Peste suina africana (PSA): le indicazioni di ISPRA

Peste Suina AfricanaIl 7 gennaio scorso è stata confermata dal Centro di Referenza Nazionale per le Pesti suine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche “Togo Rosati”  la presenza della peste suina africana (PSA) al confine tra Piemonte e Liguria.

Il Ministero della Salute con il supporto dell’Unità di Crisi Centrale e il Gruppo di Esperti in materia di PSA, ai quali ISPRA partecipa, sta attivando con urgenza le procedure sia per la delimitazione dell’area infetta sia per contrastare l’ulteriore diffusione della malattia.

In considerazione delle possibili gravi ripercussioni per il comparto suinicolo e i settori produttivi ad esso collegati, è infatti di cruciale importanza limitare la diffusione della PSA attraverso l’adozione di drastiche misure di biosicurezza, che dovranno riguardare anche lo svolgimento dell’attività venatoria. Si apre una fase in cui la gestione del cinghiale nelle aree infette e nelle zone circostanti richiederà uno sforzo molto impegnativo alle Regioni e alle Aree protette interessate, alle quali ISPRA garantisce fin da subito il proprio supporto tecnico, in stretto coordinamento con le autorità sanitarie.

La PSA è una malattia infettiva altamente contagiosa in grado di provocare un’elevata mortalità nei suidi sia domestici sia selvatici di qualsiasi età e sesso. Il virus rimane vitale per lungo tempo anche dopo la morte dell’animale, rendendo le carcasse ancora infettanti e in grado di trasmettere il virus. Per tale motivo è di cruciale importanza la segnalazione immediata del ritrovamento di cinghiali morti, anche se incompleti o in avanzato stato di decomposizione, ai Servizi Veterinari localmente competenti (anche per tramite di Carabinieri forestali, Polizia provinciale, Polizia locale).

Chiarimenti di ISPRA in materia di gestione della Peste suina africana
Perché è importante sospendere qualsiasi tipo di attività venatoria nella zona infetta da Peste suina africana?

Perché si tratta di attività che comportano un duplice rischio: la movimentazione di cinghiali potenzialmente infetti sul territorio, soprattutto conseguente al ricorso di tecniche che utilizzano i cani, e la diffusione involontaria del virus attraverso calzature, indumenti, attrezzature e veicoli.

Perché è importante regolamentare qualsiasi tipo di attività venatoria nell’area confinante con la zona infetta (entro 10 km dal confine)?

Perché, considerati i rischi che comporta per la diffusione della Peste suina africana, è importante che siano adottate modalità di prelievo venatorio, volte a limitare al massimo il disturbo ai cinghiali per non aumentarne la mobilità, unitamente a misure di biosicurezza in grado di ridurre il rischio di diffusione del virus come effetto della contaminazione di indumenti, scarpe, materiali e veicoli.

La comparsa della Peste suina africana è dovuta alle elevate densità di cinghiale?

No, la comparsa del virus è totalmente indipendente dalle densità di cinghiale. Le popolazioni di cinghiale infette più vicine all’Italia vivono a diverse centinaia di km di distanza. La comparsa dell’infezione nel cinghiale in Piemonte e Liguria è sicuramente dovuta all’inconsapevole introduzione del virus da parte dell’uomo.

L’elevata densità del cinghiale favorisce la persistenza del virus?

La densità del cinghiale non ha effetti significativi sulla persistenza in natura della Peste suina africana. La notevole resistenza del virus nell’ambiente fa sì che la malattia continui a circolare per anni, anche in popolazioni di cinghiale a densità bassissime (es. circa 0,5/km2).

Allungare il periodo consentito per la caccia in braccata in questa fase epidemiologica è utile a prevenire la diffusione delle Peste suina africana?

No. In questa fase in cui è ancora in corso di definizione l’area effettivamente interessata dall’infezione, è anzi fortemente consigliato evitare qualsiasi attività che possa causare la dispersione degli animali sul territorio e con essa la possibile diffusione del virus, sia in modo diretto, aumentando la mobilità di eventuali cinghiali infetti, sia in modo indiretto, come effetto della contaminazione di indumenti, scarpe, materiali e veicoli.

Secondo le simulazioni effettuate, per poter rallentare significativamente la diffusione della Peste suina africana si dovrebbe rimuovere nel brevissimo periodo la quasi totalità della popolazione di cinghiale (circa il 90%), obiettivo irrealistico da raggiungere nella gran parte dei contesti presenti sul territorio nazionale.

La presenza del lupo contribuisce alla diffusione della Peste suina africana?

La presenza del lupo non appare avere effetti rilevanti sulla diffusione della Peste suina africana. Recenti studi effettuati in aree infette della Polonia, hanno verificato l’assenza totale del virus nelle feci di lupo, dimostrando che il passaggio nel tratto intestinale ne provoca la degradazione completa. Inoltre gli enzimi presenti nella saliva danneggiano la superficie esterna del virus limitandone l’infettività. Al contrario, il lupo potrebbe contribuire a limitare la circolazione della Peste suina africana sia predando di preferenza gli individui malati, sia consumando le carcasse infette.

Cosa fare se si trova una carcassa di cinghiale in un’area al di fuori della zona infetta?

Segnalarla immediatamente ai Servizi veterinari regionali, mediante il numero appositamente creato da ciascuna regione o eventualmente utilizzando il 112, fornendo indicazioni sull’ubicazione precisa e opportuna documentazione fotografica del ritrovamento.

