria che, pur nel fascino e nella suggestione che la stessa sarebbe in grado di evocare, non sembra godere al momento di sufficiente plausibilità biologica.

Inoltre, la diffusione “virale” di tale notizia può mettere in allarme i proprietari di cani e gatti indotti a credere che i loro beniamini potrebbero dare origine a varianti contagiosissime. Le persone infette o sofferenti per COVID-19 che convivono con cani, gatti o altri animali in casa devono sapere, infatti, che il virus può “trasferirsi” soprattutto ai gatti, i quali possono manifestare una patologia respiratoria. Dunque, meglio evitare contatti stretti. Infine, al momento non ci sono ancora evidenze scientifiche che dimostrano un qualche ruolo dei nostri amati amici a quattro zampe nella trasmissione del coronavirus. Sono pertanto auspicabili ulteriori studi – condotti, si spera, in ossequio al principio della One Health – per meglio definire la relazione tra potenziali serbatoi animali di coronavirus e la possibilità di spillback animale-uomo.

Giuseppe Borzacchiello* e Giovanni Di Guardo**

*Professore di patologia generale e anatomia patologica veterinaria  – Dipartimento di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Napoli
** Già professore di Patologia generale e Fisiopatologia generale Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo

 




Animali e varianti di SARS-CoV-2, tutto è connesso!

L’identificazione della temibile variante “omicron”, alias “B.1.1.529”, recentemente avvenuta in Botswana ed in Sudafrica – sebbene la stessa fosse gia’ presente e circolante da diversi giorni sia nei Paesi Bassi che negli USA -, ha reso ancora piu’ esiguo il numero delle lettere dell’alfabeto greco non ancora utilizzate per designare le varianti di SARS-CoV-2 via via emergenti sulla scena epidemiologica globale. In un siffatto contesto si sta contemporaneamente assistendo ad un graduale aumento del numero delle specie domestiche e selvatiche naturalmente e/o sperimentalmente suscettibili nei confronti del betacoronavirus responsabile della CoViD-19, che nel mondo ha sinora provocato più di 5.300.000 decessi, 135.000 dei quali in Italia.

L’ultima specie che si è aggiunta, in ordine di tempo, al già corposo elenco di quelle sensibili al virus è rappresentata dall’ippopotamo, con due esemplari (madre e figlia, rispettivamente di 41 e 14 anni) mantenuti all’interno dello zoo di Anversa, in Belgio, risultati entrambi SARS-CoV-2-infetti.

Di particolare interesse risulta, altresì, il comportamento  di due distinte specie animali – il visone e il cervo a coda bianca – nei confronti dell’infezione virale.

Negli allevamenti intensivi di visoni olandesi e danesi è stata infatti segnalata, oltre un anno fa, la presenza della variante “cluster 5” (recante la mutazione Y453F a livello del gene codificante per la proteina “spike“, grazie alla quale il virus è in grado di penetrare nelle cellule umane ed animali, previa interazione col recettore ACE2 posizionato sulla loro superficie), che si sarebbe sviluppata negli stessi a seguito di una pregressa acquisizione dell’infezione ad opera di allevatori SARS-CoV-2-infetti. I visoni avrebbero quindi ritrasmesso il virus mutato (“cluster 5“) all’uomo, fattispecie quest’ultima che ha provocato l’abbattimento/eutanasia, in Danimarca, di ben 17 milioni di esemplari mantenuti all’interno dei suddetti allevamenti!

Per quanto attiene ai cervi a coda bianca, una specie la cui suscettibilità nei riguardi dell’infezione sperimentale da SARS-CoV-2 era già stata resa nota da un precedente studio pubblicato nel Marzo 2021, desta fondati motivi di allarme l’elevata percentuale di esemplari sieropositivi, pari a circa il 40%, riscontrati fra la popolazione residente nella regione nord-orientale degli USA. Una successiva indagine condotta sui cervi a coda bianca dell’Iowa ha altresì consentito di dimostrare la presenza di anticorpi anti-SARS-CoV-2 in una percentuale superiore all’80% degli individui testati, un terzo dei quali avrebbe parimenti fornito esito positivo alle relative analisi biomolecolari (RT-PCR) eseguite sui linfonodi retrofaringei. Gli studi di sequenziamento genomico effettuati sugli esemplari risultati positivi alle indagini biomolecolari avrebbero quindi permesso di documentare la circolazione, nei cervidi in questione, di numerose varianti virali già descritte nella nostra specie, prime fra tutte la “B.1.2” e “B.1.311”. E, mentre l’infezione da SARS-CoV-2 si sta diffondendo anche tra i cervi a coda bianca del Canada, la presenza della variante “alfa” (alias “B.1.1.7”) è stata recentemente riportata in Francia in un cane e in due gatti con miocardite, i cui proprietari erano affetti da CoViD-19. Un analogo caso d’infezione sostenuta dalla variante “alfa” di SARS-CoV-2 era già stato accertato qualche mese prima, in Piemonte, in un gatto i cui proprietari erano risultati parimenti affetti da CoViD-19.

