Riscaldamento globale, virus e aerosol

Come possiamo pensare di vivere sani in un mondo malato?“: l’arguta domanda che Papa Francesco si pone e ci pone in piena pandemia da Covid-19 ci ricorda che la nostra vita è strettamente interconnessa con quella di tutti gli altri esseri viventi. Dalla stessa si evincerebbe, al contempo, un accorato invito affinché la Comunità Scientifica operi quanto più possibile in maniera multidisciplinare, in ossequio al principio della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Il 2021 è stato, perlappunto, il più caldo degli ultimi 140 anni, all’interno di un’allarmante sequenza in cui dal 2015 in avanti si sono succeduti i sette anni più torridi che si siano mai registrati sul nostro pianeta durante il succitato arco cronologico.

E’ quantomai opportuno sottolineare, in proposito, la naturale propensione degli agenti patogeni più resistenti a sfruttare il progressivamente ingravescente riscaldamento globale per aumentare la propria diffusione e, con essa, le occasioni di contagio intraspecifico ed interspecifico. E’ questo il caso del virus della peste suina africana (agente non zoonosico) e di quello del vaiolo delle scimmie (agente zoonosico), ben noti da tempo a noi Medici Veterinari e recentemente balzati agli onori della cronaca. Si tratta, in particolare, di due DNA-virus che, pur nelle notevoli differenze che caratterizzano gli stessi e le infezioni da essi sostenute, condividono tuttavia un’elevata resistenza ambientale, cosi’ come nei riguardi dell’inattivazione chimico-fisica.

In un siffatto contesto, la possibilità che i venti, le correnti ed altri fenomeni atmosferici possano veicolare per più o meno lunghe distanze aerosol alberganti al proprio interno le due anzidette, così come altre noxae biologiche dotate di elevata resistenza ambientale e nei confronti di molti agenti chimico-fisici, dovrebbe esser tenuta in debita considerazione.

Ciò potrebbe costituire, infatti, un valido ausilio ai fini del riconoscimento delle fonti d’infezione ove le stesse non risultassero prontamente e/o precisamente identificabili, come giustappunto accaduto in alcuni focolai di peste suina africana tra i cinghiali, così come in alcuni recenti casi umani d’infezione da “monkey poxvirus” (vaiolo delle scimmie).

Absit iniuria verbis, ma senza alcuna vis polemica mi sia consentito, in chiosa a questo breve articolo, di esprimere unitamente al mio pregresso disappunto nei confronti della mancata cooptazione dei miei Colleghi Veterinari in seno all’oramai (e purtroppo!) defunto CTS, tutto il mio stupore derivante dalla pressoché totale assenza dei Medici Veterinari – fatte salve alcune eccezioni di natura prettamente istituzionale – dalla scena e dalla narrazione mass-mediatica.

Quanto sopra a dispetto dell’inconfutabile fatto che le “materie del contendere” siano rappresentate da una problematica di esclusiva rilevanza in ambito di sanità animale (peste suina africana) e da un’infezione a carattere zoonosico, vale a dire trasmissibile dagli animali all’uomo (vaiolo delle scimmie)!

Errare humanum est perseverare autem diabolicum!

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Di Guardo: dovremmo vaccinare gli animali domestici e selvatici sensibili nei confronti di SARS-CoV-2

E’ stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa Rivista Veterinary Record il contributo del Prof. Giovanni Di Guardo, gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, dal titolo ‘We should be vaccinating domestic and wild animal species against Covid-19’, incentrato sull’opportunità di vaccinare nei confronti di SARS-CoV-2 le specie animali domestiche e selvatiche suscettibili all’infezione virale.

Questa pandemia ci ha insegnato che la salute umana, animale e ambientale sono reciprocamente e inestricabilmente collegate tra loro. Tenendo conto della potenziale trasmissione zoonotica di SARS-CoV-2, ritengo che la vaccinazione delle specie animali sensibili al virus – soprattutto di quelle allevate intensivamente come il visone, così come di quelle particolarmente suscettibili nei confronti dell’infezione virale come il cervo a coda bianca (Odocoileus virginianus) – sia fondamentale per limitare lo sviluppo di varianti di SARS CoV-2 oltremodo diffusive (quali la Omicron) e/o patogene (quali la Delta). Un tale programma richiederebbe un solido approccio One Health.