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ISPRA sottolinea la necessità di seguire rigorosamente le indicazioni tecniche della autorità nazionali competenti (con le quali ISPRA collabora costantemente) e l’importanza cruciale della ricerca attiva delle carcasse di cinghiale, da segnalare immediatamente ai Servizi veterinari regionali in caso di ritrovamento.

Le indicazioni della autorità nazionali competenti sono articolate nei tre livelli territoriali individuati: zona infetta; area confinante con la zona infetta (entro 10 km dal confine); intero territorio nazionale.

Nella zona infetta è prioritario assicurare una gestione della popolazione di cinghiale coordinata e efficace, con l’unico scopo di ottenere nel breve periodo l’eradicazione del virus, condizione essenziale per riprendere le normali attività di allevamento, caccia, trekking, mountain biking, utilizzo del bosco e fruizione pubblica delle aree naturali in essere precedentemente all’epidemia.

Al di fuori della zona infetta e dell’area confinante, al momento l’unica prescrizione delle autorità nazionali competenti riguarda la movimentazione dei cinghiali vivi; resta ferma per le autorità locali competenti la possibilità di introdurre ulteriori misure restrittive.

Misure inerenti all’ambito faunistico

 Fonte: ISPRA




Escherichia coli resistenti agli antibiotici: un confronto genetico per comprendere la trasmissione della resistenza tra animali e uomo

antibioticoresistenzaI cloni di Escherichia coli che infettano o colonizzano l’uomo e gli animali allevati per la produzione di alimenti potrebbero circolare fra le diverse specie che li ospitano, scambiandosi geni che conferiscono meccanismi di resistenza agli antibiotici. Per questo è importante adottare un approccio One Health nella sorveglianza dell’antibiotico-resistenza dei batteri patogeni, analizzando e confrontando con metodi armonizzati il genoma di batteri isolati da matrici umane e animali.

A suggerirlo sono anche i risultati di un progetto di ricerca finanziato nel 2015 dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) e realizzato da 15 istituti italiani di sanità pubblica tra cui l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe). Lo studio è stato pubblicato di recente dalla rivista scientifica International Journal of Antimicrobial Agents.

Il problema sanitario degli E. coli resistenti agli antibiotici

Le beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) sono enzimi in grado di conferire ai batteri la capacità di resistere all’azione di vari antibiotici, in particolare alle cefalosporine di terza e quarta generazione. A partire dagli anni 2000 la ricerca scientifica ha evidenziato una progressiva diffusione di alcuni cloni di Escherichia coli in grado di produrre ESBL, isolati sia nell’uomo che in animali allevati per produrre alimenti. La ricerca scientifica sta quindi cercando di stabilire se i geni codificanti ESBL possono trasmettersi da un isolato all’altro di E. coli, venendo acquisiti dai ceppi che infettano maggiormente l’uomo.

Le beta-lattamasi a spettro esteso (Extended-Spectrum Beta-Lactamases, ESBL) sono enzimi in grado di conferire ai batteri la capacità di resistere all’azione di vari antibiotici, in particolare alle cefalosporine di terza e quarta generazione. Questi antibiotici sono utilizzati per il trattamento di alcune importanti infezioni batteriche umane, tra cui quelle sostenute da Klebsiella pneumoniae e quelle extra-intestinali causate da E. coli.

A partire dagli anni 2000 la ricerca scientifica ha evidenziato una progressiva diffusione di alcuni cloni di E. coli in grado di produrre ESBL, fra cui in particolare il clone denominato ST131, che hanno complicato considerevolmente la terapia di queste infezioni sia in comunità che in ambito ospedaliero.

Negli ultimi anni sono inoltre in aumento le segnalazioni di E. coli ESBL-produttori negli animali allevati per la produzione di alimenti.  Anche se il clone ST131 viene sporadicamente isolato in queste specie, i geni codificanti ESBL potrebbero trasmettersi da un isolato all’altro di E. coli, venendo acquisiti dai ceppi che infettano maggiormente l’uomo.

Su questa ipotesi la letteratura scientifica ha fornito sinora evidenze contrastanti: alcuni studi hanno rilevato in E.coli isolati dagli animali e dall’uomo i medesimi geni codificanti ESBL, mentre altri hanno evidenziato differenze fra i geni codificanti questi enzimi in relazione alle specie animali da cui i batteri erano isolati.

E. coli può inoltre disporre di altri geni che producono ulteriori meccanismi di resistenza agli antibiotici. Tra questi i geni che codificano le carbapenemasi, enzimi che conferiscono resistenza a diversi principi attivi tra i quali i carbapenemi, utilizzati nell’ambito della clinica umana per il trattamento di E. coli resistente alle cefalosporine di terza generazione, oppure i geni in grado di conferire resistenza alla colistina (mobile colistin resistancemcr), antibiotico salvavita somministrato per contrastare i batteri resistenti proprio ai carbapenemi, oltre che ad altri antibiotici.

Uno studio One Health sugli E.coli resistenti

Tra marzo 2016 e settembre 2017 è stato realizzato un ampio studio sulle caratteristiche di E. coli ESBL-produttori isolati in Italia sia dall’uomo che da diverse specie di animali allevati per la produzione di alimenti. Sono stati analizzati 925 isolati di E. coli ESBL-produttori raccolti da 12 ospedali e di 3 istituti zooprofilattici diversi, tra cui l’IZSVe. Gli isolati sono stati sottoposti a screening molecolare per verificare la presenza di geni codificanti ESBL, quindi classificati con ulteriori metodi molecolari in gruppi filogenetici e cloni.

