Zoonosi, il white paper della quadripartita

Della quadripartita (FAO, OMS, WOAH e UNEP) si parla spesso, specialmente in chiave One Health. L’impegno delle quattro organizzazioni, con il supporto del loro organo consultivo OHHLEP, ha di recente portato alla pubblicazione di un White Paper dedicato alle zoonosi e all’impegno che ogni Paese dovrebbe assumersi in forma condivisa, in nome di un benessere generale.

Il documento sostiene la necessità di ridurre il rischio di malattie zoonotiche partendo dalla fonte e adottando migliori misure di prevenzione e un approccio più efficiente. Non basta attivarsi, insomma, come si è fatto fino ad oggi, dopo che un patogeno ha già fatto il salto dagli animali all’uomo (descritto come un evento di spillover), consentendo il riemergere di una data malattia o l’emergere di nuove. Serve piuttosto distinguere le attività di contenimento dei focolai da quelle mirate alla prevenzione delle ricadute.

Per questo ‘OHHLEP propone la seguente definizione: “Prevenire la diffusione dei patogeni dagli animali agli esseri umani significa spostare il paradigma del controllo delle malattie infettive da reattivo a proattivo (prevenzione primaria). La prevenzione include l’affrontare i driver dell’emergenza della malattia, vale a dire i fattori e le attività ecologici, meteorologici e antropogenici che aumentano il rischio di spillover, al fine di ridurre il rischio di infezione umana. Tra le altre azioni, occorre puntare con forza sulla  biosorveglianza negli ospiti naturali, nelle persone e nell’ambiente, comprendendo le dinamiche di infezione dei patogeni e attuando attività di intervento”.

Un’impostazione proattiva richiede approcci diversi, che tengano conto dei cambiamenti  del suolo legati allo sviluppo delle infrastrutture, dell’industria o all’espansione agricola. E poi si devono prendere in considerazione anche fattori generali come il cambiamento climatico, la povertà e le disuguaglianze socioeconomiche e le pratiche di base per la salute animale e umana e il benessere degli animali.

E l’impatto economico di questo approccio?

Non può essere un deterrente. Anzi, il documento dimostra che la prevenzione intelligente costerebbe ben meno degli interventi ex post. I costi di prevenzione variano da circa 10 miliardi di dollari a 31 miliardi di dollari all’anno a livello globale, mentre la risposta alle recenti crisi di malattie infettive come le epidemie di Ebola e Mpox costa più tempo e denaro di quanto sarebbe necessario per avviare approcci di prevenzione. Basti pensare, per esempio, che le perdite economiche previste dalla pandemia di COVID-19 sono stimate in quasi 14 trilioni di dollari fino al 2024. L’OHHLEP sottolinea che l’approccio One Health non solo aiuterebbe a prevenire nuove epidemie e pandemie, ma fornirebbe anche significativi benefici economici, sociali e ambientali come la riduzione delle emissioni di gas serra.

Fonte: Vet33.it




Allevamenti a basso impatto con il life cycle assessment

muccaNegli ultimi anni le smart technology hanno trovato il loro posto negli allevamenti – in Italia come in altri Paesi – e hanno contribuito ad aumentare l’efficienza e la sostenibilità dei processi zootecnici.

In un’ottica One Health è fondamentale misurare l’impatto non solo sulla produttività, ma anche sull’ambiente, sulla salute animale e sui lavoratori delle tecnologie innovative che si stanno diffondendo, per identificare quelle più utili. Uno strumento riconosciuto e usato allo scopo è la valutazione del ciclo di vita o life cycle assessment (Lca). Una metodologia, standardizzata a livello internazionale, che permette di valutare e quantificare i carichi ambientali e gli impatti potenziali associati a un prodotto, a un processo o a un’attività lungo l’intero ciclo di vita: a partire dall’acquisizione delle materie prime fino al “fine vita”.

Lice cycle assessment: una realtà anche nella zootecnia

La metodologia, applicabile a tantissimi ambiti diversi, viene impiegata in agricoltura da circa 20-25 anni e più di recente anche in zootecnia.

Marcella Guarino, professore ordinario all’Università degli Studi di Milano (Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali) studia le smart technology usate negli allevamenti intensivi in Italia. E dal 2017, insieme al collega Jacopo Bacenetti, usa il life cycle assessment per cercare di capire l’impatto dell’innovazione in zootecnia sull’ambiente e sulla società.

“I prodotti di zootecnia di precisione oggi sono ampiamente diffusi e permettono agli allevatori di gestire un allevamento con più tecnologia, più controllo e con la possibilità di ridurre l’intervento umano: il tutto nell’ottica del One Health – racconta Guarino -. Nei nostri studi cerchiamo di paragonare un’attività prima e dopo l’introduzione di una particolare tecnologia, per capire se, in che misura e in che modo questa migliora l’impatto ambientale e la salute animale”.

