Convegno Nazionale – Malattie da Vettori: Focus su CCHF e TBE

Si terrà il 27 febbraio a Roma, presso il Ministero della Salute a via Ribotta, il Convegno Nazionale, accreditato ECM, MALATTIE TRASMESSE DA VETTORI: focus su Febbre emorragica Crimea-Congo e Encefalite da zecca organizzato dal Ministero della Salute in collaborazione con  SIVeMP e SIMeVeP.

Il corso è accreditato per Medici Veterinari, Biologi e Medici Chirurghi (solo discipline Malattie infettive/Igiene, epidemiologia e sanità pubblica/Igiene degli alimenti e della nutrizione/Medicina del lavoro e sicurezza degli ambienti di lavoro).

Si stima che attualmente l’80% della popolazione mondiale è a rischio di contrarre una o più malattie da vettori e che queste ogni anno siano responsabili della morte di oltre mezzo milione di persone. Pertanto, le arbovirosi rappresentano un problema di sanità pubblica di primaria importanza la cui lotta risulta difficile e particolarmente sfidante.

L’aumento delle temperature ed i conseguenti cambiamenti macro e microclimatici possono influenzare la biologia e l’ecologia dei vettori, così come gli scambi transfrontalieri ne favoriscono la diffusione e la distribuzione geografica.
Per questi motivi, si assiste con maggiore frequenza alla comparsa di eventi epidemici ed alla endemizzazione delle stesse arbovirosi.

In un’ottica di “salute unica” e di collaborazione intersettoriale, imprescindibile per l’approccio alla lotta delle infezioni da vettori, la giornata di studio vuole contribuire all’aggiornamento degli iscritti su due importanti malattie trasmesse da zecche, attraverso l’intervento di specialisti che potranno fornire ai partecipanti una visione multidisciplinare degli argomenti.

Posti esauriti, è possibile partecipare solo come uditore.

Locandina Convegno

 

 




Disponibili la registrazione e la presentazione del Focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione

E’ possibile rivedere l’incontro su Focus sul farmaco per gli animali d’affezione che si è tenuto il 23 gennaio u.s..e 13.30 alle 15.00 . L’incontro in collaborazione con SIMeVeP , tenuto dalla dottoressa Silvia Fiorina e dal dottor Marco Cecchetto.

 

L’incontro  è stato organizzato in collaborazione ADMV e SIMeVeP – Società Italiana di Medicina Veterinaria Preventiva, per rispondere a domande pratiche e prevenire errori che potrebbero causare sanzioni. La dr.ssa Silvia Fiorina e il dr. Marco Cecchetto ci chiariscono i dubbi su modalità di prescrizione farmaci, affrontano le problematiche legate alla gestione delle prescrizioni, all’uso di farmaci generici, degli stupefacenti e alla complessa situazione del mercato, dove la scarsità di farmaci veterinari specifici spesso costringe noi professionisti a scelte difficili.

 

PRESENTAZIONE FOCUS




La solitudine del veterinario

Di Francesco Tozzi

Gentile Direttore,

gli avvenimenti di questi giorni riaprono una ferita mai rimarginata nel corpo della nostra Categoria. In situazioni come questa il Veterinario si accorge di quanto la solitudine di fronte agli eventi sia drammatica, incontrollabile, dolorosa. Venire aggrediti per lo svolgimento dei compiti che il nostro lavoro ci impone per la tutela della salute pubblica è una situazione sicuramente molto difficile da sopportare ed affrontare anche perché difficile da comprendere.

E’ un attacco così intimo che agisce in profondità, con il rischio concreto di lasciare una ferita aperta e duratura in colui che lo subisce. La prima reazione che nasce spontanea all’interno della Categoria è quella della vicinanza verso la vittima in modo da non “lasciarla sola”. Su questo aspetto vorrei soffermarmi: la solitudine del Veterinario. Da sempre il Medico Veterinario dipendente è un professionista con un carico di responsabilità enorme che si trova ad affrontare con una buona dose di solitudine, sia fisica che operativa e professionale. Per di più opera in scenari già di per sé al limite delle soglie emotive, quali macelli, canili, allevamenti intensivi, laboratori, ambiti penali, economici e repressivi che ci impongono un carico emozionale e relazionale da tenere sotto controllo senza tregua. E in questo controllo ciascuno rischia di trovarsi spesso solo.