Scrive  di Guardo nel contributo integrale (qui in inglese)




Quanto possono sopravvivere i coronavirus sulle superfici?

coronavirusSARS-CoV-2, il coronavirus responsabile della COVID-19, può sopravvivere sulle superfici fino a 28 giorni, più di tutti gli altri coronavirus. La sopravvivenza del virus e la sua contagiosità sono inoltre influenzate dalle condizioni ambientali. Lo afferma una revisione sistematica della letteratura condotta dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e pubblicata su Science of the Total Environment.

Il ruolo dei fomiti nella trasmissione di SARS-CoV-2

I fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Ricercatori dell’IZSVe hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura per definire quanto i coronavirus umani (SARS-CoV-2, SARS-CoV-2 e MersCoV) possono sopravvivere sulle superfici di vari fomiti.

COVID-19 è la malattia respiratoria causata da SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia diffusasi in quasi 200 Paesi da fine 2019. SARS-CoV-2 si aggiunge ad altri due coronavirus umani (hCoV) noti già dal 2002 per la loro letalità e capacità di infettare l’uomo: SARS-CoV (Severe Acute Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile dell’epidemia di SARS del 2002-2004, e MersCoV (Middle East Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile della Mers, Sindrome Respiratoria medio-orientale

Come ogni malattia emergente, anche la COVID-19 richiede l’impegno della comunità scientifica per comprenderne i meccanismi di sviluppo e di trasmissione, al fine di adeguare i protocolli diagnostici e terapeutici. Una delle tante domande a cui gli scienziati hanno cercato di trovare nel più breve tempo una risposta è stata la modalità di diffusione di SARS-CoV-2. Mentre è stato ampiamente dimostrato che la principale via di trasmissione del virus sia il contatto diretto con una persona infetta, la sua trasmissione tramite il contatto con superfici contaminate (fomiti) è ritenuta possibile ma non è ancora supportata da solide evidenze scientifiche.

fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Sono esempi di fomiti i vestiti sporchi, gli asciugamani, le lenzuola, i fazzoletti, le medicazioni chirurgiche, gli aghi contaminati. La letteratura ha dimostrato la capacità dei fomiti di trasmettere virus respiratori e patogeni enterici, ma per SARS-CoV-2 il loro ruolo è ancora ampiamente sconosciuto. Proprio in ragione della scarsità di prove disponibili sul ruolo dei fomiti, nel rispetto del principio di precauzione numerose linee guida hanno raccomandato fin dall’inizio della pandemia come misure preventive la pulizia e disinfezione delle superfici, l’uso di guanti e l’igiene delle mani.

Un primo passo per studiare la capacità dei fomiti di traferire SARS-CoV-2 a chi vi entri in contatto è definire quanto il virus possa sopravvivere sulla superficie del fomite, raccogliendo un numero consistente di prove che dimostrino come possibile questo percorso di trasmissione del virus. Inoltre, è necessario analizzare anche la persistenza del virus nell’ambiente, che a sua volta dipende dalle caratteristiche strutturali del virus, da fattori ambientali (temperatura, umidità, esposizione ai raggi UV) e dalle caratteristiche della superficie del fomite.

Lo studio dell’IZSVe
Dallo studio è emerso che banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo. Alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV, così come la luce UV e quella solare.

I ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno svolto una revisione sistematica della letteratura scientifica per definire quanto a lungo SARS-CoV-2 riesca a sopravvivere sulle superfici dei fomiti. La ricerca ha incluso anche gli altri due principali coronavirus umani, MersCoV e SARS-CoV vista la loro pericolosità per la salute pubblica.

La comparazione delle evidenze scientifiche pubblicate in letteratura è stata effettuata su 18 articoli scientifici, selezionati dopo lo screening di 1.436 articoli restituiti dalle banche dati come articoli pertinenti la domanda di ricerca. La sopravvivenza dei coronavirus è stata valutata su differenti materiali: polimeri (plastica, PVC, teflon, guanti monouso, …), metalli (acciaio, alluminio, rame, …), vetro, carta, legno, tessuti (stoffa, camici monouso e in cotone), mascherine, spugne sterili, ceramica, banconote, mosaici e suolo.

