Lo strano caso del gatto di Arezzo, vittima dello spillover di un Lyssavirus

gattoÈ fine giugno 2020 quando ad Arezzo in un gatto viene accertato un raro caso di infezione da Lyssavirus, un genere che comprende 17 specie e annovera fra i suoi membri anche il virus della rabbia. L’animale muore per una malattia neurologica compatibile con la rabbia, dopo aver morso la proprietaria e alcuni veterinari, fortunatamente senza ulteriori conseguenze per animali e persone residenti in quella zona.

Il virus viene prontamente isolato dal Centro di referenza nazionale per la rabbia dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), da un campione di cervello dell’animale, e identificato come West Caucasian Bat Lyssavirus (WCBV). Come è andata a finire?

Il silenzioso viaggio del West Caucasian Bat Lyssavirus

Finora il WCBV era stato rilevato solo un’unica volta nel 2002 in un pipistrello del Caucaso, in Russia. Il WCBV è un virus tipico dei pipistrelli, ma diverso da quello della rabbia classica; tuttavia negli animali infetti determina una sintomatologia clinica identica con un’encefalite che si manifesta con aggressività anomala, come è accaduto nel gatto di Arezzo.

Ben si comprende, quindi, come l’isolamento del virus in Italia – il secondo al mondo – fosse già di per sé un fatto piuttosto raro; ma il vero ‘rompicapo scientifico’ è stato riconoscere la dinamica del salto di specie (spillover) dal pipistrello al gatto.

In tempo di pandemia, dove i pipistrelli sono sotto la lente della comunità scientifica, la questione non è secondaria. Un anno dopo, grazie a indagini approfondite, i ricercatori hanno ricostruito il meccanismo dello spillover fra le due specie animali in un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Viruses.

Il tunnel dei miniotteri

L’indagine epidemiologica si è concentra subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli. Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, dove è stato scoperto un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia.

L’indagine epidemiologica si è concentrata subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli presenti nella zona mediante osservazioni visive, analisi bioacustiche e utilizzo di foto-trappole, per capire quali fossero le aree di rifugio dei pipistrelli. La task force di esperti ha visto la partecipazione oltre che dell’IZSVe, anche di IZS Lazio e Toscana, Cooperativa Studi Ecologici e Ricerca Natura ed Ambiente (STERNA), Regione Toscana, AUSL Toscana SudEst di Arezzo e Ministero della Salute.

Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, lungo circa 2 km, che i ricercatori hanno perlustrato periodicamente anche due volte al mese, a partire da agosto 2020 giungendo infine alla scoperta: al suo interno è stato identificato un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), appartenente a una popolazione che in genere varia fra 40 e 425 individui a seconda della stagione, la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia. La medesima popolazione frequenta la zona solo in alcuni momenti dell’anno, tra aprile e giugno e poi di nuovo da agosto a ottobre, ed è oggi sotto stretto monitoraggio.

Per comprendere se ci fossero altre specie di pipistrello nella zona oltre ai miniotteri il team multidisciplinare ha effettuato un’analisi degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli – classificati in ecolocalizzazioni, ronzii di alimentazione e chiamate sociali – che hanno permesso di identificare anche esemplari di Pipistrellus kuhliiHypsugo savii (specie tipiche delle nostre città) e altre specie più sporadiche. Ma il tunnel era visitato anche da altri avventori, come hanno dimostrato le immagini scattate dalla foto-trappole piazzate ai due ingressi: sono stati immortalati gatti, ricci, uccelli e… tre persone!

Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanza, i virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli. La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città; questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti.

Parallelamente, nello stesso periodo, sono stati effettuati quattro campionamenti che hanno consentito di stabilire età, genere e stato fisiologico degli animali. La raccolta di campioni di sangue (190) e saliva (268) è servita invece per verificare la presenza del virus e degli anticorpi; dalle analisi di laboratorio si è visto che gli individui di questa colonia mostravano anticorpi neutralizzanti contro il WCBV, ma nessun virus nei tamponi salivari. Per contro, le carcasse di altre specie di pipistrelli erano tutte negative sia per il virus che per gli anticorpi. Infine, le analisi genetiche hanno rivelato che il genoma virale di WCBV rinvenuto ad Arezzo possiede un’elevata similitudine con quello del pipistrello russo trovato nel 2002.