La nostra professione e il nostro ruolo, malgrado i passi avanti ottenuti negli anni, restano un qualcosa di poco conosciuto e di marginale per l’opinione pubblica e per le istituzioni. E questa è una seconda “solitudine” che il Veterinario pubblico si porta addosso: la difficoltà di far capire al sistema chi siamo, cosa facciamo, come operiamo. L’aggressione ad un Medico viene meglio riconosciuta nella sua gravità grazie al fatto che la figura e il lavoro del Medico sono valorizzati e ben noti a tutti e quindi l’evento aggressivo è di più diretta e facile assimilazione e partecipazione.

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Aviaria. Grasselli: nessun allarme per cani e gatti ma bisogna stare all’erta

Ciò che era assolutamente impensabile, per i cambiamenti in atto può accadere. Quindi abbiamo il dovere di monitorare”. Lo ha detto Aldo Grasselli, Segretario Nazionale SIVeMP e Presidente Onorario SIMEVeP in un‘intervista rilasciata a Quotidiano Nazionale sui rischi per gli animali domestici, dopo la morte in Islanda di 3 gatti colpiti dall’influenza aviaria.

Bisogna stare all’erta, senza allarmarsi. E mantenere norme banalissime di igiene. Evitare, per esempio, di far girare i nostri animali dove ci sono deiezioni di uccelli. Anche per difenderci da altre patologie che i nostri amici volatili ci possono trasmettere più facilmente, come salmonellosi, campylobatteriosi o clamidiosi. Queste patologie spesso convivono con gabbiani e piccioni, e indubbiamente possono essere trasportate anche in casa dai nostri animali domestici. Ma sul problema dell’aviaria non mi allarmerei”.

In questi anni stiamo assistendo a cambiamenti di carattere ecologico, provocati da cambiamenti climatici che modificano l’habitat non solo di animali ma anche di parassiti che vivono su questi animali”.

Questo può far sì che ciò che era assolutamente impensabile, possa accadere. Quindi abbiamo il dovere di monitorare i cambiamenti che avvengono in questi ecosistemi e di quelle patologie che potrebbero colpire l’uomo. Dobbiamo stare all’erta, con un monitoraggio epidemiologico e un sistema di sorveglianza adeguati” ha concluso Grasselli.




Alcune riflessioni sulla carne coltivata

Possiamo immaginare un futuro scintillante di un mondo appena oltre il presente in cui la carne è abbondante e accessibile, con quasi nessun costo per l’ambiente e senza la preoccupazione esistenziale legata all’uccisione degli animali.  Al centro di questa visione ci sono mega-strutture high-tech, che ospitano serbatoi d’acciaio (i bioreattori  o fermentatori) alti come palazzi contenenti migliaia di litri di terreni di coltura cellulare ed in grado di produrre milioni di chili di carne, tali da nutrire un intero paese. È una visione edonistica,  ma anche altruistica, una scappatoia per gli eccessi dell’umanità, perché consente di risparmiare acqua, liberare terreni, proteggere le specie vulnerabili e la biodiversità e ridurre le emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale.  Parliamo di carne coltivata o carne a base cellulare, correlata all’origine biologica delle cellule e al metodo di produzione, impropriamente chiamata carne sintetica o artificiale, termini imprecisi che possono avere una connotazione negativa per i consumatori. L’aspetto semantico con l’utilizzo di una terminologia per i nuovi alimenti prodotti utilizzando nuove tecnologie – più facilmente comprensibile dal grande pubblico – è rilevante per  superare la potenziale neofobia e la possibile riluttanza verso le nuove scelte alimentari. Esistono diverse definizioni di carne coltivata. Quella che preferisco è la seguente: la carne coltivata è una carne animale genuina, in grado di replicare le stesse proprietà sensoriali e nutrizionali di quella convenzionale, in quanto costituita dello stesso tipo di cellule organizzate nella stessa struttura dimensionale del tessuto muscolare animale.  In parole povere, la carne coltivata è prodotta a partire da vere cellule animali, ad esempio cellule prelevate da un bovino, un pollo, un suino, un pesce.  L’unica differenza è che il prodotto è sempre basato su cellule animali ma non siamo costretti ad allevare e macellare animali.

