Animali selvatici e One Health: il caso del cervo

Il cervo è un ungulato selvatico diffuso su tutta la penisola italiana, con una popolazione in crescita favorita dalla carenza di predatori e dal progressivo abbandono delle aree marginali da parte dell’uomo. L’aumento della sua presenza comporta un parallelo aumento delle interazioni con l’uomo e con gli animali domestici sia in modo diretto che indiretto; ne sono un esempio la condivisione dei pascoli montani con il bestiame domestico e l’uso della sua carne nell’alimentazione umana. Questo animale è sospettato di diffondere e mantenere la tubercolosi bovina, malattia per la quale alcuni Paesi europei non riescono ad ottenere lo status di indennità nonostante i notevoli sforzi e investimenti.

Il rapporto tra Mycobacterium e cervo
La rilevazione del patogeno in popolazioni selvatiche ha generato il ragionevole dubbio di un mantenimento della patologia grazie a un sistema multi-ospite (piccoli ruminanti, mustelidi, cinghiale, cervo, suino rurale e bovino). L’esistenza di tale sistema di mantenimento va però dimostrata attraverso dati consistenti e robusti, considerando che ogni situazione andrebbe indagata  singolarmente e l’inferenza da situazioni apparentemente simili potrebbe dimostrarsi fallimentare. Esistono situazioni particolarmente favorevoli al fenomeno dello spillover di micobatteri alle popolazioni di cervi selvatici: in Nuova Zelanda alcuni studi riportano prevalenze del 47% in sottopopolazioni di cervi simpatrici con specie di marsupiali riconosciuti come reservoir. Nel
2021 è stata stimata una prevalenza media di tubercolosi nel cervo del 13,71% posizionandolo al secondo posto mondiale nella classifica degli animali selvatici più colpiti da questa patologia. Uno studio condotto su cervi in area alpina ha evidenziato, in Austria, casi di lesioni tubercolari da cui è stato isolato Mycobacterium caprae con alte prevalenze; tra i 514 campioni provenienti da altrettanti cervi dell’area alpina italiana lo stesso micobatterio è stato isolato da un solo campione.
Il monitoraggio in queste zone continua ad essere condotto grazie alla collaborazione tra servizi veterinari, gestori delle aree protette e referenti dell’attività venatoria.

Ne parlano Stefano Giacomelli e Nicola Martinelli   in un articolo pubblicato su La Settimana Veterinaria