Vaiolo delle scimmie, un nuovo nome per evitare stereotipi

Per evitare stereotipi e stigmatizzazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha raccomandato che il virus del vaiolo delle scimmie sia rinominato “mpox”. Entrambi i nomi – mpox e monkeypox – saranno utilizzati contemporaneamente per un anno, mentre il secondo sarà gradualmente eliminato, ha dichiarato l’Oms in un comunicato.

Il cambiamento arriva dopo che un certo numero di individui e di Paesi hanno sollevato preoccupazioni in diverse riunioni e hanno chiesto all’Oms di proporre un modo per cambiare il nome.

Il periodo di transizione di un anno serve a mitigare le preoccupazioni degli esperti circa la confusione causata da un cambio di nome nel bel mezzo di un’epidemia. Inoltre, dà il tempo di completare il processo di aggiornamento della Classificazione internazionale delle malattie (Icd) e di aggiornare le pubblicazioni dell’Oms

A luglio, l’Oms ha dichiarato ufficialmente l’epidemia di vaiolo delle scimmie in più Paesi, al di fuori delle tradizionali aree endemiche dell’Africa, un’emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale. È responsabilità dell’Oms assegnare i nomi alle malattie nuove ed esistenti attraverso un processo consultivo, che include gli Stati membri dell’Organizzazione. La consultazione sul vaiolo delle scimmie ha coinvolto i rappresentanti delle autorità governative di 45 Paesi diversi. Secondo l’Oms, alla data di sabato, 110 Stati membri avevano segnalato 81.107 casi confermati in laboratorio e 1.526 casi probabili, compresi 55 decessi.

La maggior parte dei casi segnalati nelle ultime quattro settimane proveniva dalle Americhe (92,3%) e dall’Europa (5,8%). Il numero di nuovi casi settimanali segnalati a livello globale è diminuito del 46,1% nella settimana dal 21 al 27 novembre.

Fonte: AGI




La malattia emorragica epizootica del cervo (EHD). Dopo lingua blu e influenza aviaria una nuova sfida per la sanità veterinaria.

 Ruggero è il primo animale, un toro, a presentare sintomatologia clinica e lesioni riconducibili alla EHD, la malattia emorragica epizootica del cervo, ma che colpisce anche i ruminanti domestici. Dopo un primo sospetto di blue tongue –i sintomi possono essere inizialmente confusi – la verifica da parte del centro di referenza nazionale di Teramo conferma i sospetti dei veterinari di ASL e IZS della Sardegna.

Con i circa 11000 esemplari di cervi nella sola Sardegna meridionale, il virus potrebbe e avere altissima possibilità di trasmissione, se non si interviene tempestivamente. Da qui l’urgenza di mettere la patologia sotto la lente di ingrandimento, con un incontro nazionale che ha portato a convegno tutti i maggiori studiosi ed operatori dell’Isola e della penisola.

All’incontro ha preso parte l’Assessore dell’Igiene e Sanità e dell’Assistenza Sociale della Regione Sardegna, Mario Nieddu, che ha evidenziato come l’amministrazione regionale si sia già attivata con incontri con tutti i soggetti che hanno un ruolo nella crisi in corso.

Sono intervenuti anche il direttore Generale dell’Istituto Zooprofilattico sardo, Giovanni Filippini, e il Direttore del servizio di Sanità Pubblica Veterinaria della Regione Antonio Montisci, che hanno evidenziato come tutto il sistema sanitario, veterinario e non, si debba necessariamente preparare, a fronte di cambiamenti climatici sempre più accentuati e che conducono alla diffusione sempre più frequente di nuove patologie soprattutto di tipo tropicale.

Di fronte a questa nuova emergenza emergono nuovi scenari e nuovi comportamenti, per evitare la diffusione e circoscrivere il più possibile il fenomeno. Ad illustrare i riferimenti normativi in questo settore è intervenuto Luigi Ruocco, Direttore dell’Ufficio 3 del Ministero della Salute, area che ha la responsabilità della Sanità animale e della gestione e lotta contro le malattie animali. Ruocco ha invitato a fare riferimento alle nuove norme europee per la gestione operativa dell’emergenza, che forniscono una cornice alle azioni di contenimento, e sottolineato il ruolo che la nuova normativa conferisce agli operatori nel rilevare, segnalare e gestire animali sospetti.