Sebbene di recente interesse, l’idea originale di carne coltivata ha radici antiche.  Nel 1923, JBS Haldane nel libro ‘Dedalo della scienza e del futuro’ prospettò l’idea del cibo sintetico o coltivato in laboratorio. Winston Churchill nel 1931, critico nei confronti dei metodi di allevamento, introdusse l’argomento della carne coltivata.  Ma la prima ricerca di carne coltivata risale al 2002, quando la NASA pubblicò uno studio sulle colture di cellule muscolari di tacchino e filetto di pesce rosso.  A seguire nel 2013 Mark Post, uno scienziato olandese presentò il primo prototipo di carne a base di cellule di muscolo scheletrico bovino, sotto forma di hamburger, costato circa 290 mila euro per 142 grammi.  Ma il vero pioniere della carne coltivata è l’olandese Willem van Eelen, che negli anni 80’ pose le basi per questa nuova tecnologia.  Oggi il testimone di Willem van Eelen è passato a sua figlia Ira van Eelen, cofondatrice di RespectFarm, un progetto pilota che in alternativa ai grossi impianti, propone il decentramento della produzione di carne coltivata, riadattando le infrastrutture agricole esistenti in strutture per la carne coltivata e  garantendo la transizione dei mezzi di sostentamento degli agricoltori verso un modello di business più sostenibile. RespectFarm fa parte del programma di ricerca collaborativo FEASTS per la carne e pesce coltivato, finanziato con fondi strutturali e di investimento europei, e propone l’integrazione dell’agricoltura tradizionale con l’agricoltura cellulare, con un ruolo futuro nel passaggio verso la sostenibilità. Negli ultimi dieci anni, dunque il concetto di agricoltura cellulare, in particolare la coltivazione di carne e frutti di mare da cellule animali, è passato dalla fantascienza al mondo reale, sebbene con un mercato di nicchia, in alcuni paesi.

Ma come si produce la carne coltivata? Sinteticamente si parte dal prelievo di cellule (per lo più staminali perché dotate di estesa capacità rigenerativa) da un animale tramite una biopsia, e loro inserimento in un bioreattore (o fermentatore), che riproduce le stesse condizioni che le cellule incontrerebbero all’interno del corpo, tra cui presenza di sostanze nutritive, ossigeno e fattori necessari per la crescita e differenziazione. In alternativa alla biopsia che necessita di prelievi continui,  non garantisce l’uniformità dei campioni e presenta limiti dovuti alla soglia di divisione delle cellule primarie (limite di Hayflick), si possono utilizzare linee cellulari più omogenee e performanti e conservate in biobanche. La carne coltivata rappresenta dunque una fusione di biologia e tecnologia, afferisce alla agricoltura cellulare che unisce la tecnologia delle colture cellulari e biologia delle cellule staminali (in prestito dal settore biofarmaceutico) alla ingegneria tissutale-cellulare del settore della medicina umana rigenerativa.

Su questo sfondo di innovazione tecnologica una domanda ricorrente è questa: ma è naturale? Una riflessione che discende da un mito sociale più ampio secondo cui naturale equivale a migliore, più sano e più sicuro.  Siamo avvezzi a romanticizzare il naturale e questa preferenza deriva da pregiudizi radicati legati ad un comfort psicologico: la naturalezza sembra familiare e sicura, anche quando la scienza suggerisce il contrario. E su questo c’è un forte influenza del marketing. Etichette come biologico o naturale sono progettate per rassicurarci, ma possono oscurare i costi ambientali ed etici della produzione.  E’ una prima impressione che però si scontra con una realtà molto più complessa.  Sappiamo che gli alimenti naturali o convenzionali sono spesso imprevedibili. Prendiamo ad esempio la carne tradizionale prodotta in  ambienti (allevamenti ed impianti di macellazione e lavorazione) in cui circolano patogeni come E. coli, Salmonella, Campylobacter che si trasmettono all’uomo, per i quali il rischio non è mai zero e possono persistere anche con ispezioni rigorose.

Diversamente dalle procedure manuali, la tecnologia di automazione del processo di produzione della carne coltivata all’interno di bioreattori dotati di sofisticati  sistemi di monitoraggio, consente di rilevare rapidamente, tramite sensori fisico-chimici eventuali condizioni sfavorevoli nelle vasche di coltivazione, inclusi batteri patogeni, ma anche residui di ormoni ed antibiotici.

A differenza della maggior parte dei produttori di alimenti che testano i lotti in modo casuale, questo sistema offre maggiori garanzie poiché esamina ogni singolo lotto, riduce il rischio di contaminazione e aumenta il controllo, la sicurezza e la tracciabilità dei processi.  In pratica, il rischio può essere facilmente monitorato utilizzando test per la quantificazione dei farmaci veterinari sulla linea cellulare e sul prodotto finito, ma soprattutto recuperando i dati sanitari degli animali donatori.