Dalla revisione sistematica emerge che a temperatura ambiente SARS-CoV-2 può sopravvivere fino a 28 giorni su vetro, acciaio, polimeri plastici (banconote in polimero e vinile) e banconote di carta, e fino a 7 giorni sulle mascherine chirurgiche. 28 giorni è il periodo di sopravvivenza più lungo dimostrato in laboratorio: SARS-CoV è il coronavirus che ha mostrato un tempo di sopravvivenza maggiore dopo SARS-CoV-2, sopravvivendo fino a 14 giorni su superfici di vetro. Per quanto riguarda invece la contaminazione umana tramite fomite, ovvero la capacità dei fomiti di trasmettere l’infezione, banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo.

Anche le condizioni ambientali influenzano la capacità di sopravvivenza del virus sui fomiti: alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV e riducono la sopravvivenza di SARS-CoV-2, mentre basse temperature e poca umidità ne aumentano le chance a prescindere dalla tipologia di superficie colonizzata dal virus. Anche la luce UV e quella solare possono ridurre la vita dei coronavirus sulle superfici: soprattutto durante la stagione estiva è molto improbabile che superfici esposte al sole (in particolare quelle in acciaio inossidabile) riescano a trasmettere il virus, suggerendo la possibile maggior contagiosità di fomiti non esposti al sole.

Verso un approccio armonizzato
Comprendere la durata dei coronavirus sulle superfici può migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Lo studio IZSVe è un contributo alla comprensione dei coronavirus umani, in particolar modo di SARS-CoV-2 nell’ecosistema uomo-ambiente-animale: le evidenze raccolte possono essere impiegate, in particolar modo dai gestori del rischio, per migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Nel corso di questi due anni di pandemia, la comunità scientifica ha lavorato molto allo studio della sopravvivenza di SARS-CoV-2 sulle superfici e alla loro capacità infettante: nuovi studi sperimentali o revisioni sistematiche più recenti potrebbero smentire o aggiornare le evidenze raggiunte qui presentate. Nonostante ciò, il lavoro condotto dall’IZSVe evidenzia alcuni limiti nella letteratura finora disponibile, che possono essere spunto per la ricerca futura su questo specifico tema.

Innanzitutto gli studi finora pubblicati sono difficilmente comparabili tra di loro: sussistono differenze notevoli nella metodologia impiegata nelle singole prove sperimentali, motivo per cui i ricercatori IZSVe non hanno potuto dimostrare un legame tra tempo di sopravvivenza del virus e caratteristiche della superficie contaminata, suggerendo di lavorare alla definizione di un protocollo di riferimento per la conduzione delle prove di sopravvivenza del virus.

Inoltre i risultati ottenuti dalla revisione sistematica si riferiscono a studi di laboratorio,condotti in un contesto sperimentale, motivo per cui potrebbero non restituire l’effettiva capacità di resistenza di SARS-CoV-2: sarà importante quindi condurre studi sempre più aderenti alle reali condizioni di diffusione del virus nell’ambiente.

Fonte: IZS Venezie

 