Per comprendere quindi se gli animali e gli alimenti da essi derivati possono contribuire alla trasmissione delle resistenze verso le cefalosporine di terza e quarta generazione in batteri patogeni per l’uomo, tra marzo 2016 e settembre 2017 è stato realizzato un ampio studio sulle caratteristiche di E. coli ESBL-produttori isolati in Italia sia dall’uomo che da diverse specie di animali allevati per la produzione di alimenti.

Il progetto, che rappresenta uno dei primi esempi in Italia di approccio One Health nella ricerca sulle resistenze batteriche agli antimicrobici, ha coinvolto i laboratori di 12 ospedali e di 3 istituti zooprofilattici sperimentali situati in 6 diverse regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Lombardia, Lazio e Sicilia.

I partner del progetto hanno contribuito alla raccolta di 925 isolati di E. coli ESBL-produttori individuati durante le loro attività diagnostiche di routine. Di questi, 480 provenivano da matrici umane (urine o sangue) e 445 da matrici animali (feci o intestino). In particolare, gli isolati di origine animale sono stati prelevati da bovini (29,4%), suini (27,0%) e specie avicole (43,6%).

Questi isolati sono stati sottoposti a screening molecolare per verificare la presenza di geni codificanti ESBL e carbapenemasi; quindi sono stati tipizzati con ulteriori metodi molecolari per poterli classificare prima in gruppi filogenetici e successivamente, mediante Multilocus Sequence Typing (MSLT), in cloni. Negli isolati risultati resistenti alla colistina sono stati ricercati anche i geni da mcr-1 a mcr-5.

Screening molecolare

Nella quasi totalità degli isolati (97,7%) è stato possibile identificare uno o più geni codificanti ESBL. I geni del gruppo CTX-M sono risultati i più frequenti sia negli isolati umani che in quelli animali. In particolare, CTX-M-15 è risultato il gene più frequente nell’uomo (75,0%) e nei bovini (51,1%), CTX-M-1 era più diffuso nei suini (58,3%), mentre nel pollame è stato individuato con maggiore frequenza il gene CTX-M-15 (36,6%), unitamente a geni di tipo diverso (SHV e CMY-2, 29,9%).

Nella quasi totalità degli isolati (97,7%) è stato possibile identificare uno o più geni codificanti ESBL. I geni del gruppo CTX-M sono risultati i più frequenti sia negli isolati umani che in quelli animali. Gli isolati di origine umana appartenevano per lo più al filogruppo B2 (76,5%), mentre solo pochi isolati di origine animale (quasi tutti da pollame) sono stati classificati in questo gruppo (4,3%). I dati emersi dallo studio indicano che i cloni umani e animali di E. coli possono essere portatori degli stessi geni codificanti ESBL, per cui lo scambio di geni responsabili della codifica di meccanismi di resistenza tra ceppi batterici che infettano specie diverse è un fenomeno probabile.

Tra gli isolati di E.coli ESBL-produttori analizzati 14 (di cui solo uno di origine animale) sono risultati resistenti anche ai carbapenemi, anche se in nessuno di essi sono stati rilevati geni codificanti carbapenemasi. I ricercatori spiegano questa apparente contraddizione con la possibilità che all’origine della resistenza ci fossero geni o meccanismi di resistenza diversi da quelli investigati nello studio.

Gruppi filogenetici e cloni

L’analisi filogenetica ha permesso di classificare gli isolati in 7 diversi gruppi filogenetici (A, B1, B2, C, D, E, F). Come già noto, gli isolati di origine umana appartenevano per lo più al filogruppo B2 (76,5%), mentre solo pochi isolati di origine animale (quasi tutti da pollame) sono stati classificati in questo gruppo (4,3%). Gli isolati animali si distribuivano invece prevalentemente tra i gruppi A (35,7%), B1 (26,1%) e C (12,4%).

La tipizzazione effettuata con la tecnica MSLT ha rivelato poi che la maggior parte degli isolati di origine umana (83,4%) apparteneva al clone pandemico ST131, che era frequentemente portatore del gene CTX-M-15 (75,9%). Questo clone è stato rilevato solo raramente negli isolati di origine animale (solo 3 isolati, originati tutti da pollame).

Scambi genetici, un’ipotesi da approfondire

I dati emersi dallo studio indicano che gli isolati ESBL-produttori di E. coli responsabili di infezioni extra-intestinali nell’uomo e quelli che colonizzano gli animali allevati per la produzione di alimenti sono per lo più diversi, con il clone ST131 che si conferma poco diffuso negli animali.  Tuttavia, come già evidenziato in altri studi, i cloni umani e animali di E. coli possono essere portatori degli stessi geni codificanti ESBL.

Lo scambio di geni responsabili della codifica di meccanismi di resistenza tra ceppi batterici che infettano specie diverse è quindi un fenomeno probabile, soprattutto se sussistono fattori di rischio come l’impiego non prudente di antimicrobici; dovrà quindi essere indagato ulteriormente dalla comunità scientifica e monitorato dalle autorità sanitarie.

Infine 42 isolati analizzati nello studio sono risultati resistenti anche alla colistina; di questi 29 (3 provenienti da matrici umane e 26 da matrici animali) erano portatori del gene mcr-1, veicolato su elementi genetici mobili (i cosiddetti plasmidi) facilmente interscambiabili fra batteri diversi. Uno degli isolati da matrici umane apparteneva al clone ST131. Sulla base di queste evidenze, gli autori dello studio sottolineano l’importanza di mantenere una sorveglianza anche verso questo tipo di resistenza.