L’utilizzo della modellazione poi, offre vantaggi sostanziali in termini di riproducibilità, scalabilità e sostenibilità, riduce al minimo le materie prime, gli sprechi, la manipolazione e la dipendenza dall’operatore portando a una maggiore efficienza dei bioprocessi. Il processo dunque è progettato per soddisfare rigorosi standard normativi che garantiscono la qualità e la sicurezza.  Per la produzione su larga scala, i bioreattori automatizzati operano ad alta intensità energetica e richiedono grandi quantità di acqua. Tuttavia, i  bioreattori automatizzati lavorano ad alta intensità energetica e richiedono grandi quantità di acqua. Da un punto di vista della sostenibilità i relativi costi possono essere ridotti utilizzando fonti di energia rinnovabili e introducendo pratiche di riciclaggio e riutilizzo dell’acqua. In aggiunta alla sicurezza ci sono vantaggi  di tipo ambientale rispetto all’agricoltura e allevamento tradizionali, che senza una corretta regolamentazione e pianificazione, favoriscono la deforestazione, sono responsabili per un terzo dell’emissione globale di gas serra proveniente dal settore della produzione alimentare (potenzialmente la carne coltivata produce il 92% in meno di emissioni) e consumano vaste risorse.  I dati ci dicono che siamo nel bel mezzo di una catastrofe globale al rallentatore, ogni anno che passa, la forza distruttiva del cambiamento climatico diventa più destabilizzante e il danno umano agli animali più estremo.

Tornando al quesito sopra espresso, possiamo chiederci: l’agricoltura naturale può raggiungere la  precisione della carne coltivata? E sostenibilità ma anche compassione (viene ridotta la macellazione industriale) non sono forse una definizione migliore di naturale? La scienza sta ora sfidando queste percezioni, dimostrando che il meglio può essere creato attraverso l’innovazione.  La carne coltivata, forse, non è del tutto naturale, ma è più sicura, più sostenibile ed eticamente allineata con i valori moderni.  Inoltre tra i suoi vantaggi, e questo va incontro alle esigenze dietetiche dei nuovi consumatori più attenti, c’è la possibilità di ottimizzarla sotto il profilo nutrizionale. La carne è ricca di acidi grassi saturi, come l’acido stearico, palmitico e laurico, questi ultimi due responsabili dell’aumento delle concentrazioni di colesterolo nel sangue, ma povera di acidi grassi polinsaturi (es. omega 3 e 6) che invece, riducono i livelli di colesterolo e con essi il rischio di subire malattie cardiovascolari. Queste sostanze più salutari potrebbero consentire di creare una prodotto proteico più funzionale e benefico per il consumatore.

Oggi alcuni prodotti che includono cellule coltivate sono stati approvati per la vendita a Singapore, Hong Kong, Stati Uniti (in pausa) e  Israele, ma non ancora nei paesi dell’Unione Europea. Uma Valeti, fondatore e CEO dell’azienda Upside Foods, ha dichiarato nel 2016 che ‘l’umanità è sull’orlo del ‘secondo addomesticamento’: invece di addomesticare gli animali per produrre carne, addomestichiamo le cellule per coltivarla direttamente, un cambiamento dietetico importante quanto il passaggio dalla caccia e dalla raccolta alle colture e all’allevamento. Per il futuro sicuramente i quadri normativi sui nuovi prodotti alimentari (novel food) dissiperanno le preoccupazioni relative alla sicurezza e trasparenza dei  metodi di produzione e dei potenziali impatti a lungo termine. Per migliorare l’efficacia della comunicazione con i non esperti (es. clienti, consumatori, elettori) e le parti interessate (es. allevatori, enti di regolamentazione e politici) e sviluppare un quadro unificato e multidisciplinare, occorrerà  superare l’approccio frammentato e a silos della ricerca sull’agricoltura cellulare in diversi settori (es. economico, alimentare, sanitario, biotecnologico e ambientale, promuovere la collaborazione tra industria, gruppi di ricerca, mondo accademico e autorità regolatorie e condividere database scientifici. Sono necessari modelli accurati.  E per averli abbiamo bisogno di dati migliori su cellule, composizione della biomassa, cinetica e consumo dei nutrienti ed efficienza energetica.  Sullo sfondo di dati promettenti di una recente analisi per il contributo significativo della carne coltivata all’economia dell’UE e una elettrizzante corsa globale agli  investimenti nel settore dell’ordine di miliardi di dollari da parte di capitale di rischio e fondi sovrani, nonché dei principali produttori di carne, e di start-up come East Just e Upside food, che, prima di aver superato le sfide tecnologiche più fondamentali, hanno spinto per l’approvazione del governo americano, si stagliano dichiarazioni che sottolineano come all’ampia rivoluzione della carne coltivata non corrisponda una prospettiva reale, e sicuramente non nei pochi anni che ci sono rimasti per evitare la catastrofe climatica.  Dalle interviste con investitori e addetti ai lavori, tra cui molti che hanno fatto parte dei team di leadership di aziende del settore, emerge una litania di risorse sperperate, promesse non mantenute, strutture costose, significativi ostacoli tecnologici e dati scientifici non validati.  Sono battute d’arresto prevedibili del ciclo hype di Gartner per l’innovazione e di sviluppo di tecnologie trasformative, che la storia ha dimostrato non seguire una linea retta. Affinché l’agricoltura cellulare raggiunga il “plateau della produttività”, non deve solo superare ostacoli di tipo biotecnologico e ingegneristico, ma anche quelli di natura sociale e politica. La carne coltivata, una idea futuristica, lungi dal ritenerla, in una prospettiva di scalabilità a lungo termine, sostitutiva di quella convenzionale, rappresenta una preziosa opportunità a fianco alle offerte vegetali e proteine alternative per realizzare una transizione proteica sostenibile e rispettosa dell’ambiente. Le conseguenze disastrose del cambiamento climatico sono un wake-up che ci spinge a reinventare le nostre economie, a ripensare ai consumi e ridisegnare le nostre relazioni con la natura e l’uno con l’altro.