Sotto l’aspetto della diagnostica, il laboratorio dell’IZS sarà dotato a breve di un kit, che permetterà di rilevare in tempi brevi un numero elevato di campioni sospetti di positività all’EHD. L’Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale inoltre, che fa capo ugualmente allo zooprofilattico sardo, ha già a disposizione un’App che permette di inserire la singola segnalazione circa la presenza di carcasse di animali selvatici o negli allevamenti.

Il Presidente Commissione agricoltura Piero Maieli ha poi sottolineato la necessità di attivare una unità di crisi specifica, progetto cui l’amministrazione regionale si è già detta disponibile, che possa gestire in modo unitario le strutture regionali coinvolte al fine di consentire azioni concrete per contenimento contro l’espansione della patologia.

Nel corso della giornata si sono alternati esperti di tutta Italia, da Giovanni Savini, Maria Goffredo e Massimo Spedicato e Alessio Lorusso del Centro di Referenza Nazionale per le malattie esotiche degli animali, a Lucio Mandas del Centro Allevamento Recupero Fauna Selvatica (Forestas) e Vincenzo Forma dell’ASL Medio Campidano, che ha per primo rilevato la sintomatologia clinica in Sardegna, assieme ad Angelo Ruiu dell’IZS Sardegna che ha fornito la descrizione delle lesioni anatomo-patologiche riscontrate. Per l’Istituto sono intervenuti inoltre Stefano Cappai, Giantonella Puggioni e Giuseppe Satta. I lavori sono stati coordinati da Sandro Rolesu, Direttore Sanitario dell’IZS Sardegna.

Oltre al lavoro sul contenimento, la ricerca va avanti, e l’auspicio e obiettivo espresso dalla sala è stato quello di arrivare rapidamente ad un vaccino.
A tirare le fila della mattinata il Direttore dell’IZS Giovanni Filippini: “siamo pronti sugli aspetti diagnostici e su quelli organizzativi. La vera sfida sarà sulle strategie a lungo termine, ma siamo in presenza di una squadra che può affrontarle.”

Relazioni Convegno

Fonte: IZS Sardegna




Vespa velutina di nuovo in Veneto

vespa velutinaUna nuova segnalazione di Vespa velutina in Veneto è arrivata qualche giorno fa al sito Stopvelutina, proveniente dalla provincia di Venezia, in località Malcontenta, frazione di Mira (mappa in alto), mentre si alimentava su filari d’uva.

Un sopralluogo prontamente effettuato dal dr Franco Mutinelli, direttore del Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVE), e dal dr Mattia Gambalunga dell’Associazione Patavina Apicoltori in Padova, ha confermato la presenza di esemplari ancora in volo presso i filari e in un vicino apiario.

Nel corso del sopralluogo sono stati catturati davanti agli alveari alcuni esemplari adulti di velutina, mentre all’interno di tre trappole posizionate vicino all’apiario erano presenti esemplari di Vespa crabro e molti altri insetti non identificabili in avanzato stato di decomposizione.

In un primo sopralluogo nell’area circostante non è stato possibile individuare alcun nido, ma ulteriori controlli sono previsti per la prossima settimana.

Vespa velutina era già stata segnalata in Veneto nell’autunno 2016 a Bergantino, in provincia di Rovigo, lungo il fiume Po, con il ritrovamento di numerosi esemplari adulti presso un apiario e, pochi mesi dopo, di un nido. La primavera successiva una regina era stata catturata in  provincia di Mantova, sull’altra sponda del fiume a pochi chilometri da Bergantino. Tuttavia negli anni successivi non sono stati fatti ulteriori ritrovamenti, nonostante la fitta rete di sorveglianza attivata dall’IZSVE e dalle Associazioni apistiche regionali. Non si ipotizza pertanto un legame tra i due focolai, ma piuttosto una nuova importazione, forse dovuta a trasporto attivo.