Fonte: IZS delle Venezie




Nuova definizione One Health promossa dal tripartito e l’ UNEP

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE), il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), collaborano da tempo  per essere pronti nel  prevenire, prevedere, rilevare e rispondere alle minacce per la salute globale e promuovere uno  sviluppo sostenibile.

In quest’ ottica di  integrazione raccolgono  la nuova definizione operativa di ONE HEALTH proposta dal loro comitato consultivo  OHHLEP (One Health High Level Expert Panel), costituito da esperti di alto livello  nei diversi settori politici e scientifici mondiali  inerenti il tema del ONE HEALTH.

Questa la definizione elaborata dal gruppo di esperti:

One Health è un approccio integrato e unificante che mira a bilanciare e ottimizzare in modo sostenibile la salute di persone, animali ed ecosistemi. Riconosce che la salute degli esseri umani, degli animali domestici e selvatici, delle piante e dell’ambiente in generale (compresi gli ecosistemi) sono strettamente collegati e interdipendenti. L’approccio mobilita più settori, discipline e comunità a vari livelli della società per lavorare insieme per promuovere il bene -essere e affrontare le minacce alla salute e agli ecosistemi, affrontando nel contempo la necessità collettiva di acqua, energia e aria pulite, cibo sicuro e nutriente, intervenendo sui cambiamenti climatici e contribuendo allo sviluppo sostenibile.

L’ OHHLEP ha sollevato per primo l’ importanza di introdurre una definizione completa di One Health, allo scopo di promuovere una comune  comprensione di quello che concerne l’ applicazione del suo approccio in tutti i settori e aree di competenza.

Il proseguio di attività specialistiche previste nei settori come salute, cibo, acqua, energia e ambiente si assocerà ad una  collaborazione tra le diverse  discipline al fine di proteggere la salute globale,  affrontando sfide sanitarie come la diffusione di zoonosi emergenti  e della resistenza antimicrobica,  promuovendo nel contempo la conservazione e la tutela  dell’ ecosistema.

L’ approccio adottato si può applicare su più livelli (regionale, nazionale, comunitario, globale) e si basa su più elementi come governance, comunicazione, collaborazione e coordinamento condivisi ed efficaci.

Come riportato sul sito dell’ OIE, il  Tripartito ( FAO, OIE, OMS) e l’UNEP continueranno a coordinare e implementare le attività in linea con lo spirito della nuova definizione OHHLEP di One Health.

Fonte: IZS Lazio e Toscana




Rapporto One Health dell’UE: calo nel 2020 dei casi di malattie zoonotiche riferite nell’uomo e delle infezioni veicolate da alimenti

Nel 2020 è stata la campilobatteriosi la zoonosi maggiormente segnalata nell’UE, con 120 946 casi contro gli oltre 220 000 dell’anno precedente, seguita poi dalla salmonellosi, che ha interessato 52 702 individui contro gli 88 000 dell’anno precedente. Il numero di infezioni veicolate da alimenti ha registrato un calo del 47%. Queste risultanze si basano sulle cifre contenute nell’annuale rapporto “One Health” (salute unica globale) dell’UE sulle zoonosi, curato dall’EFSA e dall’ECDC.

Per spiegare il notevole calo dei casi di malattie zoonotiche riferiti nell’uomo e di infezioni alimentari (tra il 7% e il 53% a seconda della malattia riferita), gli esperti hanno riconosciuto il ruolo determinante svolto in Europa dalla pandemia da COVID-19.

Tra i fattori che possono aver causato il calo nelle segnalazioni: i mutamenti avvenuti nel ricorso all’assistenza sanitaria, le limitazioni a viaggi ed eventi, le chiusure dei ristoranti, la quarantena e altre misure di contenimento come l’uso di mascherine, il distanziamento sociale e la frequente disinfezione delle mani.

Di seguito le malattie più segnalate sono state la yersiniosi (con 5 668 casi) e le infezioni causate da E.coli produttore di Shigatoxina (con 4 446 casi). La listeriosi è stata la quinta zoonosi più segnalata (con 1 876 casi) e ha colpito soprattutto persone di età superiore a 64 anni.

La listeriosi e le infezioni da virus del Nilo occidentale sono state le due malattie con i più alti tassi di mortalità e ricoveri ospedalieri. La maggior parte delle infezioni da virus del Nilo occidentale contratte in loco sono state riferite in Grecia, Spagna e Italia.

Il rapporto esamina anche le infezioni veicolate da alimenti, ovvero eventi durante i quali almeno due persone contraggono la stessa malattia consumando il medesimo cibo contaminato. Un totale di 3 086 focolai infettivi di origine alimentare sono stati segnalati nel 2020. Salmonella è rimasta l’agente infettivo più frequentemente rilevato, causa del 23% dei focolai. Le più comuni fonti di salmonellosi sono state uova, ovoprodotti e carne di maiale.

Si riportano anche dati su Mycobacterium bovis/caprae, Brucella, Yersinia, Trichinella, Echinococcus, Toxoplasma gondii, rabbia, febbre Q e tularemia.

L’EFSA pubblica quest’oggi anche due pagine web per comunicare in maniera interattiva sulle infezioni veicolate da alimenti: una story map e un dashboard. La story map fornisce informazioni generali sulle infezioni alimentari, i loro agenti causali e gli alimenti che fungono da loro veicolo. Il dashboard consente agli utenti di cercare e interrogare la gran mole di dati sulle infezioni alimentari collazionati dall’EFSA e trasmessi da Stati membri dell’UE e altri Paesi dichiaranti sin dal 2015.