Parimenti è giunto il momento di ripensare alla narrativa del cibo cercando di superare la dicotomia semplicistica tra natura e innovazione scientifica e tecnologia che non riesce a catturare l’evoluzione dei moderni processi di produzione e favorire l’accettazione da parte del pubblico di soluzioni solo apparentemente innaturali come la carne coltivata.

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Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP




Aggiornamento virus influenza aviaria H5N1: primo caso di decesso umano.

Ad oggi negli Stati Uniti i casi umani totali confermati di influenza aviaria H5N1 sono 66. Ricordiamo che a livello globale, negli ultimi 20 anni sono stati segnalati circa 500 decessi da H5N1, la maggior parte dei quali nel sud-est asiatico. I casi negli Stati Uniti si sono verificati principalmente in soggetti adulti con esposizione a pollame o bovini da latte infetti e con una sintomatologia consistente in congiuntivite (93% dei casi), febbre (46%) e sintomi respiratori (36%). Non è stata individuata alcuna diffusione persona-persona. Su ruolo del latte crudo, ritenuto un prodotto a rischio per l’uomo, ad oggi non ci sono segnalazioni di casi umani, sebbene il virus sia tramesso ad alcuni gatti a seguito del consumo di latte infetto.

Riguardo al primo caso umano di ospedalizzazione per influenza aviaria H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) in Luisiana, il Dipartimento di Salute ha comunicato il decesso del paziente di più di 65 anni con malattie concomitanti e con una esposizione a pollame ed uccelli selvatici. La notizia segue quella di un rapporto secondo cui i campioni di virus del paziente presentavano mutazioni di adattamento ai mammiferi che potrebbero facilitare la trasmissione persona-persona. Queste mutazioni, come ha riferito il CDC non erano presenti nei campioni di virus prelevati dai volatili da cortile, il che suggerisce che si siano sviluppate nel paziente con il progredire della malattia. Una di queste mutazioni era presente anche nel virus prelevato da una ragazza canadese di 13 anni ricoverata in ospedale e con supporto respiratorio, poi guarita.

Entrambi i pazienti erano portatori di una versione del virus che circola solo negli uccelli selvatici, distinta da quella che ha causato l’epidemia nei bovini da latte. Sebbene si tratti di casi isolati, i due casi insieme indicano la possibilità che il virus possa acquisire nuove capacità patogene per l’uomo. Più il virus circola tra le persone ed altri mammiferi, più alto è il rischio che acquisisca mutazioni che consentono il suo adattamento e trasmissione umana. Il rischio aumenta in occasione della stagione invernale, con il picco di influenza stagionale che potenzialmente crea le condizioni di co-infezione con entrambi i virus, stagionale ed influenza aviaria H5N1, fornendo a quest’ultimo ampie opportunità di acquisire le mutazioni di cui ha bisogno per diffondersi efficacemente tra le persone. L’H5N1 circola negli uccelli selvatici da diversi anni e nei bovini da latte da circa un anno e l’epidemia non ha mostrato segni di attenuazione, con più di 900 allevamenti di bovini da latte colpiti in 16 stati. A dicembre, la California, lo stato più colpito dall’epidemia nei bovini, ha dichiarato un’emergenza sanitaria pubblica. Il virus si è diffuso anche dagli allevamenti di bovini da latte agli allevamenti di pollame e tra gli uccelli selvatici.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP




Il veterinario Maurizio Ferri nella lista di esperti del comitato consultivo per le emergenze di sanità pubblica

Il dottor Maurizio Ferri, veterinario dirigente della Asl di Pescara, a seguito di un bando europeo pubblicato dalla commissione europea a novembre 2023, è stato selezionato e inserito nella lista di esperti (reserve list) del comitato consultivo per le emergenze di sanità pubblica, istituito dalla commissione europea nel 2023 con compiti di consulenza in caso di gravi minacce per la salute pubblica a carattere transfrontaliero e sulle misure da adottare in risposta al focolaio e sui tempi per revocarle. Il gruppo colma la grave lacuna individuata durante la pandemia di Covid 19.

“Questo ulteriore riconoscimento internazionale del dottor Ferri, già componente del gruppo di esperti Efscm della commissione europea per la gestione della preparazione e risposta alle crisi di approvvigionamento alimentare, è motivo d’orgoglio per il servizio di Igiene degli alimenti di Origine Animale, che da diversi anni è inserito in una rete di contatti internazionali con servizi veterinari di diversi paesi dell’Unione e dell’Est Europa, e per questa Asl”, viene precisato nella nota dell’azienda sanitaria.

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Fonte: ilpescara.it




Ulteriori notizie preoccupanti sull’influenza aviaria: i gatti potrebbero diventare portatori di influenza aviaria?

Ad oggi H5N1 clade 2.3.4.4b è stato segnalato in oltre 90 specie di uccelli selvatici e domestici e più di 21 specie di mammiferi, tra cui bovini, volpi, puzzole, leoni marini, visoni, delfini, cani procione, gatti e foche, e nell’uomo. Sul ruolo dei gatti come me portatori del virus dell’influenza avaria H5N1 due fonti indirizzano verso questo scenario: un studio pubblicato questa settimana sulla rivista Emerging Microbes and Infections dal titolo ‘Neurotropismo marcato e potenziale adattamento del virus del clade H5N1 2.3.4.4.b nei gatti domestici infettati naturalmente’, e la sospetta influenza aviaria H5 rilevata nei gatti della contea di Los Angeles associata al consumo di latte crudo oggetto di richiamo e proveniente da un allevamento da latte risultato positivo al virus dell’influenza aviaria H5 nelle vacche e nel latte. I gatti risultati positivi al virus H5N1 clade 2.3.4.4b dopo il consumo di latte crudo hanno manifestato sintomi che includevano mancanza di appetito, febbre e segni neurologici con peggioramento delle condizioni e decesso.  Ancora più recente è la notizia di un’epidemia di influenza aviaria che ha colpito un piccolo numero di animali al Wildlife World Zoo vicino a Phoenix, in Arizona.  I test presso il Dipartimento dell’Agricoltura dell’Arizona hanno mostrato che i campioni erano probabilmente positivi per H5N1. I funzionari della sanità pubblica stanno lavorando per identificare il personale e i volontari che probabilmente hanno avuto un’esposizione prolungata agli animali.