Usare la metodologia Lca, spiega Bacenetti, consiste nel definire i flussi di massa ed energia tra sistema (un allevamento intensivo ad esempio) e ambiente. “Prendiamo in considerazione tutto ciò che viene consumato, come i mangimi, il gasolio, i prodotti per la pulizia, e le emissioni nell’ambiente, quindi l’emissione di inquinanti legati ai gas di scarico dei trattori, oppure emessi all’animale o i reflui da loro prodotti. Tutti questi dati vengono inventariati e convertiti in indicatori di impatto ambientale usando un fattore di conversione”.

In questo modo i ricercatori possono stimare l’impatto sul cambiamento climatico o la produzione di particolato, per esempio.

Come ridurre l’ammoniaca in suinicoltura

Bacenetti e Guarino stanno concludendo un progetto sull’efficienza di diverse soluzioni (in parte appositamente sviluppate) per l’abbattimento di polvere e ammoniaca negli allevamenti intensivi di suini.

L’Italia è tra i principali paesi produttori di carne suina nell’Unione europea, con circa nove milioni di capi (di cui il 50 per cento in Lombardia). Gli allevamenti di suini generano emissioni di ammoniaca (NH3), che contribuiscono ai fenomeni di acidificazione ed eutrofizzazione. L’ammoniaca è un precursore del particolato fine (PM 2,5), a cui si giunge attraverso reazioni chimiche con il biossido di zolfo (SO2) e ossidi di azoto (NOx). Con significativi effetti negativi sulla salute umana.

“L’Italia ha la particolarità di produrre il prosciutto di Parma, per cui alleviamo animali che arrivano a pesare anche 180 chili. In questi allevamenti vengono prodotte importanti quantità di ammoniaca. Per questo abbiamo pensato di installare uno scrubber che, usando l’acido citrico, catturi l’ammoniaca sottraendola cosi all’ambiente”, spiega Guarino.

La macchina è uno scrubber a umido costituito da due serbatoi: il primo contenente solo acqua per catturare il particolato ed il secondo acqua in soluzione con acido citrico, per catturare l’ammoniaca. L’aria, prelevata all’interno dei ricoveri grazie ad una pompa di aspirazione, passa attraverso i due serbatoi ed è poi reimmessa nella stanza.

“I nostri sono solo prototipi, ma le grandi aziende hanno colto il vantaggio e stanno riadattando dei sistemi per garantire all’interno degli allevamenti una qualità dell’aria appropriata”, nota Guarino.

Le tecnologie più diffuse

Sulla base degli studi condotti da Guarino e dai suoi colleghi, in particolare in Lombardia, sono diverse le tecnologie che permettono di aumentare l’efficienza degli allevamenti e di ridurre l’impatto ambientale delle attività.

“Prima di tutto sono importantissimi i sistemi di early warning, che permettono il monitoraggio della salute animale 24 ore su 24, 7 giorni su 7, come i rilevatori della tosse dei suini che permettono di identificare immediatamente un problema di salute e di prevenirlo. Sono poi utili tutte le tecnologie di gestione e ottimizzazione che consentono di sfruttare al massimo il ciclo di vita degli animali. Esistono oggi macchine che permettono di allattare il vitello più volte al giorno o di distribuire l’alimento agli animali in mungitura in modo automatizzato più volte al giorno e in base alle necessità dell’animale. Sono poi molto interessanti tutti gli scrubber che permettono di pulire l’aria”, racconta l’esperta.

Contrasto alla formazione di biogas

Dalle ricerche, nota Bacenetti, è anche emerso che la maggior parte dell’impatto ambientale degli allevamenti è legato all’alimentazione degli animali.

“Nell’ultimo anno molti allevatori di bovini da carne hanno cercato di modificare la dieta degli animali: sostituendo i prodotti ad alto impatto con sottoprodotti dell’industria agroalimentare”, commenta l’esperto. “Abbiamo anche osservato che, tra le soluzioni di mitigazione dell’impatto in zootecnia, una delle più efficaci è la realizzazione di impianti di biogas grazie ai quali, nel caso di allevamenti di bovini da carne, è possibile ridurre l’impatto ambientale di un allevamento mediamente del 10 per cento”.

La certificazione sarà richiesta dalla Gdo

Secondo Guarino sempre più aziende – e in particolare un numero sempre maggiore all’interno della grande distribuzione organizzata – richiederà nei prossimi anni una certificazione Lca.

“L’Europa si è data un obiettivo di neutralità climatica entro il 2050 e il mercato sta andando in questa direzione: sono gruppi di distribuzione che stanno portando avanti politiche per acquisire solo prodotti a impatto zero”.

Zootecnia smart a beneficio dei lavoratori

I ricercatori hanno notato che una zootecnia smart va anche a beneficio di coloro che lavorano negli allevamenti. “Abbiamo visitato un allevamento di vacche da latte in provincia di Cremona, il più evoluto in Italia dal punto di vista tecnologico – racconta la ricercatrice – e ci siamo resi conto che, oltre ad essere particolarmente efficiente, l’azienda è anche un luogo di lavoro molto ambito perché il lavoro più pesante da un punto di vista fisico viene fatto dalle macchine”.

I ricercatori hanno allora intrapreso degli studi per valutare l’impatto sociale degli allevamenti intensivi suini, usando il Social life cycle assessment (S-Lca): una metodologia ancora poco esplorata in ambito zootecnico. “Intendiamo scoprire come i lavoratori degli allevamenti vivono l’uso delle tecnologie”, dice Guarino.