La nuova presenza di Vespa velutina è stata immediatamente notificata dall’IZSVE alle Associazioni, con richiesta di posizionare le trappole presso gli apiari e di controllarle periodicamente, per consentire un precoce rilievo di eventuali altri esemplari focolai. Secondo alcune persone presenti sul luogo, la presenza di velutina risalirebbe a circa un mese fa. A tal proposito si rammenta l’importanza di una pronta segnalazione, per consentire un intervento in tempi utili.

Fonte: stopvetulina.it




Arbovirosi in Italia: i dati al 31 ottobre 2022

artropodiSono stati pubblicati sul sito EpiCentro (ISS)  i nuovi rapporti del sistema di sorveglianza nazionale integrata delle arbovirosi relativi al periodo 1 gennaio – 31 ottobre 2022. Durante questi mesi il sistema di sorveglianza nazionale segnala: 40 casi confermati di infezione neuro-invasiva – TBE; nessun caso confermato di Chikungunya; 114 casi confermati di Dengue; 100 casi confermati di Toscana Virus; 1 caso confermato di Zika Virus.

Per maggiori informazioni consulta la pagina dedicata ai bollettini periodici della sorveglianza nazionale sulle arbovirosi.

Fonte: ISS




Ema, in Italia antibiotici in allevamento -51% in 10 anni

Le vendite annuali di antibiotici negli allevamenti italiani si sono più che dimezzate in dieci anni, ma restano tra le più alte in Europa.

Sono i dati del rapporto dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) sul consumo di antimicrobici veterinari nell’Ue/See. Dal 2011 al 2020 le vendite sono calate del 43% nei 31 Paesi coperti dal rapporto, in Italia è stata osservata una diminuzione del 51%.

Se si considerano le tonnellate di principio attivo, nel 2020 l’Italia era il terzo Paese per vendite dopo Spagna e Polonia. In rapporto alla popolazione animale negli allevamenti, la Penisola era seconda dopo la Polonia.

Nel 2019, l’Italia si è dotata di un sistema di tracciabilità digitale dei medicinali veterinari con dati anche a livello di allevamenti, che è un “passo importante verso lo sviluppo di un adeguato programma di gestione antimicrobica”, scrive Ema. I dati, sottolinea l’agenzia Ue, “mostrano progressi verso il raggiungimento degli obiettivi” del Piano nazionale contro la resistenza agli antibiotici, adottato nel 2017.

Fonte: Ansa




L’Oms a caccia di nuovi patogeni

L’Organizzazione ha convocato gli esperti per compilare un elenco aggiornato di agenti patogeni prioritari che possono causare future epidemie o pandemie. 

L’ Oms sta convocando oltre 300 scienziati che prenderanno in considerazione le prove su oltre 25 famiglie di virus e batteri, oltre alla “Malattia X”, che indica un agente patogeno sconosciuto che potrebbe causare una grave epidemia internazionale. Il processo è iniziato venerdì e guiderà gli investimenti globali e la ricerca e lo sviluppo (R&S), in particolare nei vaccini, nei test e nei trattamenti. L’elenco dei patogeni prioritari è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 e comprende COVID-19, malattia da virus Ebola , febbre di Lassa, sindrome respiratoria mediorientale (MERS), sindrome respiratoria acuta grave (SARS), febbre della Rift Valley, Zika e “Malattia X”. “Prendere di mira i patogeni prioritari e le famiglie di virus per la ricerca e lo sviluppo di contromisure è essenziale per una risposta rapida ed efficace a epidemie e pandemie “, ha affermato Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Oms. “Senza significativi investimenti in ricerca e sviluppo prima della pandemia di Covid-19 , non sarebbe stato possibile sviluppare vaccini sicuri ed efficaci in tempi record”, ha aggiunto.

