Animali vulnerabili a Covid, non abbassare la guardia
A tre anni dalla sua esplosione, la pandemia sembra essere finalmente avviata verso la sua coda finale. Tuttavia, se quello che sta accadendo nell’uomo suggerisce un cauto ottimismo, gli esperti invitano a non perdere di vista quello che sta succedendo negli animali, dove il virus Sars-CoV-2 potrebbe trovare nuovi serbatoi e da lì tornare, magari in forma mutata, all’uomo.
Nei giorni scorsi, la Food and Agriculture Organization (Fao) ha pubblicato un aggiornamento sulla circolazione di Sars-CoV-2 negli animali.
A oggi circa 40 Paesi hanno riportato casi animali, compresa l’Italia.
I PAESI CON CASI DI COVID ANIMALE
Francia, Svizzera, Hong Kong, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Russia, Stati Uniti d’America, Danimarca, Giappone, Regno Unito, Cile, Canada, Brasile, Svezia, Italia, Spagna, Sud Africa, Grecia, Argentina, Lituania, Messico, Slovenia, Estonia, Bosnia Erzegovina, Lettonia, Polonia, Portogallo, Porto Rico, Croazia, Tailandia, Uruguay, Myanmar, Indonesia, Singapore, Colombia, Finlandia, India, Ecuador, Egitto.
Altrettanto lunga la lista degli animali di cui ci sono prove di trasmissione di Sars-Cov-2: dai cani e gatti domestici, fino agli ippopotami.
ANIMALI INFETTATI DA SARS-COV-2
Gatto domestico, cane domestico, visone americano domestico, furetto domestico, visone americano selvatico, gorilla, cervo, binturong, coati, gatto pescatore, tigre, leone, puma, leopardo delle nevi, leopardo indiano, lince canadese, iena maculata, lontra, criceto, ippopotamo, uistitì; lamantino, formichiere, mandrillo, saimiri, volpe rossa, bovini, bufalo.
A oggi non è ancora chiaro come gli animali possano contribuire all’evolversi della pandemia e se possano diventare una fonte di infezione per l’uomo.
La trasmissione da animane a uomo, seppure rara, è stata documentata più volte negli ultimi tre anni. Uno degli ultimi casi resi noti è quello di un leone che ha infettato tre dipendenti del Potawatomi Zoo di South Bend, in Usa. Secondo la ricostruzione contenuta in uno studio pubblicato su medRxiv il leone, che necessitava di essere alimentato da parte degli operatori dello zoo, potrebbe aver contratto il virus da un dipendente dello zoo trasmettendolo a sua volta ad altri tre operatori.
«Il contatto stretto con i felini di grossa taglia dovrebbe essere considerato un fattore di rischio per la trasmissione zoonotica bidirezionale di Sars-CoV-2, indipendentemente dalla precedente immunizzazione», hanno concluso i ricercatori.
Intanto, proprio in questi giorni è stato pubblicato su mBio, rivista dell’American Society for Microbiology, uno studio che documenta la presenza del virus Sars-CoV-2 nei ratti di New York.
Lo studio è stato avviato nell’autunno del 2021, quando «l’U.S. Department of Agriculture (USDA) Animal and Plant Health Inspection Service ha prelevato degli esemplari di ratto grigio (Rattus norvegicus) a New York per cercare prove di infezione da SarsCoV2», spiega in una nota uno degli autori dello studio, Tom DeLiberto.
I test eseguiti dai ricercatori hanno rilevato che, dei 79 animali analizzati, 13 avevano anticorpi che dimostravano un’infezione da SarsCov2: in 9 di essi si trattava di un’infezione passata, mentre in 4 era ancora in corso. I test molecolari eseguiti su questi ultimi hanno mostrato che a causare l’infezione era un ceppo di virus che era diffuso in Usa circa un anno prima. Gli animali sono risultati però potenzialmente suscettibili anche alle varianti Delta e Omicron.
I ricercatori temono che il virus possa circolare in maniera silente nei ratti e poi tornare, magari in forma mutata, all’uomo. «I nostri risultati evidenziano la necessità di un ulteriore monitoraggio di Sars-CoV-2 nelle popolazioni di ratti per determinare se il virus circola negli animali e si sta evolvendo in nuovi ceppi che potrebbero rappresentare un rischio per l’uomo», afferma il primo firmatario dello studio Yang Wang. «Il virus Sars-CoV-2 rappresenta una tipica sfida ‘One Health’ che richiede approcci collaborativi, multisettoriali e transdisciplinari per essere compresa appieno», conclude il ricercatore.
Fonte: Healthdesk