L’uso del social life cycle Assessment in ambito zootecnico si è però rivelato più complesso del previsto. L’approccio è molto più qualitativo rispetto all’Lca classico e si basa sulla disponibilità dei lavoratori a rispondere a una serie di domande sul salario, sulla regolarità dei pagamenti, sulla percentuale di lavoratori con regolare contratto di lavoro, sulle ore di formazione, sulle ore lavorative settimanali, sugli straordinari, gli infortuni e sulle malattie correlate al lavoro.

La reticenza degli allevatori

Domande a cui non sempre è stata data una risposta volentieri.

“Abbiamo cercato di intervistare i lavoratori degli allevamenti di suini in Italia e in Catalogna – racconta Bacenetti – ma i risultati non sono stati sempre soddisfacenti. Non perché abbiamo rilevato situazioni di bassa sostenibilità sociale ma perché gli allevatori non condividono volentieri queste informazioni. Nessun allevamento della Catalogna ci ha concesso i colloqui dopo che avevamo anticipato loro le domande, mentre in Italia siamo riusciti a effettuare interviste in un numero limitato di allevamenti. C’è poi un’altra criticità: il metodo si basa non solo sulla disponibilità degli intervistati, ma anche sulla loro sincerità. C’è quindi il rischio che a partecipare alla valutazione siano le aziende più virtuose e attente al benessere degli animali e dei lavori nonché più propensi a collaborare con le comunità locali”.

La rilevazione del benessere animale

Il S-Lca è quindi uno strumento da migliorare per riuscire ad ottenere un quadro realistico delle condizioni dei lavoratori negli allevamenti in Italia e all’estero.

Bacenetti nota che intanto alcuni ricercatori stanno cercando di implementare un Lca che permetta la valutazione del benessere animale. “Potrebbe essere interessante, ma bisognerà considerare indicatori diversi per ogni specie”.

In ogni caso al momento risulta evidente che una zootecnia attenta alla sostenibilità ambientale e al benessere animale che fa uso delle tecnologie disponibili per migliorare l’efficienza e l’impatto delle attività è nell’interesse dell’allevatore e dei lavoratori.

Secondo Guarino però non è chiaro chi e come dovrebbe sostenere l’aumento dei costi dovuto all’introduzione dell’innovazione. “Dobbiamo riflettere sugli allevamenti intensivi e chiederci se il consumatore sia disposto a pagare di più per dei prodotti che impattino meno sull’ambiente”.

Fonte: aboutpharma.it




Lyssavirus nei pipistrelli, la trasmissibilità del virus raddoppia dopo il parto

Lo studio dell’IZS delle Venezie su due colonie in Alto Adige, nessun rischio di rabbia per l’uomo.

Otto anni. Tanto è durato lo studio su due colonie altoatesine di due specie sorelle di pipistrelli vespertilionidi, per valutare le dinamiche di trasmissione dei lyssavirus. I ricercatori del Centro di referenza nazionale per la rabbia presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno osservato che le due colonie, localizzate in edifici frequentati dall’uomo, raggiungono un’elevata numerosità di qualche migliaio di individui, che raddoppia dopo il parto sincrono all’inizio dell’estate. Lo studio è stato condotto in collaborazione con Università del Sussex, Imperial College London, Università di Bologna e Cooperativa Sterna di Forlì, e pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B.

Le colonie residenti nel territorio della provincia di Bolzano sono state monitorate in più momenti dell’anno durante la stagione riproduttiva, dal 2015 al 2022, per un totale di 27 osservazioni. Sono stati raccolti e generati dati sierologici, virologici, demografici ed ecologici che hanno quindi permesso di valutare i fattori alla base della trasmissione di European bat lyssavirus 1 (EBLV1) in questi animali e le differenze osservate all’interno di una stessa stagione riproduttiva, e di anno in anno.

I lyssavirus sono una famiglia che conta 17 specie di virus, tra cui anche il virus della rabbia, la maggior parte di essi presenti nei chirotteri. Tuttavia, il virus EBLV1 non è da confondere con il virus della rabbia, che invece non circola sul territorio italiano: infatti, l’Italia è indenne da rabbia dal 2013.

modelli elaborati indicano che le due colonie vanno incontro ad epidemie stagionali guidate da diversi fattori.

“La trasmissione del virus in queste colonie è favorita inizialmente dalla presenza di individui, con scarsa memoria immunitaria, in seguito all’ibernazione, che si ammassano assieme nei sottotetti degli edifici scelti dalla colonia”, spiega Paola De Benedictis, direttrice del CRN rabbia e coautore dell’articolo. “La trasmissione aumenta eccezionalmente dopo il parto sincrono poiché al raddoppiamento della densità della colonia (numero di individui nello stesso spazio) si unisce anche la presenza di neonati caratterizzati da un sistema immunitario immaturo.”