La lezione del gatto di Arezzo

Quello che sappiamo di WCBV è legato a una casistica piuttosto ridotta, ma la sua parentela con il virus della rabbia ha fatto sì che fossero attivate tempestivamente tutte le misure controllo e monitoraggio di persone e animali, necessarie a scongiurare il ripetersi dell’emergenza. Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanzai virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli.

La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città. Questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti. Per questo, la sua presenza ad Arezzo è stata una sorpresa, particolarmente apprezzata da un predatore quale il gatto, ponendo un potenziale rischio per la salute pubblica e la conservazione dei pipistrelli. Come già successo in altri contesti, è possibile questi animali si siano spostati a seguito di un’alterazione o distruzione del loro habitat naturale da parte dell’uomo, rendendoci così i veri detonatori dello spillover.

Fonte: IZS Venezie




IZS Ler: zanzara coreana sempre più presente in Lombardia

I giornali e diversi siti internet presentano alla nostra attenzione un nuovo tipo di zanzara: la zanzara coreana, la cui segnalazione è sempre più frequente in Lombardia ed è stata rinvenuta anche dai nostri laboratori nei monitoraggi ordinari per la West Nile (malattia trasmessa da zanzare) e tramite le attività previste da uno specifico progetto di ricerca finanziato dal Ministero della Salute. Le caratteristiche di resistenza alle basse temperature fanno sì che la probabilità di impiantarsi stabilmente nei nostri territori sia sempre più alta.

Questa zanzara è in grado di trasmettere alcune filarie ed è stata segnalata come possibile vettore di encefalite giapponese in Russia; è stata in grado di trasmettere il virus del Chikungunya in laboratorio, ma la sua capacità di trasmettere malattie pericolose per l’uomo non è ancora caratterizzata con precisione.
L’areale d’origine della zanzara Aedes koreicus, comunemente detta zanzara coreana, è compreso fra il Giappone, il Nord-Est della Cina, la Corea e parte della Russia. Come la più nota zanzara tigre, questa zanzare è stata in grado di espandere negli ultimi anni il suo areale, arrivando in paesi nei quali non era presente. Questa espansione, legata all’ecologia della specie, è probabilmente dovuta al trasporto di uova o larve con il commercio internazionale, anche se l’esatta via di introduzione della zanzara coreana non è nota.

La prima segnalazione della specie in Europa risale al 2008 in Belgio, oggi la specie è segnalata in Svizzera, Germania, Ungheria, Austria, Slovenia, sulle Coste del Mar Nero ed Italia. La prima segnalazione Italiana risale al 2011 in Veneto, successivamente è stata rilevata in Trentino Alto Adige, Liguria e Lombardia. IZSLER ha attivamente monitorato l’espansione della zanzara coreana, rilevando la sua presenza in Lombardia, al confine con la Svizzera, già dal 2014. La presenza di questa zanzara è stata quindi confermata nelle province di Como e Sondrio, ma anche nelle province di Lecco, Bergamo, Varese e Milano, in particolare grazie ad un progetto di ricerca IZSLER attivato per definire la distribuzione delle specie di zanzare invasive nei territori di Lombardia e Emilia-Romagna (PRC2017_004)al quale hanno collaborato la virologia della Sede, la sede territoriale di Reggio-Emilia e le sedi di Sondrio e Binago. In Emilia-Romagna la zanzara coreana non è ancora stata rilevata.

Le preferenze alimentari della zanzara coreana non sono conosciute ma può pungere l’uomo, sia di giorno che di notte, anche se è meno aggressiva della zanzara tigre. Può condividere con la zanzara tigre le raccolte d’acqua di origine artificiale che fungono da focolai larvali. La capacità di produrre uova diapausanti (resistenti alle basse temperature) gli permette di superare gli inverni dei climi temperati. La zanzara coreana preferisce condizioni di temperatura inferiori rispetto alla zanzara tigre, occupa quindi zone con temperature medie più basse, dove la zanzara tigre si stabilisce con maggiore difficoltà; è quindi maggiormente presente in zone marginali per la zanzara tigre, in particolare le zone collinari ed è stata campionata in Italia fin sopra i 1200 m. Gli adulti non sono comunque in grado di superare la stagione fredda.

Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Prima segnalazione di leptospirosi nel lupo in Europa

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie, in funzione delle lesioni riscontrate e come previsto tra le attività di un progetto di ricerca (RC 16/18 per Echinococcus multilocularis).

Approcci sierologico e molecolare per identificare la leptospira

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie in funzione delle lesioni riscontrate. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117), un ceppo la cui circolazione in Italia è nota nel suino e nel cane.