La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

Ci sono atleti e atleti. Alcuni sono fenomeni veri, campioni straordinari che per talento e lavorando tenacemente raggiungono risultati prodigiosi. Ce ne sono altri che non avendo le stesse doti e meno voglia di sacrificarsi, ma pur di affermarsi, fanno uso di sostanze che accrescono slealmente le loro prestazioni.
La pratica in questione si chiama “doping”.
È un’azione fraudolenta che non è utilizzata soltanto in ambito sportivo. Già, perché se ne fa uso anche negli allevamenti degli animali da reddito.
La somministrazione di farmaci non autorizzati o l’utilizzo di sostanze farmacologiche permesse ma somministrate a bassi dosaggi e per periodi prolungati hanno effetti dopanti sugli animali.
L’uso di questi prodotti può provocare danni e lasciare conseguenze ai consumatori.
L’assunzione di carne con residui di molecole non autorizzate, infatti, può essere pericolosa per l’essere umano, soprattutto per i soggetti con delle pregresse patologie.
Svelare la loro presenza, dunque, è indispensabile per proteggere la salute dei cittadini.
Per poter fronteggiare questa piaga il CIBA – Centro di Referenza Nazionale per le Indagini Biologiche sugli Anabolizzanti Animali -, che ha sede presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università degli studi di Torino, ha applicato un programma di apprendimento automatico Weka (Waikato Environment for Knowledge Analysis) per svelare l’uso illecito di cortisonici per il “doping animale”.
È stato sviluppato un modello predittivo in grado di individuare i vitelli dopati con cortisonici, che sono i principi attivi di più largo utilizzo per “ingrassare” in modo fraudolento i bovini.
Sono sostanze che di fatto sono anche responsabili di enormi effetti collaterali per l’uomo, tra cui l’aumento della pressione sanguigna, l’iperglicemia e l’immunosoppressione.
Il modello generato da Weka è in grado di classificare correttamente il 95% degli animali testati sulla base dei valori di cinque biomarcatori sierici (cortisolo, inibina, capacità antiossidante del siero, osteocalcina, e urea).
La ricerca ha confermato quanto e come l’intelligenza artificiale può essere applicata con eccellenti risultati a salvaguardia della salute dei consumatori e a tutela del benessere animale.

Fonte: IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta




ISS. Zanzare in Italia: raccolta, identificazione e conservazione delle specie più comuni

Negli ultimi anni l’Italia è stata colpita da eventi epidemici riconducibili a malattie trasmesse da zanzare, quali West Nile, chikungunya e dengue. Per migliorare la preparedness e le capacità di rispondere a queste minacce è importante in un paese identificare ruoli, responsabilità e attività da implementare, ottimizzando risorse umane ed economiche.

Da qui l’esigenza di dotarsi di personale formato, in grado di riconoscere i rischi legati alle zanzare, avviare sistemi di sorveglianza entomologica, organizzare strategie di contrasto e, quando necessario, applicare misure di emergenza.

L’Istituto Superiore di sanità ha realizzato quindi una guida, uno strumento pratico non solo per conoscere biologia e distribuzione delle zanzare più comuni o di maggiore interesse sanitario, ma anche che permettesse di identificarle facilmente.

Attraverso un approccio rigoroso, ma semplificato, si è privilegiata la scelta di caratteri morfologici stabili e chiaramente osservabili. A supporto dell’opera, vengono fornite utili chiavi dicotomiche, con disegni schematici esplicativi.

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Prima segnalazione in Europa di Circovirus suino di tipo 2e

Una collaborazione tra il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova ha portato alla prima segnalazione di Circovirus suino di tipo 2e (PCV-2e) in Europa. Questa variante del virus, identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto, finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La scoperta è stata quindi pubblicata nella rivista scientifica internazionale The Veterinary Journal.

Il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’IZSVe e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova hanno rilevato per la prima volta la presenza di Circovirus suino di tipo 2e (PCV2-e) in Europa. Questa variante del virus – che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD) – finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La variante è stata identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto.

Il Circovirus suino di tipo 2 (PCV-2) è un agente patogeno diffuso in tutto il mondo che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD), causando gravi perdite economiche per gli allevatori del settore. Ad oggi la circolazione di PCV-2 in allevamento determina prevalentemente forme subcliniche, che non dovrebbero comunque essere trascurate in quanto associate a una diminuzione della produttività degli animali.

PCV-2 è un virus a DNA circolare a filamento singolo, con un genoma di circa 1.7 kb. Attualmente sono riconosciuti 8 genotipi (PCV-2a-h), di cui solo tre (PCV-2a, -2b, -2d) hanno dimostrato di avere una distribuzione a livello mondiale, mentre gli altri sono stati segnalati occasionalmente. L’elevata variabilità del virus ha spinto a mettere in discussione l’efficacia dei vaccini in uso verso le varianti più recenti, e aumentato l’interesse di veterinari e allevatori per l’identificazione del genotipo virale circolante in azienda.