Fonte: EFSA




Parere CNSA – Echinococcosi cistica: conoscenze attuali e suggerimenti per la prevenzione e il controllo della diffusione

L’Echinococcosi cistica (EC) è una malattia cronica disabilitante di origine parassitaria, diffusa in tutto il mondo e storicamente endemica in Italia, che costituisce un caso esemplare di one-health, coinvolgendo l’uomo, i cani, gli animali da reddito, l’ambiente e i prodotti alimentari.

Su scala internazionale, nonostante lo svolgimento di importanti programmi di ricerca, sussistono ancora numerose incertezze scientifiche e diverse criticità che non consentono di delineare un preciso quadro epidemiologico, sia per l’uomo che per gli animali. Nonostante, quindi, sia difficile calcolare con precisione l’onere sanitario ed economico dell’echinococcosi, si stima che tale patologia sia responsabile di perdite economiche significative nel settore della sanità pubblica. A livello globale, uno studio del 2006 ha stimato costo di almeno 760 milioni di dollari di perdite per l’infezione umana e di almeno 140 milioni di dollari per le perdite annuali di produzione degli animali da reddito. Per quanto riguarda l’Italia, l’EC risulta essere la seconda zoonosi per ospedalizzazione, e sono stati stimati un onere finanziario medio nazionale di circa 4.000.000 di euro l’anno per l’infezione umana e notevoli perdite economiche per la riduzione della produzione lattea negli animali da reddito.

La Sezione per la Sicurezza Alimentare del CNSA evidenzia la necessità di sensibilizzare ed informare cittadini ed operatori sanitari, al fine di assicurare il contenimento della parassitosi, ed auspica lo svolgimento di studi scientifici che possano contribuire alla conoscenza delle fonti di infezione e delle abitudini socioculturali coinvolte nella trasmissione della patologia nelle aree endemiche.

Parere CNSA – Echinococcosi cistica: conoscenze attuali e suggerimenti per la prevenzione e il controllo della diffusione




Covid: gli animali più a rischio? Quelli che frequentano l’uomo

Mucche, gorilla e orsi sono a più alto rischio di contagiarsi di di SARS-CoV-2. Più in generale, tutte le specie a stretto contatto con l’uomo.  A scoprirlo, lo studio del Cary Institute of Ecosystem Studies, pubblicato su Proceedings of the Royal Society B. Per arrivare a questi risultati, i ricercatori hanno utilizzato un nuovo approccio con un modello computerizzato in grado di prevedere la capacità di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 di 5.400 specie di mammiferi ed estendendo la capacità predittiva di rischio Covid-19 di vari ordini di grandezza.

Delle specie ad alto rischio segnalate, secondo lo studio, molte vivono vicino alle persone e negli hotspot Covid-19.

Secondo i ricercatori, un importante ostacolo alla previsione delle specie di mammiferi ad alto rischio sono i dati limitati su ACE2, il recettore cellulare a cui si lega SARS-CoV-2 negli animali. ACE2 consente a SARS-CoV-2 di entrare nelle cellule ospiti e si trova in tutti i principali gruppi di vertebrati. È probabile che tutti i vertebrati abbiano recettori ACE2, ma le sequenze erano disponibili solo per 326 specie. Per superare questo ostacolo, il team ha sviluppato un modello di apprendimento automatico che combinava i dati sui tratti biologici di 5.400 specie di mammiferi con i dati disponibili su ACE2.

L’obiettivo: identificare le specie di mammiferi con un’elevata “capacità zoonotica” – la capacità di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 e trasmetterla ad altri animali e persone. Il metodo che hanno sviluppato potrebbe aiutare a estendere la capacità predittiva per i sistemi di malattie oltre il Covid-19.

“Il SARS-CoV-2 ha avuto origine in un animale prima di fare il salto alle persone” – commenta l’autore Ilya Fischhoff, del Cary Institute of Ecosystem Studies – “Ora, le persone hanno causato infezioni in una varietà di mammiferi, principalmente quelli tenuti nelle fattorie, negli zoo e persino nelle nostre case. Sapere quali mammiferi sono in grado di reinfettarci è fondamentale per prevenire le infezioni da spillback e nuove varianti pericolose”, conclude. Quando un virus passa dalle persone agli animali e di nuovo alle persone si parla di spillover secondario. Questo fenomeno può accelerare la creazione di nuove varianti nell’uomo che sono più virulente e meno reattive ai vaccini.

La ricaduta secondaria di SARS-CoV-2 è già stata segnalata tra i visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi, dove ha portato ad almeno una nuova variante di SARS-CoV-2.

Questo modello matematico ha previsto la capacità zoonotica delle specie di mammiferi con una precisione del 72% e ha identificato numerose altre specie di mammiferi con il potenziale di trasmettere SARS-CoV-2.