Dai primi approfondimenti diagnostici biomolecolari è stata evidenziata la presenza di una leptospira patogena a livello renale, mentre dall’esame sierologico per ricerca anticorpi – sempre nei confronti di leptospira – è stata osservata la presenza di reattività verso tre sierogruppi: GrippotyphosaPomona, Icterohaemorrhagiae. Dall’esame istopatologico del rene è emersa una nefrite interstiziale cronica.

Successivamente i campioni sono stati inviati al Centro di referenza nazionale per la leptospirosi dell’IZS Lombardia ed Emilia-Romagna per la tipizzazione molecolare, la fase in cui vengono assegnati nome e cognome al patogeno. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117).

Si tratta di un ceppo la cui circolazione in Italia è già nota nel suino e nel cane, mentre nel cinghiale (Sus scrofa) è stata finora rilevato il sierogruppo Pomona, serovar Pomona. È verosimile che la serovar Mozdok possa circolare anche nel cinghiale, vista l’omologia di specie rispetto al suino domestico e che il cinghiale possa rappresentare un serbatoio di infezione per il lupo; dal punto di vista epidemiologico, il rapporto preda-predatore tra cinghiale e lupo è compatibile con una trasmissione diretta o indiretta dell’infezione.

Il lupo in questo caso rappresenterebbe più una vittima accidentale che un serbatoio di infezione, quindi un interessante epifenomeno e sentinella della diffusione di sierogruppi di leptospira nel territorio. Il rilevamento è stato pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH).

Lupo e leptospirosi in Friuli Venezia Giulia

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani, nonostante un’ampia diffusione della vaccinazione, e rappresenta anche un’importante zoonosi. La malattia è compresa tra quelle elencate come prioritarie nel Piano di sorveglianza della fauna selvatica del Friuli Venezia Giulia.

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani. Nei carnivori selvatici il riscontro di quadri patologici da leptospira non è frequente: in Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo. La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino.

In ambito selvatico sono riconosciuti serbatoi di infezione, in particolare tra i roditori; nei carnivori selvatici sono state riscontrate positività sierologiche, sebbene il riscontro di quadri patologici da leptospira non sia frequente. In Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo; riscontri di positività sierologiche sono stati documentati in Spagna, mentre analisi condotte in centro Italia sono risultate negative.

La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino. L’espansione del lupo italico (Canis lupus italicus) dagli Appennini alle Alpi e l’incontro con esemplari provenienti dalle aree dinarico-balcaniche (Canis lupus lupus) hanno dato origine a nuclei familiari nel Nord-est che si stanno stabilizzando. A parte presenze sporadiche di soggetti provenienti dalla Slovenia, la prima coppia di lupi formatasi sul territorio è stata individuata nel 2013 e attualmente si stimano circa 15-25 esemplari in tutta la Regione.

Il lupo (Canis lupus) è una di quelle specie protette, insieme allo sciacallo dorato (Canis aureus), alla lontra (Lutra lutra) e al gatto selvatico (Felis silvestris), attorno alle quali negli ultimi anni in Friuli Venezia Giulia si è sviluppata la collaborazione scientifica tra vari enti, come l’IZSVe, l’Università di Udine, il Museo di Storia Naturale di Udine e il Corpo Forestale Regionale.

Le indagini sanitarie nelle specie selvatiche, che continuano ad essere svolte, consentiranno di raccogliere ulteriori informazioni epidemiologiche sulla distribuzione di ceppi di Leptospira sul territorio.

Fonte: IZS delle Venezie




Nasce il Centro di Referenza Regionale dedicato all’Elicicoltura

La 50ª edizione del Convegno Internazionale di Elicicoltura, promosso dall’Istituto Internazionale di Elicicoltura Cherasco è stato il momento centrale di Helix 2021. Hanno partecipato al convegno i massimi esponenti della Sanità Veterinaria italiana e internazionale. Sono intervenuti infatti il Consigliere dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale, Romano Marabelli, il Direttore generale della Sanità animale e dei farmaci veterinari, Pierdavide Lecchini, il Sottosegretario di Stato al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, e Giorgio Maria Bergesio, Componente della IX Commissione Permanente Agricoltura e Produzione agroalimentare del Senato della Repubblica Italiana.

Con loro hanno dialogato il Direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, Angelo Ferrari, e il Presidente dell’Istituto Internazionale di Elicicoltura di Cherasco, Simone Sampò.