Il rilevamento di PCV-2e da parte dei ricercatori della sezione di Pordenone dell’IZSVe e dell’Università di Padova nasce proprio dalla richiesta di genotipizzare alcuni virus isolati da campioni prelevati in un allevamento suinicolo del Veneto. I suini controllati non presentavano sintomi suggestivi di PCVD e il ritrovamento è stato accidentale, ma ciò non significa che il virus sia innocuo per gli animali. Bisogna tenere infatti in considerazione che PCV-2e è il più diverso tra i genotipi di PCV-2 e presenta un fenotipo distinto, al punto che già in passato sono stati espressi dubbi sull’efficacia dei vaccini disponibili contro questa variante.

A questo aspetto si aggiunge l’identificazione di stipiti virali appartenenti al più comune genotipo PCV-2d in campioni prelevati dallo stesso allevamento, effettuata in seguito ad ulteriori approfondimenti diagnostici. Ciò ha confermato la contemporanea diffusione nell’allevamento di due genotipi: un fattore che può non solo aggravare la sintomatologia negli animali, ma anche rendere possibili fenomeni di ricombinazione in caso di coinfezione, favorendo ulteriormente l’incremento della variabilità di PCV-2.

Di conseguenza, anche se l’assenza di sintomatologia clinica è un aspetto favorevole, non bisogna abbassare la guardia dato che la PCVD è caratterizzata da una patogenesi multifattoriale. Per questo i ricercatori raccomandano di alzare la soglia di attenzione nella sorveglianza sulla possibile circolazione del genotipo PCV-2e in Italia e in Europa, non potendo escludere una sua più vasta diffusione.

Leggi l’articolo scientifico su The Veterinary Journal »

Fonte: IZS Venezie




Encefalite da zecche: primo caso diagnosticato in un capriolo

Ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno diagnosticato il primo caso di encefalite da zecca (TBE, Tick Borne Encephalitis) in un capriolo, in provincia di Belluno, area in cui la malattia è endemica. Finora non erano mai stati segnalati casi clinici di virus TBE nei cervidi. Questo caso, oltre all’interesse in termini di diagnosi differenziale, riporta l’attenzione sull’importanza della sorveglianza epidemiologica delle zoonosi in un ambiente in costante trasformazione. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Viruses.

Ricercatori dell’IZSVe hanno diagnosticato il primo caso di encefalite da zecca (TBE) in un capriolo in provincia di Belluno, area in cui la malattia è endemica. Finora non erano mai stati segnalati casi clinici di virus TBE nei cervidi. I ricercatori, con un approccio metagenomico, sono riusciti a sequenziare il genoma virale del caso in questione, confermando una stretta correlazione con il sottotipo europeo del virus.

La TBE, o meningoencefalite primaverile-estiva, è una zoonosi virale acuta del sistema nervoso centrale, trasmessa principalmente attraverso morsi di zecche infette a diversi mammiferi, compreso l’uomo. I vettori della malattia in Europa sono principalmente le zecche Ixodes ricinus. Ad oggi sono noti cinque sottotipi virali, filogeneticamente classificati e caratterizzati per diversa distribuzione geografica e gravità della patologia indotta nell’uomo. In Europa occidentale è prevalente il sottotipo europeo, che presenta un tasso di mortalità inferiore al 2%. I ricercatori, con un approccio metagenomico, sono riusciti a sequenziare il genoma virale del caso in questione, confermando una stretta correlazione con questo sottotipo.

In Italia la presenza del virus è attualmente limitata alla parte nord-orientale. In particolare nella provincia di Belluno, area di provenienza del giovane capriolo, si rilevano circa il 40% di tutti i casi umani di TBE nel nostro paese. L’animale, di un anno d’età, è stato individuato grazie al costante e attento monitoraggio nella zona effettuato dalla Polizia Provinciale, con cui da anni l’IZSVe ha un rapporto di stretta collaborazione. La presenza di gravi sintomi neurologici, in particolare atassia, movimenti barcollanti ed equilibrio precario, tremori muscolari, movimenti ripetitivi della testa, digrignamento dei denti, ipersalivazione e decubito prolungato, ha indotto gli agenti sul campo a considerare prontamente il soggetto per gli accertamenti sanitari.