Gli esperti consiglieranno un elenco di agenti patogeni prioritari che necessitano di ulteriori ricerche e investimenti.  Il processo includerà sia criteri scientifici che di salute pubblica, nonché criteri relativi all’impatto socioeconomico, all’accesso e all’equità. Saranno sviluppate tabelle di marcia di R&S per quei patogeni identificati come prioritari, delineando le lacune di conoscenza e le aree di ricerca. Saranno inoltre compiuti sforzi per mappare, compilare e facilitare le sperimentazioni cliniche per sviluppare vaccini, trattamenti e test diagnostici. L’elenco rivisto dovrebbe essere pubblicato all’inizio del 2023.

Fonte: panoramasanita.it




Spillover e Spillback, andata e ritorno dei patogeni dall’uomo agli animali

In questi anni abbiamo sentito parlare parecchio di spillover, che letteralmente identifica un “salto di specie” ma che più spesso viene inteso come passaggio di un patogeno dagli animali all’uomo. Tale meccanismo può essere alla base  di malattie nuove o emergenti o vere e proprie epidemie/pandemie, come nel caso dell’influenza e probabilmente del SARS_CoV-2.

Si parla meno frequentemente, ma non è meno importante in ottica One Health, del fenomeno dello  “spillback” che identifica il processo inverso ovvero il “salto” del patogeno dall’uomo agli animali, talvolta a specie molto diverse da quelle che erano serbatoio o ospite occasionale/spillover del patogeno stesso. Lo spillback può determinare la comparsa e la stabilizzazione di un patogeno negli animali in un territorio dove prima non era presente, ed  essere causa di malattia in specie animali che loro volta possono diventare fonte di infezione per l’uomo.

Il meccanismo è meno complicato di quanto sembra se pensiamo al virus del vaiolo della scimmia, (monkeypox) che è sempre stato localizzato in Africa e in poche altre regioni, nelle quali è passato dalla scimmia ed altre specie di roditori che fungevano da serbatoio all’uomo, avendo però ben poche occasioni di passare in altre specie animali, anche domestiche.

Tuttavia, da quando il monkeypox virus si è diffuso tra gli umani in nuove aree più densamente popolate, come gli Stati Uniti e l’Europa, è sorto il problema della possibile infezione anche di nuove specie animali “domestiche” a contatto con esseri umani infetti (cani, roditori, lagomorfi etc.) e quindi anche del potenziale passaggio nelle specie selvatiche.

La mancanza di controllo e monitoraggio dei fenomeni di spillback può essere facilmente causa della costituzione di nuovi serbatoi animali di virus e della persistenza della malattia nelle nuove aree “conquistate”.

Per questo l’Organizzazione Mondiale della Salute animale (WOAH) ha prodotto una linea guida per indirizzare a conoscere e limitare il rischio di spillback dall’uomo agli animali selvatici, ai pet e ad altri animali.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Covid: possibilità di trovare antenato del virus “quasi nulle”

coronavirusLe chance di rintracciare l’antenato di Covid-19 sono ormai quasi nulle. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione a cui giunge un approfondimento pubblicato sulla rivista Nature, in cui si ripercorrono gli sforzi effettuati dalla ricerca per ricostruire le origini della pandemia. Stando alle conoscenze attuali, spiegano i virologi, SARS-CoV-2 potrebbe aver condiviso un antenato con i coronavirus dei pipistrelli più recentemente di quanto precedentemente ipotizzato. Individuare le origini dell’agente patogeno, però, è molto più complesso di quanto si possa immaginare. I virus possono infatti scambiare tra loro frammenti di RNA, attraverso un processo chiamato ricombinazione. In un’analisi presentata durante il World One Health Congress a Singapore, gli scienziati hanno confrontato frammenti di genomi di coronavirus per cercare di individuare le origini di Covid-19. L’indagine suggerisce che alcune sezioni di coronavirus di pipistrello e SARS-CoV-2 condividevano un antenato comune nel 2016, appena tre anni prima dell’inizio della pandemia. Questo lavoro, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, restringe l’arco di tempo intercorso tra l’antenato di SARS-CoV-2 originato nei pipistrelli e l’agente patogeno che ha provocato l’emergenza sanitaria globale. I risultati, tuttavia, non contribuiscono alla spiegazione puntuale di come e quando sia avvenuto il salto.