Al termine del convegno il Direttore generale dell’IZSPLV, Angelo Ferrari, ha annunciato la futura nascita di Centro di Referenza Regionale dedicato proprio all’Elicicoltura con sede di Cuneo.

Fonte: IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta

 




Virus Yezo: scoperto in Giappone un virus precedentemente sconosciuto collegato a una malattia infettiva “emergente”

In Giappone è stato scoperto un nuovo virus che può essere trasmesso da punture di zecca. Soprannominato virus Yezo (YEZV), può causare febbre e altri sintomi negli esseri umani. Un caso della misteriosa malattia è stato registrato nel 2019 dopo che un uomo di 41 anni è stato ricoverato in ospedale con sintomi, tra cui febbre e dolore alle gambe, ha riportato l’Università di Hokkaido in un comunicato stampa. L’uomo è stato punto da un “artropode ritenuto una zecca”, ma i test hanno rivelato che non era infetto da nessuno dei virus delle zecche conosciuti nella regione. Sebbene l’uomo sia stato dimesso dall’ospedale dopo due settimane, un anno dopo è stato segnalato un altro caso della misteriosa malattia, con il paziente che mostrava sintomi simili.

Nuovo orthonairovirus 

In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, un team di ricercatori ha identificato il nuovo orthonairovirus attraverso l’analisi genetica dei campioni di sangue raccolti dai due pazienti. Inoltre, sono stati analizzati campioni di sangue di 248 pazienti sospettati di avere una malattia trasmessa da zecche e hanno scoperto che c’erano in totale sette casi dal 2014 al 2020. Il virus “YEZV è filogeneticamente raggruppato con il virus Sulina rilevato nelle zecche Ixodes ricinus in Romania”. Il nome del nuovo virus fa riferimento allo storico nome giapponese di Hokkaido, il luogo in cui è stata scoperta la malattia. Per individuare il serbatoio naturale del virus a Hokkaido, il team di ricercatori ha esaminato campioni di siero raccolti da animali selvatici a Hokkaido dal 2010 al 2020. Nei cervi e procioni shika di Hokkaido sono stati trovati anticorpi di YEZV; inoltre è stato identificato l’RNA YEZV in “tre principali specie di zecche” raccolte dal 2016 al 2020. “Abbiamo dimostrato che dal 2014 almeno sette pazienti sono stati infettati da YEZV e che animali selvatici e zecche potrebbero essere potenziali serbatoi del virus, suggerendo che l’infezione da YEZV è endemica in quest’area”, il team di ricercatori comunica.

Fonte: IZS Teramo

 




Nuove specie di flebotomi in Pianura Padana

Uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha riportato la presenza di alcune specie di flebotomi in aree della Pianura Padana dove non erano mai stati segnalati prima, e che possono trasmettere la leishmaniosi nei cani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Parasites & Vectors.

Identikit dei flebotomi

flebotomi o ‘pappataci’ sono piccoli ditteri ematofagi, vettori di diversi patogeni, tra i quali i più noti sono i protozoi del genere Leishmania e i virus del genere Phlebovirus. L’insetto adulto ha dimensioni ridotte (2-4 mm di lunghezza), è di color sabbia e ha il corpo e le ali ricoperti da una fitta peluria, grazie alla quale è in grado compiere un volo silenzioso e di nutrirsi senza emettere alcun rumore (da cui il nome ‘pappatacio’: “mangia e taci”).

Uno studio condotto da ricercatori dell’IZSVe ha riportato la presenza di alcune specie di flebotomi in aree della Pianura Padana dove non erano mai stati segnalati prima. Dal 2017 al 2019 sono stati catturati più di 300 esemplari grazie alle trappole utilizzate per la sorveglianza entomologica della West Nile Disease. Di notevole interesse il ritrovamento per la prima volta in Veneto e Friuli Venezia Giulia della specie Phlebotomus perfiliewi (vettore di Leishmania infantum e Toscana virus), specie che aveva il suo limite di distribuzione al Nord Italia sull’Appennino emiliano.

In Italia sono presenti otto specie e le più comuni sono P. papatasiP. perniciosus e P. perfiliewi. I flebotomi sono molto comuni nelle aree del Centro e Sud Italia, mentre sono meno abbondanti nelle regioni settentrionali; qui sono confinate ad aree collinari e pedemontane, caratterizzate da un’altitudine compresa tra 100 e 800 metri, vegetazione abbondante e clima mite.