I ricercatori dello studio sopracitato hanno trovato due nuove mutazioni nella proteina PA (F314L, L342Q) che possono influenzare sia l’attività della polimerasi, un enzima che il virus usa per copiare il suo genoma che la virulenza, espressa dalla emoagglutinina, l’H in H5N1, la proteina che il virus usa per attaccarsi alle cellule, per stabilizzarla per la trasmissione per via aerea e aiutarla a legarsi meglio alle cellule nelle vie aeree superiori umane. I risultati dello studio suggeriscono un potenziale adattamento del virus e rilevano una diffusa co-espressione dei recettori dell’acido sialico α-2,6 (presente nell’uomo ed altri mammiferi) e α-2,3 (aviario) cha fanno dei gatti potenziali vasi di miscelazione per il riassortimento dei virus dell’influenza aviaria e dei mammiferi. Un cambiamento nell’affinità di legame dell’HA del virus H5N1 dai recettori dell’acido sialico α-2,3 a α-2,6,  abbondantemente espresso nelle vie aeree umane superiori, è fondamentale per ottenere la capacità di trasmissione da uomo a uomo. Uno studio recentissimo pubblicato su Science sull’analisi genetica e strutturale delle mutazioni necessarie per modificare completamente il riconoscimento del recettore ospite da parte del virus ha evidenziato come una singola mutazione dall’aminoacido glutammina a leucina al residuo 226 dell’antigene virale emoagglutinina (HA) sia stata sufficiente a modificare la specificità aviaria a quella umana. Tuttavia, una mutazione della polimerasi, soprannominata 627K perché porta all’amminoacido lisina (K) alla posizione 627 della proteina, è stata trovata più volte nei ceppi che infettano i mammiferi nonché in quelli isolati dal primo caso umano associato all’epidemia negli Stati Uniti nelle vacche da latte.  E’ anche vero che i virus negli uccelli, nei bovini e nell’uomo ad oggi non hanno mostrato mutazioni dell’emoagglutinina 226L che consentirebbe a H5N1 di agganciarsi meglio ai recettori umani.  In natura, il verificarsi di questa singola mutazione potrebbe essere un indicatore del rischio di pandemia umana. I ricercatori ritengono che perché il virus abbia successo sia necessaria una combinazione specifica di mutazioni nella neurominidasi ed emagglutinina. Le due proteine hanno effetti opposti sulle stesse catene di zucchero (acido sialico) sulla superficie delle cellule umane: l’emagglutinina si attacca a queste catene, aiutando il virus a infettare nuove cellule, mentre la neuraminidasi taglia quelle catene, liberando il virus appena formato dalle cellule ospiti. Se l’emoagglutinina è troppo appiccicosa e la neuraminidasi è troppo povera, il virus rimane bloccato nella cellula. E’ una questione di equilibrio che consente al virus di infettare nuove cellule.

Da quando il virus ha iniziato a circolare nei bovini da latte negli USA (rilevato in 832 allevamenti in 16 stati) con almeno 60 casi umani, la maggior parte dei quali associati a stretto contatto con vacche da latte o pollame infetti (ma gli esperti ritengono che la cifra stata sottovalutata  data la mancanza di test obbligatori), si sono verificati diversi decessi nei gatti negli allevamenti da latte colpiti. Dalla fine del 2022, almeno 53 gatti domestici negli Stati Uniti sono stati infettati dal virus H5N1 2.3.4.4b. I gatti possono essere esposti all’influenza aviaria cibandosi di uccelli infetti o altri animali o consumando latte non pastorizzato di vacche infette. Si stima che la versione attuale di H5N1 abbia un tasso di mortalità nei felini del 67%. Il virus dell’influenza aviaria H5 puoi trasmettersi da mammifero a mammifero. L’attuale versione del ceppo H5N1 si è dimostrata sorprendentemente promiscua infettando non solo 90 specie di uccelli ma più di 20 specie di mammiferi. I gatti domestici potrebbero dunque fornire questo nuovo percorso inaspettato per l’H5N1 con il rischio di evolvere in una forma più pericolosa.  Ad oggi i gatti hanno trasmesso un altro ceppo influenzale all’uomo, ma mai l’H5. Tuttavia, nell’eventualità che un gatto venisse infettato contemporaneamente da H5N1 e dal virus dell’influenza stagionale, H5N1 potrebbe potenzialmente acquisire le mutazioni necessarie per l’adattamento ai mammiferi, alcune delle quali già evidenziate, per diffondersi in modo efficiente tra le persone. Il nuovo studio sopra citato evidenzia la necessità per i funzionari di sanità pubblica di rafforzare la sorveglianza dell’influenza aviaria nei felini domestici. Nei mesi passati in USA i test per la ricerca di H5N1 si sono limitati alle vacche da latte e uomo, lasciando gli esperti all’oscuro della vera portata dei focolai epidemici.  Il Dipartimento dell’agricoltura (USDA)- sebbene in ritardo, quasi un anno dopo che il virus ha iniziato a circolare attraverso i bovini da latte-  ha annunciato un programma di esecuzione di test su campioni di latte non pastorizzato da grandi centri di stoccaggio ubicati negli  impianti di lavorazione del latte in tutto il paese al fine di individuare gli allevamenti infetti, ma senza includere il monitoraggio di altri animali da allevamento, per non parlare di quelli domestici.