“Le possibilità di trovare un antenato diretto di Covid-19 sono quasi nulle – afferma Edward Holmes, virologo evoluzionista presso l’Università di Sydney – l’agente patogeno che ha raggiunto l’umanità nel 2019 potrebbe essere stato il frutto di una serie di ricombinazioni e mutazioni. È ormai praticamente impossibile ricostruire le origini della pandemia”. Dall’inizio della diffusione di Covid-19, moltissimi esperti hanno sequenziato i genomi dei coronavirus dei pipistrelli, esaminando campioni di tessuti conservati nella speranza di individuare l’antenato di SARS-CoV-2, ma tutti gli sforzi si sono rivelati poco proficui. Alcuni hanno anche ipotizzato che il virus sia sfuggito dal Wuhan Institute of Virology, ma questa teoria non è stata convalidata da evidenze scientifiche. Finora sono stati isolati più di una dozzina di virus strettamente correlati al SARS-CoV-2 da pipistrelli e pangolini. Questo approccio ha portato all’individuazione di due parenti stretti dell’agente patogeno: un virus di pipistrello trovato in Laos chiamato BANAL-52, il cui genoma è identico al 96,8 per cento a quello di SARS-CoV-2, e un virus chiamato RaTG13, trovato nello Yunnan, nella Cina meridionale, che condivide il 96,1 per cento del proprio genoma con il responsabile della pandemia. “Per tradurre in arco temporale queste differenze – afferma Spyros Lytras, dell’Università di Glasgow – abbiamo confrontato 18 virus di pipistrello e pangolino strettamente correlati a SARS-CoV-2 e li abbiamo uniti in 27 segmenti, ognuno dei quali ha una storia evolutiva diversa”. Per ogni tratto, i ricercatori hanno utilizzato un sottoinsieme più ampio di 167 virus correlati per stimare quanto recentemente SARS-CoV-2 abbia condiviso un antenato comune con il virus considerato. L’analisi ha rivelato che alcuni segmenti condividevano un antenato comune con SARS-CoV-2 solo pochi anni fa, con i frammenti più giovani associati a tessuti di pipistrelli campionati nello Yunnan e nel Laos. “Alcuni frammenti esaminati – conclude Lytras – erano piuttosto corti, il che rende le stime meno affidabili. Questo approccio è stato molto interessante, e potrebbe averci avvicinato un po’ alla risoluzione del mistero sulle origini di Covid-19, che però potrebbero essere troppo complesse da ricostruire”.

Fonte: AGI




Il batterio Listeria Monocytogenes individuato per la prima volta in una tartaruga marina

Un passo in avanti fondamentale per capire il ruolo di questo microrganismo patogeno nell’ecosistema marino

 Una tartaruga spiaggiata recuperata sulle coste abruzzesi, morta dopo pochi giorni, ha rappresentato il punto di partenza per una ricerca che ha portato all’isolamento di Listeria monocytogenes . Si tratta della prima volta nella quale questo microrganismo viene individuato in un rettile marino, aprendo la strada a nuove ricerche per capire meglio la sua diffusione nell’ambiente.

Lo studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e pubblicato sulla rivista scientifica Animals , ha preso in esame una tartaruga della specie Caretta caretta, la più diffusa nel Mediterraneo. L’animale, trovato su una spiaggia del comune di Ortona, in Abruzzo, era stato raccolto dal Centro Studi Cetacei ONLUS e trasferito al Centro di Recupero e Riabilitazione Tartarughe Marine di Pescara. Le sue già gravi condizioni lo avevano portato a morte nel giro di sei giorni.

A questo punto sono iniziate le indagini da parte dei laboratori dell’IZS, dove la carcassa era stata trasferita. Con un risultato piuttosto sorprendente: la tartaruga era affetta da listeriosi, infezione che ne aveva causato la morte. Potenziale responsabile di contaminazione alimentare e, seppur raramente, causa di infezioni anche gravi negli esseri umani, l’attenzione verso questo batterio deve essere sempre mantenuta alta.