Espansione verso nord e in Pianura Padana

In studi sulla distribuzione di questi vettori condotti in passato era spesso riportato che “i flebotomi sono assenti in Pianura Padana”. Il motivo non è mai stato ben chiarito; probabilmente le condizioni climatiche e geologiche della pianura Padana non erano idonee allo sviluppo delle diverse specie di flebotomi.

Tuttavia, negli ultimi anni venivano segnalati sporadici ritrovamenti di alcuni esemplari di questo insetto. Partendo da questi “insoliti ritrovamenti” il Laboratorio di parassitologia, micologia ed entomologia sanitaria dell’IZSVe ha cominciato a raccogliere tutti gli esemplari di flebotomi che venivano catturati accidentalmente con le trappole utilizzate per la sorveglianza entomologica della West Nile Disease, quindi utilizzate per la cattura delle zanzare.

Dal 2017 al 2019 sono stati catturati più di 300 esemplari appartenenti alle specie Phlebotomus perniciosusP. perfiliewiP. mascittii e Sergentomyia minuta in aree di pianura, sia in ambienti rurali che peri-urbani. È stata osservata un’estensione dell’areale di distribuzione dei flebotomi, la cui presenza è stata segnalata in zone a maggiori latitudini e a diverse altitudini (addirittura anche a -2 metri), ambienti che si discostano da quelli tradizionalmente considerati idonei allo sviluppo di questi insetti. Di notevole interesse il ritrovamento per la prima volta in Veneto e Friuli Venezia Giulia della specie P. perfiliewi (vettore di Leishmania infantum e Toscana virus), specie che aveva il suo limite di distribuzione al Nord Italia sull’Appennino emiliano.

Sebbene in queste aree il numero di esemplari trovati è comunque limitato e inferiore a quello osservato negli ambienti tipicamente abitati dai flebotomi, la presenza di un vettore di patogeni in aree considerate ‘free’ è di grande rilevanza. Quindi, anche in Pianura Padana bisogna cominciare a porre attenzione nel proteggere i propri animali domestici (il cane principalmente) dalle punture di questi insetti, utilizzando prodotti repellenti registrati per la prevenzione della leishmaniosi.

Fonte: IZS delle Venezie




Trichinella in una lupa in provincia di Arezzo

I laboratori della sezione di Arezzo dell’IZS Lazio e Toscana hanno riscontrato larve di Trichinella britovi (come da conferma del Laboratorio nazionale di Riferimento presso l’Istituto Superiore di Sanità) nel muscolo tibiale anteriore di una lupa trovata morta nel comune di Subbiano, probabilmente a seguito di trauma stradale.

Nelle regioni Toscana e Lazio vi sono state altre segnalazioni del parassita negli scorsi anni:

  • marzo 2013: riscontro di larve Trichinella in una volpe ancora in provincia di Arezzo
  • gennaio 2013: ventisei persone, tra cacciatori e loro familiari, sono state colpite da trichinellosi nell’Alta Val del Serchio a seguito dell’ ingestione di salsicce di cinghiale crude contaminate;
  • Nella stagione venatoria 2019-2020 la sezione di Latina dell’IZS Lazio e Toscana ha identificato larve di Trichinella nelle carni di cinghiali abbattuti a caccia, poi identificate come appartenenti alla specie Trichinella britovi

Tutte le informazioni sulla trichinellosi sul sito dell’IZS LT




Procedure operative per prevenire l’infestazione da Baylisascaris procyonis

Baylisascaris procyonis è un nematode endemico del Nordamerica e sporadicamente segnalato in altri Paesi: in Italia è stato segnalato per la prima volta nel 2021 da 5 procioni abbattuti nel territorio del  Casentino (AR).

L’infestazione è tipica del procione (ospite definitivo) e occasionalmente di altri carnivori, tra cui il cane, nei quali decorre in modo asintomatico con lo sviluppo di nematodi adulti  nell’intestino tenue (20-22 cm le femmine e 9-11 cm i maschi).

Numerosi ospiti paratenici (principalmente roditori, lagomorfi e uccelli selvatici) possono infestarsi sporadicamente attraverso l’ingestione di feci contenenti uova infettanti.

Operatori che a vario titolo manipolano procioni ed i soggetti di età pediatrica possono contagiarsi attraverso l’ingestione accidentale di feci o di materiale fecalizzato.

