Leptospirosi canina, i rischi per i veterinari e il cane come sentinella ambientale

I medici veterinari che lavorano a contatto con i cani non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio. È quanto emerge da una ricerca condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e finanziata dal Ministero della Salute (RC IZSVE 05/17), che non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro.

Tuttavia le strutture di ricovero per cani ad alta densità di soggetti, se non gestite con la dovuta attenzione verso questa infezione, potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Un altro studio dell’IZSVe ha infatti analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italiaidentificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe) descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio.

Una ricerca dell’IZSVe non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro. Ciò indica che i medici veterinari non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio.

Entrambe le ricerche, condotta dalla struttura di Diagnostica in sanità animale (SCT3) dell’IZSVe, sono state pubblicate dalla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH). I dati raccolti dimostrano che una percentuale di cani esposti all’infezione, spesso trasmessa e mantenuta nell’ambiente da piccoli roditori, si ammala manifestando una grave sintomatologia; tuttavia i cani rappresentano per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Le infezioni da leptospira nei veterinari
Nella ricerca sull’esposizione dei veterinari al rischio leptospirosi sono stati analizzati 221 campioni di siero umani tramite mediante test di microagglutinazione (MAT) per Leptospira: 112 provenienti da medici veterinari clinici specializzati in animali d’affezione, e 109 provenienti da persone non professionalmente esposte al contatto con questi animali. Tutti i soggetti provenivano dal Nord Italia, un’area geografica ad alta endemicità di leptospirosi canina.

Le analisi non hanno rilevato alcuna reattività ai test effettuati, indicando che nessuno dei soggetti aveva sviluppato anticorpi verso le leptospire circolanti nel nostro territorio. Ciò indica che i veterinari, nonostante la maggiore esposizione al rischio per ragioni professionali, non si infettano in modo significativamente diverso rispetto alla popolazione di riferimento.

Ciò può essere dovuto alla maggiore consapevolezza dei rischi zoonotici da parte dei veterinari, e quindi all’adozione di efficaci misure di prevenzione nella gestione dei pazienti nell’esercizio della professione; ma anche alla scarsa escrezione di Leptospira nei cani sintomatici, sia per durata di escrezione che per quantità di batteri eliminati. Il cane, pertanto, sembra rappresentare più una sentinella ambientale per la presenza di Leptospira piuttosto che un veicolo di diffusione dell’infezione.

Il focolaio di leptospirosi in canile
Le strutture di ricovero per cani potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Uno studio dell’IZSVe ha analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italia, identificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe), descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio. I cani rappresentano tuttavia per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Nello studio sul focolaio di leptospirosi in canile i ricercatori hanno analizzato campioni provenienti da 59 cani su un totale di 78 ospitati dalla struttura, in seguito alla segnalazione e alla conferma di positività di 3 cani sintomatici. I campioni sono stati analizzati sia dal punto di vista sierologico tramite MAT, sia attraverso la ricerca diretta del DNA batterico tramite real-time PCR; i campioni risultati positivi alla PCR sono stati inoltre sottoposti a sequenziamento tramite la tecnica Multilocus sequence typing (MLST) presso il Centro di referenza nazionale per la Leptospirosi dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZSLER).

Il 50,9% cani esaminati è risultato positivo ad almeno uno dei test effettuati. Il 37,3% cani ha mostrato sieropositività ad almeno una sierovariante appartenente al sierogruppo Sejroe, e le analisi tramite MLST hanno permesso di identificare L. borgpetersenii, sierogruppo Sejroe (ST155) come responsabile dell’epidemia. L’infezione da parte di questo sierogruppo è stata segnalata sporadicamente nei cani in Italia.

Al fine di aumentare la sensibilità dei servizi diagnostici erogati, questi dati hanno indotto l’IZSVe ad includere nel pannello degli antigeni previsti dal MAT due sierovarianti aggiuntive appartenenti al sierogruppo Sejroe (Sejroe e Saxkoebing) oltre ad Hardjo, già prevista nel pannello del MAT condiviso a livello nazionale.

Dallo studio emerge inoltre che la sorveglianza delle infezioni da Leptospira nei canili è sempre raccomandata, anche quando viene correttamente somministrata la profilassi vaccinale: attualmente infatti i vaccini disponibili per Leptospira non sono in grado di proteggere i cani dal sierogruppo Sejroeoltre che da altri sierogruppi circolanti nel territorio.

Dai dati raccolti non è stato possibile determinare con certezza se Leptospira fosse stata introdotta nel canile dall’ingresso di un cane infetto, piuttosto che dal contatto dei cani con altre specie serbatoio diffuse nello stesso ambiente, come ratti o topi. Tuttavia, dato che gli animali risultati positivi erano distribuiti in vari settori del canile e includevano soggetti che non erano mai entrati in contatto tra loro, secondo i ricercatori la circolazione di piccoli roditori infetti rappresenta la modalità più probabile con cui può essersi diffusa l’infezione. Questa ipotesi è sostenuta anche dall’assenza di nuovi casi clinici segnalati dopo l’intervento di derattizzazione effettuato nel canile in seguito all’identificazione del focolaio.

Fonte: IZS Venezie