Listeria monocytogenes – dice Ludovica Di Renzo, prima autrice del lavoro scientifico – è largamente diffusa, sia nel suolo che nelle acque dolci. Inoltre il batterio è anche capace di sopravvivere per settimane nell’ambiente marino. Questo rilevamento in un rettile come la Caretta caretta, animale che consideriamo uno dei migliori indicatori della salute dei mari, ci apre prospettive nuove per capire meglio la diffusione di Listeria monocytognes e le sue capacità di adattamento. Siamo stati in grado di studiare la tartaruga entro pochissimo tempo dalla morte, un risultato che è reso possibile grazie all’esistenza in Abruzzo della Rete Regionale Spiaggiamenti e del Centro Studi Cetacei”.

Dagli studi condotti sul genoma è risultato che il ceppo di Listeria monocytogenes isolato dall’IZS presenta geni di virulenza, che lo rendono capace di causare infezioni gravi negli animali, e potenzialmente nell’uomo. “Da questo punto di vista – continua la ricercatrice – le nostre osservazioni confermano l’ipotesi che gli ambienti selvatici, compreso quello marino, favoriscano il mantenimento e la diffusione di ceppi potenzialmente virulenti di Listeria monocytogenes. I nostri prossimi passi, ora, riguarderanno studi genomici che potranno darci informazioni preziose sulla distribuzione in natura del patogeno e geni di virulenza ad esso associati.

La presenza di un batterio potenzialmente pericoloso come Listeria monocytogenes in animali marini sottolinea anche un aspetto più ampio, come evidenzia Di Renzo: “Per molti il concetto di ‘One health’, di una salute globale che comprenda uomo, animali e piante, è limitato agli ambienti terrestri. Invece vediamo sempre di più che è arrivato il momento di includere anche il mare nell’idea di questo sistema unico ed integrato”.

Il lavoro scientifico pubblicato su Animals, infine, rappresenta l’occasione di raccomandare a tutti l’adozione di misure di precauzione quando si ha a che fare con animali spiaggiati, spesso oggetto della curiosità di bagnanti, soprattutto bambini. Il potenziale pericolo di infezioni deve infatti sempre essere considerato. “La cautela e l’adozione di buone pratiche nell’approccio a un animale spiaggiato, anche se si tratta di una piccola tartaruga – conclude la ricercatrice – vale non solo per gli specifici operatori impegnati nel recupero, ma anche per tutti i cittadini”.

Fonte: IZS Teramo



David Quammen: un delfino, una focena e due uomini hanno avuto l’influenza aviaria. Un avvertimento per tutti

All’inizio di settembre, gli scienziati dell’Università della Florida hanno confermato che un delfino – la cui carcassa era stata trovata a marzo scorso in un canale, lungo la Costa del Golfo – presentava un tipo di influenza aviaria altamente patogeno. Aveva un’infiammazione cerebrale.

Come dice il nome stesso, il virus dell’influenza aviaria è molto abile nel contagiare gli uccelli, ma talvolta si spinge oltre e prende altre direzioni. Pochi mesi dopo la morte del tursiope, un altro mammifero marino – una focena – è stato trovato spiaggiato e in fin di vita sulla costa occidentale svedese. Poco dopo il ritrovamento, la focena è deceduta, colpita dal medesimo virus. Tra questi due casi, ce n’è stato uno più preoccupante ancora in Colorado: dopo alcune analisi di laboratorio, un uomo è risultato positivo all’influenza aviaria. Era un carcerato impegnato a lavorare in vista della scarcerazione in un impianto di pollame, nel quale doveva procedere all’abbattimento selettivo dei volativi colpiti dal contagio.

Altre analisi hanno messo in discussione il contagio del soggetto, sussistendo il dubbio che il tampone di controllo potesse essere entrato semplicemente in contatto con virus presenti nel suo naso. Tuttavia, quello del carcerato canadese non è stato l’unico caso di essere umano risultato positivo all’influenza aviaria – per la precisione l’H5N1 – l’anno scorso. Intorno al Natale del 2021, anche un britannico di 79 anni, che viveva in contatto stretto con una ventina di anatre di sua proprietà, è risultato positivo al virus dell’influenza aviaria.