Le previsioni corrispondevano ai risultati osservati per cervi dalla coda bianca, visoni, cani procioni, leopardi delle nevi e altri. Il modello ha rilevato che le specie di mammiferi più rischiose erano spesso quelle che vivono in paesaggi disturbati e in prossimità delle persone, inclusi animali domestici, bestiame e animali che vengono scambiati e cacciati. Si prevedeva che i primati avessero la più alta capacità zoonotica e il più forte legame virale tra i gruppi di mammiferi. Il bufalo d’acqua, allevato per il latte e l’allevamento, aveva il rischio più alto tra il bestiame. Il modello ha anche previsto un elevato potenziale zoonotico tra i mammiferi commerciati vivi, tra cui macachi, orsi neri asiatici, giaguari e pangolini, evidenziando i rischi posti dai mercati vivi e dal commercio di animali selvatici. SARS-CoV-2 presenta anche sfide per la conservazione della fauna selvatica.

L’infezione è già stata confermata nei gorilla di pianura occidentale. Per le specie ad alto rischio come i gorilla di montagna, l’infezione da spillback potrebbe verificarsi attraverso l’ecoturismo. Gli orsi grizzly, gli orsi polari e i lupi, tutti nel 90esimo percentile per la capacità zoonotica prevista, sono spesso gestiti dai biologi per la ricerca e la gestione. Han spiega: “Il nostro modello è l’unico che è stato in grado di fare previsioni sui rischi per quasi tutte le specie di mammiferi. Ogni volta che sentiamo parlare di una nuova specie che è stata trovata positiva al SARS-CoV-2, rivisitiamo la nostra lista e scopriamo che è classificata in alto. I leopardi delle nevi avevano un punteggio di rischio intorno all’80° percentile. Ora sappiamo che sono una delle specie selvatiche che potrebbero morire di Covid-19″.

Le persone che lavorano a stretto contatto con mammiferi ad alto rischio dovrebbero prendere ulteriori precauzioni per prevenire la diffusione di SARS-CoV-2. Tra questi, la priorità delle vaccinazioni tra veterinari, guardiani dello zoo, allevatori di bestiame e altre persone in contatto costante con gli animali. I risultati possono anche guidare strategie di vaccinazione mirate per i mammiferi a rischio. Un’iterazione più efficiente tra previsioni computazionali, analisi di laboratorio e sorveglianza degli animali ci aiuterà ad ottenere informazioni necessarie per guidare la risposta alla pandemia zoonotica ora e in futuro, concludono gli autori.

Fonte: AGI




Le origini delle facoltà di veterinaria

Momumento dedicato all’eradicazione della Peste bovina – Roma, Ministero della salute

Sono un veterinario che per quasi 20 anni ha insegnato patologia generale e fisiopatologia veterinaria all’Università di Teramo e, mantenendo fede all’identità culturale appannaggio della categoria professionale cui mi vanto e mi onoro di appartenere, mi preme sottolineare che la ragion storica all’origine delle Facoltà di Medicina Veterinaria nel Vecchio continente, nate dapprima in Francia e in Italia a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si deve alla peste bovina.

Questa malattia, sostenuta da un virus imparentato con quello del morbillo e che illo tempore era causa di gravissime perdite fra le mandrie di mezza europa, è stata dichiarata ufficialmente eradicata a livello globale nel 2011, grazie alla campagna di vaccinazione effettuata sulla popolazione bovina.

Analoga sorte è toccata al vaiolo, anch’esso debellato su scala planetaria nel 1980 grazie alla vaccinazioni di massa della popolazione umana.

Ai giorni nostri il “nemico pubblico” da combattere si chiamaSars-Cov2, il betacoronavirus che ha sinora mietuto oltre 5 milioni di vittime nel mondo.

Gli efficaci vaccini di cu disponiamo a distanza di un solo anno dall’identificazione del virus rappresentano una formidalbile arma di contrasto alla diffusioone di Sars-Cov2 con particolare riferimento alle forme gravi e a esito letale di Covid-19.

Di contro, la mancata vaccinazione di fette di popolazione, oltre a mettere le ali al virus (come in diversi Paesi dell’Est Europa), si traduce di fatto in un accresciuto rischio di comparsa di nuove varianti, non di rado più contagiose e/o patogene  rispetto a quelle circolant, come chiaramente testimoniato dalla variante delta

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e
Fisiopatologia Veterinaria
all’Universita’ di Teramo

Lettera pubblicata su Il Corriere della Sera del 22 novembre 2021




Lo strano caso del gatto di Arezzo, vittima dello spillover di un Lyssavirus

gattoÈ fine giugno 2020 quando ad Arezzo in un gatto viene accertato un raro caso di infezione da Lyssavirus, un genere che comprende 17 specie e annovera fra i suoi membri anche il virus della rabbia. L’animale muore per una malattia neurologica compatibile con la rabbia, dopo aver morso la proprietaria e alcuni veterinari, fortunatamente senza ulteriori conseguenze per animali e persone residenti in quella zona.

Il virus viene prontamente isolato dal Centro di referenza nazionale per la rabbia dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), da un campione di cervello dell’animale, e identificato come West Caucasian Bat Lyssavirus (WCBV). Come è andata a finire?

Il silenzioso viaggio del West Caucasian Bat Lyssavirus

Finora il WCBV era stato rilevato solo un’unica volta nel 2002 in un pipistrello del Caucaso, in Russia. Il WCBV è un virus tipico dei pipistrelli, ma diverso da quello della rabbia classica; tuttavia negli animali infetti determina una sintomatologia clinica identica con un’encefalite che si manifesta con aggressività anomala, come è accaduto nel gatto di Arezzo.

Ben si comprende, quindi, come l’isolamento del virus in Italia – il secondo al mondo – fosse già di per sé un fatto piuttosto raro; ma il vero ‘rompicapo scientifico’ è stato riconoscere la dinamica del salto di specie (spillover) dal pipistrello al gatto.