Il ciclo della TBE dipende da diversi fattori interconnessi tra loro come il clima, la tipologia di territorio e la densità di zecche e degli animali ospite in cui si nutrono. Giocano un ruolo chiave sia gli animali competenti nella trasmissione del virus alle zecche, come i piccoli roditori, sia altri animali come gli ungulati selvatici. Infatti questi ultimi, anche se non competenti nella trasmissione del virus, svolgono un ruolo rilevante nel garantire la sopravvivenza e l’abbondanza delle popolazioni di zecche. Per questo i focolai di TBE hanno una distribuzione irregolare, che va da pochi metri quadrati a diversi chilometri quadrati.

Il caso descritto non è naturalmente da interpretare come un’allerta, in quanto l’area di provenienza era già notoriamente endemica per la malattia, e anche in caso di espansione in un nuovo territorio sarebbe molto più probabile osservare casi prima nell’uomo che negli animali. Questo studio piuttosto, sebbene limitato ad un singolo caso, mette in luce l’importanza della sorveglianza sanitaria sulla fauna e del suo inquadramento nel contesto ecologico, poiché evidenzia per la prima volta la possibilità di un impatto clinico dell’infezione nei ruminanti selvatici.

È importante mantenere alta l’attenzione sulle variazioni imprevedibili nell’epidemiologia delle malattie che possono far aumentare il rischio di infezione per l’uomo.

Fonte: IZS Venezie




L’EFSA valuta ex novo la sicurezza dell’etossichina, un additivo per mangimi

L’EFSA ha valutato nuovamente l’additivo per mangimi etossichina senza poter giungere a conclusioni circa la sua sicurezza per alcuni gruppi di animali, per i consumatori e l’ambiente.

L’etossichina era autorizzata fino al 2017 nell’UE per le sue proprietà antiossidanti come additivo per mangimi destinati a tutte le specie e categorie animali. L’etossichina è usata anche per prevenire la combustione spontanea della farina di pesce durante il trasporto via mare.

La presenza della p-fenetidina, un’impurità che resta nell’additivo dopo il processo produttivo ed è un possibile agente mutageno (cioè può provocare mutazioni nel materiale genetico degli animali e dell’uomo), ha fatto sì che gli esperti del gruppo scientifico dell’EFSA sugli additivi e i prodotti o le sostanze usati nei mangimi non potessero escludere rischi per gli animali con lunga aspettativa di vita né per quelli destinati alla riproduzione. Al contrario l’additivo è considerato sicuro per gli animali allevati per la produzione di carne quali polli, maiali, bovini, conigli e pesci.

A causa della mancanza di dati sulla presenza di p-fenetidina nei tessuti e nei prodotti alimentari di origine animale, gli esperti non hanno potuto trarre conclusioni nemmeno per la salute dei consumatori.

Il gruppo di esperti ha tuttavia evidenziato la necessità di ridurre al minimo l’esposizione degli utenti tramite inalazione a causa della presenza di questa impurità nell’additivo.

Gli esperti non hanno potuto giungere a conclusioni circa la sicurezza dell’etossichina per gli ecosistemi terrestri e acquatici quando l’additivo viene usato negli animali terrestri. Non si può inoltre escludere un rischio di contaminazione tramite la catena alimentare acquatica né un rischio per gli organismi marini esposti ai sedimenti contenenti etossichina usata nelle gabbie per acquacoltura.

La Commissione europea e gli Stati membri, in qualità di gestori del rischio, terranno conto del parere dell’EFSA al momento di riesaminare la sospensiva dell’autorizzazione dell’additivo.

Antecedenti

Nel giugno 2017 la Commissione europea ha sospeso l’autorizzazione dell’etossichina come additivo nei mangimi per tutte le specie animali. La sospensione è seguita a un parere dell’EFSA pubblicato nel 2015, in cui gli esperti dichiaravano di non poter giungere a conclusioni circa la sicurezza dell’additivo a causa di una carenza generale di dati e della presenza di p-fenetidina.

Fonte: EFSA




SARS-COV-2: più efficacia nella caccia alle varianti

 Un nuovo metodo di analisi matematica permette di tipizzare i campioni con alta precisione e maggiore velocità. Un contributo importante al tracciamento del virus e della sua evoluzione.

Nella lotta alla pandemia una delle principali priorità è seguire l’evoluzione del virus, individuando la comparsa di nuove varianti e valutandone la diffusione. Precisione e velocità delle analisi genomiche sono elementi fondamentali di questa sorveglianza, gli stessi al centro di una recente ricerca dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise.