La maggior parte dei casi di contagio umano è stata riportata negli Stati Uniti.

Nonostante la baylisascariasi sia una rara zoonosi, la malattia nell’uomo è caratterizzata da evoluzione clinica molto grave legata alla migrazione larvale.

Sintomi aspecifici come: febbre, letargia e nausea possono svilupparsi già una settimana dall’esposizione. Le larve migrano attraverso una grande varietà di tessuti (fegato, cuore, polmoni, cervello, occhi) producendo una sindrome da larva migrans viscerale e larva migrans oculare, simili alla toxocariasi. Tuttavia, prediligendo il sistema nervoso centrale, a differenza delle larve di Toxocara, quelle di Baylisascaris si sviluppano fino a grandi dimensioni determinando gravi lesioni. Le anomalie neurologiche tendono a comparire da 2 a 4 settimane dopo l’ingestione di uova infettanti, come esito della meningoencefalite eosinofila, e comprendono alterazione dello stato mentale, irritabilità, anomalie cerebellari, atassia, stupor e coma. I trattamenti elminticidi sono spesso inefficaci a causa dei ritardi nella diagnosi e della scarsa attività larvicida nei confronti delle larve a localizzazione encefalica.

Pertanto, l’informazione e la prevenzione sono strumenti necessari per limitare il contagio.

L’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana ha elaborato per la Regione Toscana delle Procedure operative per la manipolazione dei procioni e delle carcasse durante le fasi di abbattimento e cattura per prevenire il rischio di trasmissione all’uomo.




Appunti di scienza: medicina forense veterinaria

Nuova uscita per “Appunti di scienza”, la collana di materiali editoriali realizzata dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) per la divulgazione di temi di sanità animale e sicurezza alimentare.

Il nuovo numero vuole informare i lettori sulla medicina forense veterinaria, ripercorrendo la storia e l’evoluzione di questa disciplina e introducendo ai principali riferimenti della legislazione italiana che tutela gli animali. L’opuscolo presenta inoltre gli obiettivi e le attività del Centro specialistico dipartimentale di medicina forense veterinaria dell’IZSVe.

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Fonte: IZS Venezie




Parere CNSA – Virus SARS-COV-2 e alimenti

Parere CNSA – Virus SARS-COV-2 e alimenti

A cura di Ministero della Salute, CNSA

Anno 2021

Abstract

In considerazione dell’importanza e attualità dell’argomento e di specifiche richieste di chiarimento avanzate dalla Sezione consultiva delle Associazioni dei consumatori e dei produttori e da altri portatori di interesse, la Sezione Sicurezza Alimentare ha ritenuto opportuno procedere ad un’analisi delle conoscenze attuali in merito al rapporto tra virus e alimenti.

Sulla base degli studi attualmente presenti a livello internazionale, in attesa di possibili modifiche e/o precisazioni successive, si può concludere che non sono presenti evidenze scientifiche che permettano di affermare che il virus SARS-CoV-2 si trasmetta per via alimentare, attraverso gli alimenti crudi o cotti. In condizioni normali, non ci sono ancora prove che gli imballaggi contaminati trasmettano l’infezione e il rischio di contagio del virus SARS-CoV-2 attraverso i materiali, il packaging e le superfici a contatto con gli alimenti appare trascurabile.

Le più importanti misure di prevenzione che i lavoratori dedicati alla distribuzione e vendita degli alimenti devono applicare sono il distanziamento fisico, la buona igiene personale con frequente lavaggio delle mani e l’applicazione delle generali regole per l’igiene degli alimenti.

Ai consumatori si ricorda che nel corso della spesa è bene mantenere la distanza di almeno 1 metro e mezzo tra le persone, sanitizzare il carrello o il cestino, sanitizzare le mani prima e dopo l’utilizzo del carrello o del cestino e/o proteggere le mani con guanti da eliminare in appositi contenitori finita la spesa, oltre che usare la mascherina correttamente indossata tutto il tempo di permanenza al supermercato. A casa, non è necessario disinfettare gli involucri che contengono gli alimenti, ma lavare le mani dopo aver manipolato le confezioni. Mentre le temperature utilizzate per la cottura sono sufficienti per inattivare il coronavirus, le temperature di refrigerazione e congelamento non sembrano causare una riduzione della vitalità del virus. Il lavaggio con solo acqua potabile sembra essere sufficiente per sanificare la frutta e la verdura.

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Fonte: Ministero della Salute