In tempo di pandemia, dove i pipistrelli sono sotto la lente della comunità scientifica, la questione non è secondaria. Un anno dopo, grazie a indagini approfondite, i ricercatori hanno ricostruito il meccanismo dello spillover fra le due specie animali in un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Viruses.

Il tunnel dei miniotteri

L’indagine epidemiologica si è concentra subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli. Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, dove è stato scoperto un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia.

L’indagine epidemiologica si è concentrata subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli presenti nella zona mediante osservazioni visive, analisi bioacustiche e utilizzo di foto-trappole, per capire quali fossero le aree di rifugio dei pipistrelli. La task force di esperti ha visto la partecipazione oltre che dell’IZSVe, anche di IZS Lazio e Toscana, Cooperativa Studi Ecologici e Ricerca Natura ed Ambiente (STERNA), Regione Toscana, AUSL Toscana SudEst di Arezzo e Ministero della Salute.

Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, lungo circa 2 km, che i ricercatori hanno perlustrato periodicamente anche due volte al mese, a partire da agosto 2020 giungendo infine alla scoperta: al suo interno è stato identificato un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), appartenente a una popolazione che in genere varia fra 40 e 425 individui a seconda della stagione, la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia. La medesima popolazione frequenta la zona solo in alcuni momenti dell’anno, tra aprile e giugno e poi di nuovo da agosto a ottobre, ed è oggi sotto stretto monitoraggio.

Per comprendere se ci fossero altre specie di pipistrello nella zona oltre ai miniotteri il team multidisciplinare ha effettuato un’analisi degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli – classificati in ecolocalizzazioni, ronzii di alimentazione e chiamate sociali – che hanno permesso di identificare anche esemplari di Pipistrellus kuhliiHypsugo savii (specie tipiche delle nostre città) e altre specie più sporadiche. Ma il tunnel era visitato anche da altri avventori, come hanno dimostrato le immagini scattate dalla foto-trappole piazzate ai due ingressi: sono stati immortalati gatti, ricci, uccelli e… tre persone!

Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanza, i virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli. La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città; questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti.

Parallelamente, nello stesso periodo, sono stati effettuati quattro campionamenti che hanno consentito di stabilire età, genere e stato fisiologico degli animali. La raccolta di campioni di sangue (190) e saliva (268) è servita invece per verificare la presenza del virus e degli anticorpi; dalle analisi di laboratorio si è visto che gli individui di questa colonia mostravano anticorpi neutralizzanti contro il WCBV, ma nessun virus nei tamponi salivari. Per contro, le carcasse di altre specie di pipistrelli erano tutte negative sia per il virus che per gli anticorpi. Infine, le analisi genetiche hanno rivelato che il genoma virale di WCBV rinvenuto ad Arezzo possiede un’elevata similitudine con quello del pipistrello russo trovato nel 2002.

La lezione del gatto di Arezzo

Quello che sappiamo di WCBV è legato a una casistica piuttosto ridotta, ma la sua parentela con il virus della rabbia ha fatto sì che fossero attivate tempestivamente tutte le misure controllo e monitoraggio di persone e animali, necessarie a scongiurare il ripetersi dell’emergenza. Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanzai virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli.

La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città. Questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti. Per questo, la sua presenza ad Arezzo è stata una sorpresa, particolarmente apprezzata da un predatore quale il gatto, ponendo un potenziale rischio per la salute pubblica e la conservazione dei pipistrelli. Come già successo in altri contesti, è possibile questi animali si siano spostati a seguito di un’alterazione o distruzione del loro habitat naturale da parte dell’uomo, rendendoci così i veri detonatori dello spillover.

Fonte: IZS Venezie




IZS Ler: zanzara coreana sempre più presente in Lombardia

I giornali e diversi siti internet presentano alla nostra attenzione un nuovo tipo di zanzara: la zanzara coreana, la cui segnalazione è sempre più frequente in Lombardia ed è stata rinvenuta anche dai nostri laboratori nei monitoraggi ordinari per la West Nile (malattia trasmessa da zanzare) e tramite le attività previste da uno specifico progetto di ricerca finanziato dal Ministero della Salute. Le caratteristiche di resistenza alle basse temperature fanno sì che la probabilità di impiantarsi stabilmente nei nostri territori sia sempre più alta.

Questa zanzara è in grado di trasmettere alcune filarie ed è stata segnalata come possibile vettore di encefalite giapponese in Russia; è stata in grado di trasmettere il virus del Chikungunya in laboratorio, ma la sua capacità di trasmettere malattie pericolose per l’uomo non è ancora caratterizzata con precisione.
L’areale d’origine della zanzara Aedes koreicus, comunemente detta zanzara coreana, è compreso fra il Giappone, il Nord-Est della Cina, la Corea e parte della Russia. Come la più nota zanzara tigre, questa zanzare è stata in grado di espandere negli ultimi anni il suo areale, arrivando in paesi nei quali non era presente. Questa espansione, legata all’ecologia della specie, è probabilmente dovuta al trasporto di uova o larve con il commercio internazionale, anche se l’esatta via di introduzione della zanzara coreana non è nota.