I ricercatori del “Centro di Referenza Nazionale per Sequenze Genomiche di microrganismi patogeni: banca dati e analisi di bioinformatica” (GENPAT) dell’IZSAM hanno sviluppato un nuovo metodo matematico per analizzare e confrontare il genoma di grandi quantità di campioni virali. Pubblicato sulla rivista scientifica BMC Genomics, il metodo proposto permette di identificare i diversi ceppi di virus e ricostruire la loro evoluzione (la cosiddetta analisi filogenomica) con livelli di precisione paragonabili ai metodi già in uso, ma in tempi estremamente più rapidi.

La caccia alle varianti è un procedimento molto complesso, che parte dai semplici tamponi. Il codice genetico dei campioni virali raccolti viene prima di tutto sequenziato con tecniche ad alta capacità (NGS, Next Generation Sequencing), poi deve essere tipizzato in modo da effettuare confronti tra i virus, trovare similitudini o differenze e, per queste ultime, stabilire le “distanze” genetiche tra un ceppo e l’altro. Un procedimento matematico il cui risultato è la classificazione delle varianti secondo la nomenclatura internazionale “PANGO”. Ma si può anche rendere graficamente: una serie di ramificazioni, quasi un cespuglio, che ci dicono la storia di una variante e, in qualche misura, come si sta diffondendo.

“I procedimenti comunemente in uso – dice Adriano Di Pasquale, Centro di Referenza Nazionale GENPAT – hanno il vantaggio di essere veloci, un elemento importante quando parliamo di una pandemia, ma non sono molto precisi. In altri termini, ci danno certamente una fotografia delle varianti e della loro evoluzione, ma è poco dettagliata. Aumentare la precisione, d’altro canto, richiede tempi molto lunghi, anche utilizzando computer potenti”.

L’algoritmo elaborato dai ricercatori IZSAM, invece, permette di aumentare notevolmente la risoluzione delle indagini genomiche mantenendo la rapidità necessaria. “Oltre ad individuare la diffusione di una variante – aggiunge Nicolas Radomski, GENPAT – ora possiamo seguirne la trasmissione, sia in termini di tempo che di spazio, osservando passo passo le ramificazioni che si stanno creando”.

Nato dall’analisi dei campioni di virus raccolti in Abruzzo e analizzati dallo Zooprofilattico di Teramo, il nuovo metodo matematico viene ora proposto a livello internazionale. “Pensiamo che possa essere un valido strumento per tutte le realtà che operano nel contesto della pandemia. – conclude Di Pasquale – È per questo che lo avevamo già messo a disposizione di tutti, sul portale Medrxiv. Abbiamo riscontrato un notevole interesse da parte di varie istituzioni, ed è già in corso una collaborazione con l’Istituto Nazionale di Sanità (INSA) portoghese”.

 Fonte: IZS Teramo



Zanzare ed epidemie: un modello per mappare il rischio

Il sistema sviluppato dall’Osservatorio Nazionale di Atene con Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, Fondazione Edmund Mach e Università di Trento è stato premiato dalla Commissione Europea come miglior modello per predire le epidemie trasmesse dalle zanzare. Grazie ai nuovi fondi, sarà perfezionato un prototipo in grado di fornire in anticipo preziose indicazioni sull’intensità e la localizzazione di malattie come la malaria o la dengue.

Controllare le zanzare (anche) dallo spazio. Sembra un paradosso e invece è il fulcro di Eywa (EarlY WArning System for Mosquito-borne diseases), il sistema avanzato di allerta precoce per le malattie trasmesse dalle zanzare. Un progetto multidisciplinare coordinato dall’Osservatorio Nazionale di Atene al cui sviluppo partecipano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), la Fondazione Edmund Mach (FEM) e l’Università di Trento (UniTrento).

Oggi l’80% della popolazione mondiale vive in aree dove è presente almeno una delle principali malattie trasmesse dalle zanzare, territori dove patologie come malaria, Chikungunya, dengue, febbre gialla o Zika causano oltre 700.000 morti all’anno.