E’ oramai acclarato che SARS-CoV-2 è un agente patogeno dotato di notevole “plasticità”, come eloquentemente testimoniano le numerose varianti virali (“variants of concern” e “variants of interest“) comparse e circolanti in ogni angolo del Pianeta. Queste sono il frutto, a loro volta, dei cicli replicativi che il virus compie all’interno sia delle nostre cellule sia di quelle delle numerose specie animali domestiche e selvatiche che a SARS-CoV-2 risultano sensibili, fattispecie quest’ultima alla quale non si presta la dovuta attenzione, secondo l’opinione di chi scrive.

Il genoma di SARS-CoV-2 consta di circa 30.000 nucleotidi e si stima che, ad ogni replicazione coinvolgente 10.000 delle succitate basi azotate, possa corrispondere la comparsa di una mutazione genetica. Ovviamente esistono varie tipologie di mutazione e solo un ridotto numero di esse permetterà al virus di acquisire “nuove” caratteristiche fenotipiche (la cosiddetta “gain of function“), quali ad esempio una più spiccata virulenza e/o un’accresciuta capacità di diffusione/trasmissione interumana e di colonizzazione delle nostre cellule, se non addirittura di elusione della risposta immunitaria indotta dall’infezione o dalla vaccinazione, caratteristiche che la ben nota variante “delta” e, presumibilmente – sulla base dei dati sin qui acquisiti -, anche la “new entry omicron (che presenta almeno 32 mutazioni a livello del gene codificante per la glicoproteina “spike“, il doppio rispetto a quelle caratterizzanti la variante “delta”) sembrano ricapitolare in maniera quantomai efficace.

In considerazione degli elementi sopra esposti e, nondimeno, in una salutare quanto opportuna prospettiva di One Health – la “salute unica di uomo, animali ed ambiente” -, sarebbe a dir poco miope e riduttivo considerare Homo sapiens sapiens quale “unico attore” coinvolto nelle intricate e complesse dinamiche d’interazione virus-ospite, tanto piu’ alla luce della probabile origine di SARS-CoV-2 dal mondo animale, come già dimostrato per i suoi due “predecessori” rappresentati dai betacoronavirus della SARS e della MERS e, più in generale, per almeno il 70% degli agenti responsabili delle cosiddette “malattie infettive emergenti”.

In un siffatto contesto spiace molto a chi scrive dover sottolineare che, a dispetto dei quasi due anni oramai trascorsi dalla sua istituzione, un solo Collega Veterinario non sieda ancora nel “Comitato Tecnico-Scientifico”, popolarmente noto con l’acronimo “CTS”.
Per dirla con Sant’Agostino, Errare humanum est, perseverare autem diabolicum!

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria all’Universita’ di Teramo




Omicron: per quanto tempo ancora l’alfabeto greco designera’ le varianti di SARS-CoV-2?

L’identificazione della variante “omicron”, alias “B.1.1.529”, recentemente avvenuta in Sudafrica – sebbene la stessa fosse gia’ presente nei Paesi Bassi -, ha reso ancora piu’ esiguo il numero delle lettere dell’alfabeto greco non ancora utilizzate per designare le varianti di SARS-CoV-2 che progressivamente emergono sulla scena epidemiologica mondiale. Contemporaneamente si accresce, altresì, il numero delle specie animali suscettibili al betacoronavirus responsabile della CoViD-19.

In alcune di queste (gatto, cane, cervo a coda bianca) e’ stata parimenti segnalata la presenza di varianti (“alfa”, “B.1.2”, “B.1.311” ed altre ancora), verosimilmente acquisite da nostri conspecifici SARS-CoV-2-infetti.

In un siffatto contesto, risulta particolarmente degna di attenzione la variante “cluster 5”, comparsa oltre un anno fa negli allevamenti intensivi di visoni olandesi e danesi, per esser quindi ritrasmessa dai visoni stessi all’uomo.

In considerazione di quanto sopra esposto e, nondimeno, in una quantomai opportuna prospettiva di “One Health” – la “salute unica di uomo, animali ed ambiente” -, sarebbe a dir poco miope e riduttivo considerare Homo sapiens sapiens quale “unico attore” coinvolto nelle intricate e complesse dinamiche d’interazione virus-ospite, tanto piu’ alla luce della probabile quanto plausibile origine di SARS-CoV-2 dal mondo animale.

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria
all’Universita’ di Teramo