Finora i ricercatori non hanno mai trovato il virus EBLV1 in modo diretto ma soltanto tracce del suo passaggio:

“Al momento, a fronte di una evidenza di circolazione virale che osserviamo indirettamente grazie alla presenza di anticorpi, non abbiamo mai rinvenuto soggetti positivi – continua De Benedictis – L’ipotesi è dunque che il virus EBLV1 si trasmetta solo all’interno delle popolazioni di pipistrelli, senza che questo rappresenti peraltro un pericolo imminente per altri animali e per l’uomo”.

I risultati ottenuti evidenziano il notevole impegno profuso dal Centro di referenza nazionale per la rabbia per comprendere i fattori ecologici alla base della circolazione dei patogeni, al fine di elaborare valutazioni più solide sul rischio di spillover dagli ospiti serbatoio a quelli occasionali, incluso l’uomo. I Lyssavirus sono potenzialmente in grado di causare rabbia nei mammiferi, per questo motivo i pipistrelli sono sorvegliati speciali.

“Le attività di sorveglianza e di ricerca scientifica sono fondamentali per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive – afferma la Direttrice generale Antonia Ricci – L’IZSVe con la locale sezione di Bolzano ha avviato nel corso degli anni numerosi progetti di collaborazione con il Servizio veterinario della Provincia Autonoma di Bolzano e il Servizio veterinario dell’Azienda sanitaria dell’Alto Adige, per la tutela e la salute delle specie d’allevamento delle zone alpine e la conservazione della fauna selvatica.”

I dati sono stati raccolti e prodotti grazie ai fondi erogati dal Ministero della Salute, mediante i bandi di Ricerca Finalizzata (WFR GR-2011-023505919) e di Ricerca Corrente (RC IZSVe 08/18 e RC IZSVe 06/19). La collaborazione con i ricercatori inglesi è stata resa possibile con fondi ERA-NET ICRAD nell’ambito del progetto ConVErgence (BBSRC concessione n. BB/V019945/1).

Fonte: IZS Venezie




Animali: soggetti e oggetti di diritto nell’era del post-benessere

Nell’ultimo ventennio il dibattuto tema culturale del rapporto tra gli esseri umani e gli animali ha acquisito crescente importanza, tanto da un punto di vista teorico quanto da un punto di vista pratico.

Da un punto di vista prettamente giuridico, l’introduzione della disciplina legale a protezione degli animali sembra essere il frutto di un’ideologia culturale, affermatasi dapprima in Europa e nel Nuovo Continente e solo poi transitata in Italia, ed è volta ad affermare l’esistenza di un dovere, in capo alla specie umana, di cura e protezione nei confronti delle specie animali. In ambito giuridico dottrinale, si intravede una normativa protesa ad attribuire all’animale una qualche sorta di soggettività giuridica. A tal proposito si parla di “diritto degli animali” inteso come quell’insieme di norme orientate e tese a disciplinare i rapporti tra gli animali e l’uomo, avendo particolare riguardo ai diritti dei primi e ai doveri del secondo nei riguardi degli animali.

L’obiettivo del presente articolo è quello di ripercorrere l’evoluzione della legislazione nazionale in materia di diritto degli animali, anche in virtù del recente ingresso nella Carta Costituzionale della suddetta materia avvenuto con la Legge Costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 analizzando i più significativi interventi legislativi in materia. Analisi che si rende doverosa al fine di svolgere opportune considerazioni di carattere comparatistico, per meglio comprendere se sia effettivamente possibile parlare degli animali (intesi sia come categoria, sia nella singolarità di ciascuna specie) come soggetti di imputazione di specifiche posizioni giuridiche piuttosto che come meri oggetti di disciplina giuridica, e valutarne eventuali benefici e criticità.

Indice

Leggi l’articolo completo su ruminantia.it




WOAH: Proteggere la salute della fauna selvatica migliorando i sistemi di sorveglianza

WOAH: Proteggere la salute della fauna selvatica migliorando i sistemi di sorveglianza

Le interazioni tra esseri umani, animali domestici e fauna selvatica sono diventate più frequenti poiché gli esseri umani invadono sempre più l’ambiente in passato riservato alle specie selvatiche. Gli eventi di malattie emergenti sono spesso attribuiti alla fauna selvatica, ma possono anche essere causati dall’attività umana, dai cambiamenti climatici, dalla deforestazione e persino da alcune pratiche agricole che alterano gli ecosistemi. Quando la natura e gli ecosistemi sono sbilanciati, la salute di tutti ne risente. Gli animali selvatici possono essere colpiti tanto quanto gli esseri umani da alcuni agenti patogeni, che sono particolarmente devastanti per le specie in via di estinzione o vulnerabili. Le epidemie possono anche avere ripercussioni sui mezzi di sussistenza, poiché gli animali selvatici rappresentano un’importante fonte di cibo e reddito per le comunità locali. I pipistrelli, ad esempio, sono portatori di malattie, ma sono anche impollinatori vitali e dispersori di semi, essenziali per mantenere la sicurezza alimentare umana in tutto il mondo e la salute degli ecosistemi. La salvaguardia della salute della fauna selvatica mantiene in equilibrio ecosistemi cruciali e aiuta a mantenere la salute degli animali e degli esseri umani.