Per contribuire a prevenire e mitigare l’impatto di queste malattie, la Commissione europea ha indetto un premio per finanziare il miglior prototipo che, basandosi dati geo-spaziali, consentisse di monitorarle e prevenirne la trasmissione all’uomo.

Una selezione nella quale il sistema Eywa è risultato il migliore, conquistando il primo premio e ricevendo una sovvenzione di 5 milioni di euro. Basato sulla combinazione di attività di campionamento e sorveglianza sul campo, su analisi di laboratorio, sviluppo di modelli matematici e mappe dinamiche, l’obiettivo di Eywa è quello di combinare i big data derivanti dall’osservazione della Terra e parametri ambientali, climatici, meteorologici, socioeconomici, demografici raccolti sul campo, definendo così un’infrastruttura capace di disegnare modelli predittivi di diffusione affidabili.

L’approccio interdisciplinare di Eywa – che incrocia i dati spaziali del portale Geoss, quelli raccolti dal programma di osservazione satellitare terrestre Copernicus e quelli ottenuti con attività sul campo – è stato possibile attraverso l’incrocio di varie competenze e professionalità. Una sinergia tra diversi attori che potrà ora beneficiare di un importante finanziamento per crescere e perfezionarsi, un percorso di affinamento al quale saranno chiamati anche i partner italiani del progetto, a cominciare dal Laboratorio di parassitologia, micologia ed entomologia sanitaria dell’IZSVe.

“Il progetto ha visto la collaborazione fra vari paesi, e il suo successo si basa sull’incontro di professionalità molto diverse, dagli entomologi ai matematici” dichiara Gioia Capelli, direttore sanitario dell’IZSVe “Ancora una volta le malattie trasmesse da vettori ci insegnano quanto l’approccio multidisciplinare settoriale alla salute unica sia oggi necessario. Il ruolo del nostro Laboratorio è stato quello di fornire i dati derivanti dal sistema di sorveglianza entomologica della West Nile Disease. Il dataset è stato utilizzato per confrontare e validare i dati predittivi sviluppati dai modelli matematici del sistema Eywa con dati reali di presenza e densità di zanzare Culex pipiens e del genere Anopheles in Veneto, vettori rispettivamente di West Nile virus e malaria”.

Tra i numerosi dati che compongono il sistema Eywa e partecipano alla definizione di un modello accurato, quelli ottenuti attraverso l’attività di campionamento entomologico in Trentino, un’azione svolta dalla Fondazione Edmund Mach, con particolare attenzione per le specie di zanzare di maggior interesse per la sanità del territorio.

“L’attività di ricerca della FEM che coordina il tavolo provinciale sul monitoraggio della zanzara tigre e di altre specie di vettori di interesse sanitario – spiega Annapaola Rizzoli, responsabile dell’Unità Ecologia applicata alla salute del Centro Ricerca e Innovazione – prevede di effettuare campionamenti sulle specie di zanzare di maggior interesse per la sanità, ma anche analisi di laboratorio finalizzate allo studio dei parametri vitali delle specie, incluso lo studio delle preferenze alimentari, e lo sviluppo di modelli matematici di previsione. Questa iniziativa senz’altro permetterà nuove collaborazioni scientifiche dalle potenziali importanti ricadute per la salute pubblica, non solo locale ma anche internazionale.

Quanti più sono i dati raccolti, e più ricca è la loro provenienza, tanto più sono necessari modelli matematici capaci di leggerli.

“Il nostro gruppo – chiarisce Andrea Pugliese, matematico di UniTrento – lavorava da tempo sulla modellizzazione dell’infezione del virus West Nile, una delle malattie trasmesse dalle zanzare. Cercavamo di capire come il clima, le temperature o altri fattori rendessero tali epidemie alcuni anni più pesanti e altri meno. Una expertise che abbiamo messo al servizio di Eywa per creare un sistema che avesse buoni livelli di predittività, per studiare le incidenze dei virus nelle varie zone. Un sistema che funziona abbastanza bene e che, con i nuovi fondi della Commissione europea, dovremo ora affinare ulteriormente”.

Il sistema EYWA è in fase di attuazione operativa in nove regioni europee e, da quest’anno, sarà trasferito nei paesi extra UE, Costa d’Avorio e Thailandia.

Fonte: IZS Venezie