Se questi quattro eventi – un delfino morto, una focena morta, due uomini risultati positivi a un pericoloso virus aviario – non vi appaiono in relazione tra loro e vi sembrano insignificanti, forse dipende dal fatto che non avete sentito parlare di “viral chatter”, espressione coniata vari decenni fa il dottor Donald Burke, esperto ricercatore di malattie infettive ed ex rettore della University of Pittsburgh Graduate School of Public Health, per indicare il momento in cui un virus effettua in modo episodico un salto di specie, passando da animali selvatici a esseri umani e provocando talvolta una piccola catena di contagi. Si tratta di un segnale d’allarme dei focolai, spesso riconosciuto quando ormai è troppo tardi.

L’idea di viral chatter in sostanza allude all’emissione di un breve segnale periodico quando avviene un salto di specie

mi ha detto il dottor Burke undici anni fa.

I virus degli uccelli passano ai mammiferi. I virus dei pipistrelli passano agli uomini. Di solito, questi focolai e contagi occasionali arrivano a un punto morto, il che è un bene. Ma “occasionali” significa anche che uno schema si ripete, il che è male – o quanto meno allarmante. Ciò che questo schema segnala alle persone avvedute come il dottor Burke è che un dato virus “vuole” superare il divario tra ospiti animali ed esseri umani e diffondersi ovunque.

Dire che un virus “vuole” fare qualcosa è antropomorfismo, naturalmente, perché i virus non sono dotati di volontà propria. È soltanto la mera convenienza, e non un’intenzione malvagia, a determinare il loro comportamento. L’antropomorfismo, in ogni caso, può tornare utile. I segnali dell’influenza H5N1 indicano che il virus sta esplorando le sue prospettive tra vari mammiferi. Faremmo bene a ricordare che ciò ci riguarda direttamente da vicino.

Sono due le domande sul “viral chatter” che formulano gli esperti di malattie infettive: stiamo ascoltando con sufficiente attenzione per capire quello che implicano? Siamo pronti ad agire?

Non ogni persona contagiata diventa il paziente zero di un focolaio di considerevoli dimensioni, per non parlare di una pandemia. Tuttavia, quanti più casi si presentano – e tanti più segnali vi sono – tanto più è grande la possibilità che un contagio porti alla catastrofe. Gli esseri umani vivono molto vicini tra loro e sono interconnessi, il che significa che costituiscono una grandissima opportunità per qualsiasi virus in grado di contagiare i mammiferi.

L’H5N1 è soltanto uno di numerosi sottotipi di febbre aviaria passati all’uomo negli ultimi decenni, e le influenze sono soltanto uno dei modi con i quali i virus sono capaci di effettuare il salto tra specie. Ovviamente, i coronavirus sono altro ancora.

Quando nel luglio 2003 terminò l’epidemia originaria di Sars, sembrò che il virus fosse stato sradicato tra gli esseri umani – anche se in natura continuava a esistere. Però, quando dal dicembre 2003 al gennaio 2004 si presentarono quattro nuovi casi tra gli esseri umani, si scoprì che il virus aveva effettuato di nuovo un salto di specie, a quanto pare in un ristorante dove si tenevano in gabbia zibetti delle palme (ospiti intermedi del virus) serviti come pietanza. Ciò portò a due in un solo anno i casi di salto di specie del virus Sars. Quanti altri casi, però, non furono segnalati?

Il virus Nipah, altro esempio, fu individuato tra gli esseri umani in Malesia nel 1998, quando effettuò un primo salto di specie dai pipistrelli, tra i quali è di casa, ai maiali e un secondo salto ancora da questi ai coltivatori di maiali e ai commercianti di carne di maiale. I pipistrelli della frutta che lo ospitano sono molto diffusi un po’ ovunque in Asia meridionale e da allora il virus Nipah ha provocato decine di focolai in Bangladesh e in India orientale. Il suo tasso di letalità arriva ben al 75 per cento ma, per nostra fortuna, non si trasmette facilmente da persona a persona. La prossima volta che si presenterà può darsi che lo faccia… Riuscite a sentire i segnali?