Per questo WOAH ha elaborato un documento quadro per il monitoraggio costante della salute della fauna selvatica, raccomandando a tutti i paesi di utilizzarlo. Il documento descrive rafforzare le strategie One Health attraverso un Wildlife Health Framework. Ciò risponde all’esigenza globale di gestire meglio i rischi derivanti dalle malattie emergenti all’interfaccia degli ecosistemi uomo-animale, proteggendo al contempo la fauna selvatica.

L’approccio descritto nel documento è in linea con il mandato di WOAH quale principale organizzazione internazionale in materia di salute animale. Riconosce che la salute degli animali (selvatici e domestici), gli ecosistemi equilibrati e la biodiversità contribuiscono al raggiungimento di One Health.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Le micro-nanoplastiche come veicoli di Toxoplasma gondii e di altri protozoi nei mari e negli oceani

Sono oramai trascorsi sei anni da quando il Dr James T. Carlton ed i suoi collaboratori descrissero sulla prestigiosa Rivista Science l’inedita dispersione nell’Oceano Pacifico di decine di organismi acquatici, in larga misura invertebrati, per effetto dello tsunami occorso in seguito al sisma del Marzo 2011 lungo le coste orientali giapponesi. Ad amplificare notevolmente tale fenomeno intervennero le micro-nanoplastiche, che operarono in qualità di “zattere” nei confronti dei succitati organismi (1).

Nella complessa ed articolata disamina dell’interazione di questi ultimi con gli innumerevoli frammenti di materiale plastico presenti in mare, particolare attenzione andrebbe prestata ai microorganismi patogeni, numerosi dei quali sarebbero in grado di esercitare un consistente impatto sulla salute e sulla conservazione dei Cetacei (2), sempre più minacciati peraltro dalle attività antropiche.

Un esempio paradigmatico è rappresentato, a tal proposito, da Toxoplasma gondii, un agente protozoario dotato di comprovata capacità zoonosica (3) e la cui infezione sarebbe in grado di determinare la comparsa di gravi ed estese lesioni encefalitiche nei delfini della specie “stenella striata” (Stenella coeruleoalba) – un comune abitante delle acque mediterranee, così come di quelle temperate e tropicali di tutti i mari e gli oceani del pianeta -, con conseguente spiaggiamento e morte degli esemplari colpiti (4). Sebbene vi sia un sostanziale accordo fra i membri della comunità scientifica in merito alla possibilità che un “flusso terra-mare” costituisca il meccanismo biologicamente più plausibile attraverso cui le oocisti di T. gondii riescano a trasferirsi dall’ambiente terrestre a quello marino ed oceanico (analogamente a molti altri microorganismi, protozoari e non, a trasmissione oro-fecale), rimane tuttavia da spiegare come le stesse possano raggiungere ed essere pertanto acquisite dalle stenelle striate, così come da tutte le altre specie cetologiche T. gondii-sensibili che vivono in mare aperto, a fronte della più che comprensibile azione diluente esercitata dal mezzo acquatico nei loro confronti (5).

In altre parole, se appare facile intuire, da un lato, come una specie “costiera” quale il “tursiope” (Tursiops truncatus) – il delfino comunemente ospitato nei delfinari, così come negli oceanari e nei parchi acquatici – possa sviluppare l’infezione da T. gondii, la comprensione di una siffatta evenienza risulta assai meno agevole, dall’altro lato, in presenza di una specie “pelagica” quale S. coeruleoalba. Varie le ipotesi formulate per spiegare tale fenomeno, ivi compresa l’esistenza di un ciclo biologico “marino”, esclusivo o complementare rispetto a quello terrestre di T. gondii (5). A onor del vero, tuttavia, non essendo mai stata dimostrata l’esistenza in natura di cicli vitali del parassita alternativi o comunque differenti da quello terrestre, sarebbe davvero interessante studiare in dettaglio se gli tsunami, gli eventi sismici sottomarini e, più in generale, il moto delle correnti acquatiche possano rendersi responsabili del trasferimento, anche a lunghe distanze, di T. gondii così come di altri microorganismi patogeni a trasmissione oro-fecale. Degna di nota è, in un siffatto contesto, la segnalazione relativa alla presenza in più specie ittiche d’interesse commerciale di T. gondii, che potrebbe esser stato veicolato alle medesime dai frammenti di materiale plastico ingeriti in mare (6). Ciò fa il paio con la recente descrizione, in mare aperto, di T. gondii e di altri due importanti agenti protozoari – Cryptosporidium parvumGiardia enterica -, che sono stati giustappunto rilevati in stretta associazione con microsfere di polietilene e, soprattutto, con microfibre di poliestere (7).

Alla luce di quanto sin qui esposto, mentre il presunto “sinergismo di azione patogena” fra T. gondii e micro-nanoplastiche appare meritevole di ulteriori studi ed approfondimenti, non vi è dubbio al contempo che un approccio “integrato”, basato sul salutare principio/concetto della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente -, rappresenti la conditio sine qua non per investigare al meglio i complessi quanto affascinanti rapporti intercorrenti fra il parassita ed i suoi ospiti nell’ambito delle catene trofiche e degli ecosistemi marini.