Come detto i virus dell’influenza aviaria si agganciamo naturalmente ai recettori di tipo aviario presente negli uccelli. Diversamente i virus dell’influenza stagionale richiedono recettori di tipo umano abbondantemente espressi nelle vie aeree umane superiori.  Naturalmente, preoccupano sia i  suini che dispongono di entrambi i tipi di recettori e per tale ragione fungono da vasi di miscelazione ideali con lo scambio di geni di entrambi i virus,  che altre specie animali. Difatti lo studio citato ha rilevato nei gatti entrambi i tipi di recettori nel cervello, nei polmoni e nel sistema gastrointestinale, il che li rende ospiti ideali di entrambi i virus. Man mano che la stagione influenzale riprende nelle prossime settimane negli USA, aumentano anche le probabilità che i gatti vengano infettati contemporaneamente da H5N1 e da un virus dell’influenza stagionale. L’acquisizione della specificità del recettore di tipo umano è necessaria per la trasmissione da uomo a uomo del virus influenzale ed è uno dei principali fattori considerati per il rischio di pandemia di un nuovo ceppo animale di influenza aviaria.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP




Focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione

La SIMeVeP in collaborazione con ADMV, Associazione Donne Medico Veterinario, ha organizzato per il 18 dicembre il Webinar dal titolo “Focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione” tenuto dalla dottoressa Silvia Fiorina e dal dottor Marco Cecchetto del Gruppo di lavoro SIMeVeP “Farmaco veterinario e Antibioticoresistenza”.

L’incontro, rivolto esclusivamente ai medici veterinari, è stato organizzato per rispondere a domande pratiche e prevenire errori che potrebbero causare sanzioni. Verranno affrontate le problematiche legate alla gestione delle prescrizioni, all’uso di farmaci generici e alla complessa situazione del mercato, dove la scarsità di farmaci veterinari specifici spesso costringe i professionisti a scelte difficili.

Il convegno rappresenta un’occasione unica per acquisire chiarezza sulle novità normative e per ricevere linee guida operative da massimi esperti del settore.

Info sull’evento




Ferri: PSA tra fattori di rischio e di protezione

L’EFSA in un rapporto scientifico del 4 Dicembre 2024 dal titolo ‘Fattori di rischio e di protezione per la Peste suina africana nei suini domestici e nei cinghiali nell’UE e misure di mitigazione per la gestione della malattia nei cinghiali’, utilizzando revisioni delle pubblicazioni scientifiche, studi sul campo, questionari e modelli matematici, individua e valuta cinque aspetti epidemiologici della PSA.

In primo luogo i risultati della revisione della letteratura e di uno studio caso-controllo negli allevamenti di suini commerciali, sottolineano l’importanza dei fattori di rischio legati alla biosicurezza e pratiche agricole, compresa la diffusione del letame intorno agli allevamenti e l’uso di materiale da lettiera, mentre l’uso di reti anti-insetti svolge una azione protettiva. Per quanto riguarda la densità dei cinghiali, ritenuto essere un fattore rilevante dal punto di vista epidemiologico, i modelli statistici e meccanicistici utilizzati non hanno evidenziato un effetto chiaro e coerente sull’epidemiologia della PSA negli scenari selezionati, diversamente da altri fattori ambientali, come vegetazione, altitudine, clima e barriere che influenzando la connettività della popolazione, svolgono un ruolo epidemiologico chiave per la PSA nei cinghiali.

Riguardo alla presenza e sorveglianza di Ornithodoros erraticus sembra che questa zecca non abbia avuto alcun ruolo nell’attuale epidemia di PSA nelle aree colpite dell’UE. Le prove scientifiche disponibili suggeriscono invece che le mosche delle stalle e i tafani sono esposti alla PSA, hanno la capacità di introdurre l’infezione negli allevamenti e trasmetterla ai suini, anche se non è chiaro se ciò si verifichi e, in caso affermativo, in che misura.

Molto si è parlato delle recinzioni, ricordiamo quelle costruite in Danimarca lungo i confini con la Germania, dopo i primi focolai in quest’ultimo paese nel 2020 nei cinghiali nelle zone immediatamente adiacenti al confine con la Polonia. Ebbene la ricerca e l’esperienza sul campo dei paesi colpiti nell’UE dimostrano che il loro uso, potenzialmente abbinato alle infrastrutture stradali esistenti, insieme ad altri metodi di controllo come l’abbattimento e la rimozione delle carcasse di cinghiali, può ridurre efficacemente i movimenti dei cinghiali contribuendo alla gestione della PSA in natura. Le recinzioni possono contribuire a controllare l’infezione in entrambi gli scenari di introduzioni focali e diffusione a onde. In ultimo, i vaccini. Si è dimostrato che l’uso dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) come contraccettivo immunitario, ha il potenziale, come strumento complementare, di ridurre e controllare le popolazioni di cinghiali. Tuttavia, lo sviluppo di un vaccino orale GnRH per i cinghiali richiede ulteriori studi scientifici.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP

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