«Non simulerò di essere un veggente» mi disse il dottor Burke. Previsione, disse, era una parola già molto forte per quello che faceva. «In ogni caso, si può affermare che da quella zona si sentono arrivare segnali, che si tratta di una zona pericolosa e che questi sono i virus di cui dovremmo preoccuparci». Le previsioni informate sulle aree a rischio rendono possibili due aspetti importanti per la prevenzione di una pandemia: la vigilanza nei riguardi dei contagi più inverosimili e dello scoppio imminente di un’epidemia per intervenire per tempo, e una risposta efficace e immediata per contenere i contagi e impedire che si diffondano. La necessità di una seria vigilanza sui virus non è nuova. Subito dopo che fu fondata nel 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità predispose un osservatorio globale sull’influenza e un sistema di intervento (Global Influenza Surveillance and Response System), una rete di laboratori e di centri di coordinamento miranti a individuare e risalire ai ceppi influenzali, registrarne i trend, monitorare gli interventi di politica sanitaria nel mondo. Questo sforzo coinvolge oggi alcune istituzioni di primaria importanza in 124 Stati facenti parte dell’Oms e prevede la condivisione a livello globale delle informazioni genetiche ed epidemiologiche raccolte. Nel 2000, nella preoccupazione crescente di altri virus emergenti, i membri dell’Oms hanno creato qualcosa di più ambizioso ancora, il Global Outbreak Alert and Response Network, ideato per aiutare i Paesi nei quali dovessero presentarsi dei focolai a impedirne la diffusione a livello globale. Da allora, nel corso degli anni, sono state varate molte più iniziative e organizzazioni. Di recente, però, ho parlato di influenza aviaria con cinque illustri ricercatori di varie parti del mondo, chiedendo a ciascuno di essi un parere sulla vigilanza esercitata. Le loro risposte sono state cinque variazioni di “inadeguatezza”.

Uno dei modi migliori per esercitare la vigilanza è sottoporre a esami del sangue e di altri campioni biologici le persone apparentemente sane che vivono in situazioni di rischio, per esempio i coltivatori di pollame o di suini (che possono fungere da intermediari per i virus influenzali) o chi lavora nei mercati dove si vendono animali vivi in gabbia, uccelli e mammiferi le cui deiezioni si spargono ovunque e che respirano l’aria di un medesimo ambiente chiuso. Un altro modo molto efficace per vigilare sullo scoppio di un focolaio è la campionatura preventiva degli animali selvatici con i quali gli esseri umani vengono in contatto, per esempio le prede catturate dai cacciatori, i roditori che infestano gli edifici, le anatre e le oche selvatiche che si mescolano ai loro simili domestici nelle mangiatoie o negli specchi d’acqua all’aperto. In parte, in alcune comunità e situazioni commerciali lo si fa già, ma secondo gli esperti non lo si fa abbastanza.

I motivi dell’inadeguatezza comprendono errori delle organizzazioni, finanziamenti limitati, alcuni aspetti economici dell’industria del pollame, il mercato nero degli animali selvatici e lo scarso impegno da parte dei governi nazionali e locali. Nei Paesi a basso reddito vi è anche penuria di tecnici e di veterinari preparati, come anche una resistenza a condividere le informazioni e i dati e una certa opposizione a controllare i soggetti sani ma a rischio, mentre tra le nazioni più potenti e con buone risorse circolano sospetti reciproci (esacerbati dall’esperienza con la Covid-19).

L’inadeguatezza è deplorevole e pericolosa. Viviamo in un mondo di virus che stanno all’interno di creature cellulari di tutti i tipi: animali, piante, funghi, protozoi, batteri e altri microbi. Centinaia di migliaia di questi virus nei mammiferi e negli uccelli possono contagiare l’uomo, e il contagiato potrebbe essere in grado di trasmettere il virus a un’altra persona, e poi a un’altra e un’altra ancora. Se non sentiamo i segnali è soltanto perché non stiamo ascoltando attentamente.

David Quammen su The New York Times 31 ottobre 2022