Bibliografia di riferimento

1) J.T. Carlton, J.W. Chapman, J.B. Geller, et al. Tsunami-driven rafting: Transoceanic species dispersal and implications for marine biogeography. Science 357, 1402-1406. DOI: 10.1126/science.aao1498 (2017).

2) M.-F. Van Bressem, J.-A. Raga, G. Di Guardo, et al. Emerging infectious diseases in cetaceans worldwide and the possible role of environmental stressors. Dis. Aquat. Organ. 86, 143-157. DOI: 10.3354/dao02101 (2009).

3) J.G. Montoya, O. Liesenfeld. Toxoplasmosis. Lancet 363, 1965-1976. DOI: 10.1016/S0140-6736(04)16412-X (2004).

4) G. Di Guardo, U. Proietto, C.E. Di Francesco, et al. Cerebral toxoplasmosis in striped dolphins (Stenella coeruleoalba) stranded along the Ligurian Sea coast of Italy. Vet. Pathol. 47, 245-253. DOI: 10.1177/0300985809358036 (2010).

5) G. Di Guardo, S. Mazzariol. Toxoplasma gondii: Clues from stranded dolphins. Vet. Pathol. 50, 737. DOI: 10.1177/0300985813486816 (2013).

6) A.M.F. Marino, R.P. Giunta, A. Salvaggio, et al. Toxoplasma gondii in edible fishes captured in the Mediterranean basin. Zoonoses Public Health 66, 826-834 (2019).

7) E. Zhang, M. Kim, L. Rueda, et al. Association of zoonotic protozoan parasites with microplastics in seawater and implications for human and wildlife health. Sci. Rep12, 6532. https://doi.org/10.1038/s41598-022-10485-5 (2022).

 

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

 

 




Microplastiche nei mari: il livello di contaminazione nelle carni di pesce spada e tonno rosso del Mediterraneo

microplastichePer la prima volta, microplastiche, polimeri e additivi sono stati rilevati nel tessuto muscolare dei pesci, proprio la parte che finisce nel piatto dei consumatori.

Le microplastiche sono un serio problema ambientale che sta colpendo gli ecosistemi marini in tutto il mondo. Particelle di dimensioni ridotte, comprese tra 0,1 e 5000 micron, che possono adsorbire sostanze tossiche presenti nell’ambiente circostante rappresentando un’ulteriore via di esposizione alle stesse per la fauna marina. Essendo oramai presenti nella catena alimentare acquatica, i consumatori possono rischiare la loro ingestione. E proprio nel Mediterraneo la contaminazione da plastiche, assieme agli additivi usati per i trattamenti a cui sono sottoposte, è una delle più elevate a livello globale.

Una ricerca condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo in collaborazione con il Croatian Veterinary Institute di Spalato e l’Università Politecnica delle Marche, pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Sea Research, ha permesso ora di rivelare il livello di contaminazione da microplastiche in due specie di pesce comuni nel Mediterraneo: il pesce spada (Xiphias gladius), pescato nel Mare Ionio, e il tonno rosso (Thunnus thynnus), proveniente dall’Adriatico. La particolarità dello studio è che i contaminanti sono stati rilevati anche mediante metodologie mai applicate prima nei muscoli dei pesci, quindi nella parte che effettivamente finisce nei nostri piatti.

“Molti studi precedenti – dice Federica Di Giacinto, ricercatrice del Centro per la Biologia delle acque dell’IZS Teramo – erano incentrati sul contenuto delle sole microplastiche esclusivamente nell’apparato digerente dei pesci. La nostra ricerca, invece, ha potuto evidenziare la contaminazione a livello muscolare non solo da microplastiche, ma anche da polimeri e additivi usati per la loro produzione. Le microplastiche che abbiamo rilevato nei muscoli molto probabilmente sono state ingerite dai pesci e poi sono traslocate dall’apparato gastro-intestinale ai tessuti circostanti”.

Mediante l’utilizzo della stereomicroscopia, della microspettroscopia Raman e della cromatografia liquida con spettrometria di massa, lo studio, condotto con il supporto finanziario dell’Unione Nazionale Cooperative Italiane (UNCI), ha riguardato microplastiche di dimensioni inferiori ai 10 micron e polimeri, come polietilentereftalato (PET) e policarbonato (PC), oltre a pigmenti e additivi come il bisfenolo A (BPA) e l’acido p-ftalico (PTA). Alcune di queste sostanze, ampiamente utilizzate per la produzione di beni di plastica di largo consumo, sono sotto osservazione per valutare se abbiano effetti sulla salute. È il caso del BPA, considerato capace di interferire con la funzionalità del sistema endocrino.

“Questo lavoro – continua Di Giacinto – punta a contribuire a una conoscenza più approfondita di queste particolari categorie di inquinanti, sia dal punto di vista dell’estensione del fenomeno, sia applicando nuove metodologie per la loro quantificazione. I prossimi passi del nostro laboratorio, ora, saranno di valutare quale sia il livello di contaminazione in ulteriori animali acquatici, arrivando ad una valutazione dell’effettiva esposizione alla quale sono esposti i consumatori”.