La prima segnalazione della specie in Europa risale al 2008 in Belgio, oggi la specie è segnalata in Svizzera, Germania, Ungheria, Austria, Slovenia, sulle Coste del Mar Nero ed Italia. La prima segnalazione Italiana risale al 2011 in Veneto, successivamente è stata rilevata in Trentino Alto Adige, Liguria e Lombardia. IZSLER ha attivamente monitorato l’espansione della zanzara coreana, rilevando la sua presenza in Lombardia, al confine con la Svizzera, già dal 2014. La presenza di questa zanzara è stata quindi confermata nelle province di Como e Sondrio, ma anche nelle province di Lecco, Bergamo, Varese e Milano, in particolare grazie ad un progetto di ricerca IZSLER attivato per definire la distribuzione delle specie di zanzare invasive nei territori di Lombardia e Emilia-Romagna (PRC2017_004)al quale hanno collaborato la virologia della Sede, la sede territoriale di Reggio-Emilia e le sedi di Sondrio e Binago. In Emilia-Romagna la zanzara coreana non è ancora stata rilevata.

Le preferenze alimentari della zanzara coreana non sono conosciute ma può pungere l’uomo, sia di giorno che di notte, anche se è meno aggressiva della zanzara tigre. Può condividere con la zanzara tigre le raccolte d’acqua di origine artificiale che fungono da focolai larvali. La capacità di produrre uova diapausanti (resistenti alle basse temperature) gli permette di superare gli inverni dei climi temperati. La zanzara coreana preferisce condizioni di temperatura inferiori rispetto alla zanzara tigre, occupa quindi zone con temperature medie più basse, dove la zanzara tigre si stabilisce con maggiore difficoltà; è quindi maggiormente presente in zone marginali per la zanzara tigre, in particolare le zone collinari ed è stata campionata in Italia fin sopra i 1200 m. Gli adulti non sono comunque in grado di superare la stagione fredda.

Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Prima segnalazione di leptospirosi nel lupo in Europa

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie, in funzione delle lesioni riscontrate e come previsto tra le attività di un progetto di ricerca (RC 16/18 per Echinococcus multilocularis).

Approcci sierologico e molecolare per identificare la leptospira

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie in funzione delle lesioni riscontrate. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117), un ceppo la cui circolazione in Italia è nota nel suino e nel cane.

Dai primi approfondimenti diagnostici biomolecolari è stata evidenziata la presenza di una leptospira patogena a livello renale, mentre dall’esame sierologico per ricerca anticorpi – sempre nei confronti di leptospira – è stata osservata la presenza di reattività verso tre sierogruppi: GrippotyphosaPomona, Icterohaemorrhagiae. Dall’esame istopatologico del rene è emersa una nefrite interstiziale cronica.

Successivamente i campioni sono stati inviati al Centro di referenza nazionale per la leptospirosi dell’IZS Lombardia ed Emilia-Romagna per la tipizzazione molecolare, la fase in cui vengono assegnati nome e cognome al patogeno. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117).

Si tratta di un ceppo la cui circolazione in Italia è già nota nel suino e nel cane, mentre nel cinghiale (Sus scrofa) è stata finora rilevato il sierogruppo Pomona, serovar Pomona. È verosimile che la serovar Mozdok possa circolare anche nel cinghiale, vista l’omologia di specie rispetto al suino domestico e che il cinghiale possa rappresentare un serbatoio di infezione per il lupo; dal punto di vista epidemiologico, il rapporto preda-predatore tra cinghiale e lupo è compatibile con una trasmissione diretta o indiretta dell’infezione.

Il lupo in questo caso rappresenterebbe più una vittima accidentale che un serbatoio di infezione, quindi un interessante epifenomeno e sentinella della diffusione di sierogruppi di leptospira nel territorio. Il rilevamento è stato pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH).

Lupo e leptospirosi in Friuli Venezia Giulia

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani, nonostante un’ampia diffusione della vaccinazione, e rappresenta anche un’importante zoonosi. La malattia è compresa tra quelle elencate come prioritarie nel Piano di sorveglianza della fauna selvatica del Friuli Venezia Giulia.

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani. Nei carnivori selvatici il riscontro di quadri patologici da leptospira non è frequente: in Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo. La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino.

In ambito selvatico sono riconosciuti serbatoi di infezione, in particolare tra i roditori; nei carnivori selvatici sono state riscontrate positività sierologiche, sebbene il riscontro di quadri patologici da leptospira non sia frequente. In Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo; riscontri di positività sierologiche sono stati documentati in Spagna, mentre analisi condotte in centro Italia sono risultate negative.

La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino. L’espansione del lupo italico (Canis lupus italicus) dagli Appennini alle Alpi e l’incontro con esemplari provenienti dalle aree dinarico-balcaniche (Canis lupus lupus) hanno dato origine a nuclei familiari nel Nord-est che si stanno stabilizzando. A parte presenze sporadiche di soggetti provenienti dalla Slovenia, la prima coppia di lupi formatasi sul territorio è stata individuata nel 2013 e attualmente si stimano circa 15-25 esemplari in tutta la Regione.

Il lupo (Canis lupus) è una di quelle specie protette, insieme allo sciacallo dorato (Canis aureus), alla lontra (Lutra lutra) e al gatto selvatico (Felis silvestris), attorno alle quali negli ultimi anni in Friuli Venezia Giulia si è sviluppata la collaborazione scientifica tra vari enti, come l’IZSVe, l’Università di Udine, il Museo di Storia Naturale di Udine e il Corpo Forestale Regionale.

Le indagini sanitarie nelle specie selvatiche, che continuano ad essere svolte, consentiranno di raccogliere ulteriori informazioni epidemiologiche sulla distribuzione di ceppi di Leptospira sul territorio.

Fonte: IZS delle Venezie