 Fonte: IZS Teramo



Casi di Equine Herpes Virus-1 nel circuito delle competizioni internazionali

In due concorsi internazionali organizzati ad Oliva (Spagna) e Lier (Belgio) sono stati riscontrati casi di EHV-1 (Rinopneumonite). Non sono stati osservati sintomi neurologici, a differenza del focolaio, sempre in ambito competitivo, a Valencia, nel 2021.

La notizia è stata riportata dalla stampa nazionale locale e anche dalla FEI (Federazione Equestre Internazionale), ed è possibile reperirla ai seguenti link:

https://inside.fei.org/media-updates/update-confirmed-ehv-1-cases-lier-bel-and-oliva-esp

https://www.cavallomagazine.it/apertura/ehv-1-oliva-annulla-lultimo-concorso-del-tour

La FISE ha inoltre diffuso i seguenti  comunicati:

https://www.fise.it/attivita-federazione/veterinaria/news-veterinaria/archivio-news-veterinaria/18379-casi-di-ehv-1-nei-concorsi-di-oliva-esp-e-lier-bel.html 

https://www.fise.it/attivita-federazione/veterinaria/news-veterinaria/archivio-news-veterinaria/18381-aggiornamento-sui-casi-confermati-di-ehv-1-a-lier-bel-e-oliva-esp.html  

Tramite i quali viene raccomandato in modo particolare che i cavalli che abbiano avuto contatti con equini che abbiano partecipato agli eventi sopra riportati siano sottoposti a rilievi termometrici per verificare un eventuale sviluppo di rinopneumonite o forme neurologiche, tipiche di questo virus.

Informazioni sulle misure di biosicurezza da adottare possono essere reperite sul sito del Centro di Referenza per la Malattie degli Equidi e sul sito della FEI ai seguenti link:

https://www.izslt.it/cerme/wp-content/uploads/sites/7/2021/03/FACTSHEET-EHV.pdf

https://inside.fei.org/system/files/Annex%201%20-%20EHV-1%20Factsheet_1.pdf

In caso di sospetto clinico si raccomanda di eseguire sempre dei tamponi nasali profondi, uno per narice e di inviarli alla UOC Virologia di Roma per gli esami diagnostici (per eseguire il prelievo seguire le istruzioni al seguente link

Fonte: IZS Lazio Toscana




Mammalian Orthoreovirus (MRV), un nuovo studio coinvolge anche cani e gatti

animali d'affezioneDei Mammalian Orthoreovirus (MRV) si conosce ancora poco, solo da una decina d’anni si è cominciato a studiarne le dinamiche di circolazione nel serbatoio animale e a cercare di capire il loro potenziale zoonotico.

I MRV sono stati scoperti per la prima volta negli anni ’50, in seguito ad isolamento virale da campioni enterici umani. Il loro genoma è segmentato e consente fenomeni di riassortimento, favorendo l’evoluzione virale e la generazione di nuove varianti. Negli ultimi anni sono aumentate le segnalazioni di casi umani di infezione da MRV, i cui ceppi sono stati definiti come “riassortanti” e derivanti da spillover (animale-uomo). Nell’uomo questi virus possono causare gravi enteriti, infezioni respiratorie acute ed encefaliti.

Recentemente alcuni ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno raccolto informazioni interessanti sulla circolazione di MRV in popolazioni di pipistrelli e suini. Oggi, questa ricerca si estende anche a cani e gatti, grazie a uno studio che mira ad indagare i rischi emergenti per l’uomo derivanti dalla circolazione interspecifica di Orthoreovirus in animali da compagnia.

I Mammalian Orthoreovirus (MRV) sono virus di cui si conosce ancora poco, che nell’uomo questi virus possono causare gravi enteriti, infezioni respiratorie acute ed encefaliti. Una ricerca dell’IZSVe finanziata dal Ministero della Salute mira ad indagare i rischi emergenti per l’uomo derivanti dalla circolazione interspecifica di Orthoreovirus in cani e gatti. Per svolgere il progetto l’IZSVe chiederà la collaborazione di alcune strutture veterinarie distribuite sul territorio di competenza per la raccolta e l’analisi di campioni di feci prelevati da cani e gatti di proprietà, asintomatici o con sintomatologia gastroenterica.

Il progetto si chiama ”Mammalian Orthoreovirus (MRV): in-deep study of a One Health strategy to counter the emerging risk of animal-human spillover and transmission” e contribuirà ad approfondire le evidenze finora emerse in animali domestici a più stretto contatto con l’uomo, ovvero cani e gatti.

A guidare il progetto è la ricercatrice Mery Campalto, biotecnologa del Laboratorio di virologia diagnostica, che ha ricevuto un finanziamento Starting Grant di 130 mila euro nell’ambito bando della Ricerca Finalizzata 2021 messo a disposizione dal Ministero della Salute.

Gli obiettivi dello studio

Lo studio avrà una durata complessiva di 36 mesi e si concentrerà sull’analisi di campioni di feci prelevati da cani e gatti di proprietà, asintomatici o con sintomatologia gastroenterica.

Il primo obiettivo sarà di valutare la circolazione di MRV nei cani e nei gatti del Triveneto, escludendo la presenza di altri patogeni in diagnosi differenziale (test parassitologici, virologici e batteriologici rivolti a patogeni di rilevanza sanitaria umana e animale).

Il secondo obiettivo sarà la caratterizzazione genetica di MRV rilevati attraverso saggi molecolari, isolamento su linee cellulari e sequenziamento. L’analisi filogenetica permetterà di valutare la diversità genetica di MRV isolati nella popolazione di studio e di compararli con gli isolati umani già pubblicati e condivisi a livello nazionale o internazionale.

Il confronto di isolati virali da animale con quelli di origine umana consentirà di realizzare il terzo obiettivo, ovvero la valutazione epidemiologica del possibile legame uomo-animale.

Cliniche veterinarie

L’IZSVe chiederà la collaborazione di alcune strutture veterinarie distribuite sul territorio di competenza per la raccolta e l’analisi dei campioni.

Al momento del campionamento, il medico veterinario compilerà un questionario per la raccolta di informazioni epidemiologiche; i campioni biologici saranno raccolti a seguito di adesione spontanea alla ricerca da parte del proprietario dell’animale e non sono previste indagini mediche invasive. Conformemente allo scopo del progetto, non è previsto l’uso di protocolli terapeutici sugli animali coinvolti. I risultati saranno condivisi con i professionisti partecipanti al progetto e divulgati in forma aggregata.

MRV negli animali

Studi recenti hanno evidenziato la notevole diversità genetica dei ceppi virali circolanti in tutto il mondo tra diverse specie di mammiferi. A causa dell’apparente mancanza di barriere di specie e del possibile riassortimento tra ceppi animali e umani, l’identificazione precoce di focolai di zoonosi e spillover ha un’importanza cruciale, nel contesto dell’attuale scenario pandemico di COVID-19.

Ad oggi le conoscenze sulla circolazione di MRV nei cani e nei gatti e sul potenziale zoonotico di questi virus sono scarse. Un’indagine preliminare su MRV è stata eseguita su campioni di feci di cane e di gatto prelevati da animali asintomatici nel Nord-Est Italia nel 2021. Lo screening molecolare ha dato esito positivo nel 7,7% dei campioni di gatto (5 campioni positivi su 65 analizzati) e nello 0,8% dei campioni di cane (1 campione dubbio su 129 analisi effettuate).

Alla luce degli studi sempre più numerosi che descrivono casi umani di infezione da MRV, è importante comprendere il possibile rischio di infezione dovuta all’interazione animale-uomo (o viceversa), soprattutto in riferimento alla crescente presenza di cani e gatti nelle famiglie e all’interesse per gli Interventi Assistiti con Animali (IAA) rivolti a bambini e persone vulnerabili.

Fonte: IZS venezie




Zanzara tigre asiatica Aedes albopictus: implicazioni per il controllo biologico

Aedes albopictus è una zanzara originaria del sud est Asiatico. Estremamente diffusa a livello globale, rappresenta  non solo una  fonte di fastidio durante gran parte dell’anno, ma anche  una seria minaccia per la salute umana, essendo un vettore competente di molti virus come dengue, Zika e chikungunya. Arrivata in Italia negli anni ’90, questa specie è oramai diffusa in tutto il nostro paese; le larve riescono a svilupparsi sfruttando piccole raccolte d’acqua presenti in ambiente peridomestico (es., sottovasi, tombini, secchi, ecc.). Per cercare di ridurre la popolazione della zanzara tigre e mitigarne gli impatti negativi, sono in corso numerose ricerche focalizzate sull’utilizzo di organismi o sostanze naturali che siano al contempo efficaci e rispettosi dell’ambiente.

Tra le sette specie appartenenti al genere Utricularia (fam. Lentibulariaceae)   presenti in Italia, la pianta acquatica Utricularia australis, nota come erba vescica delle risaie, è la più diffusa. Oltre a trarre nutrimento dal processo di fotosintesi, queste piante sono dotate di foglie modificate – vere e proprio trappole – che consentono di catturare e digerire piccoli organismi acquatici, come crostacei e larve di insetti. Questa particolare caratteristica le potrebbe rendere un efficace strumento di controllo biologico per la lotta contro le zanzare.

L’efficacia di predazione della pianta, su larve di zanzara tigre di diverse dimensioni, è stata testata in laboratorio utilizzando filamenti di U. australis inseriti in piccoli recipienti insieme a un numero noto di larve di Ae. albopictus, per un periodo di 7 giorni. Il numero di larve catturate e di individui che raggiungevano lo stadio adulto è stato registrato quotidianamente. I risultati hanno indicato che U. australis riesce a ridurre del 72% il numero di larve di piccole, mentre è meno efficace contro quelle di più grandi dimensioni (39%). Anche quando una piccola porzione di corpo viene intrappolata, la larva, che non riesce a raggiungere la superficie dell’acqua per respirare, muore per asfissia.

In questo primo studio pilota, i ricercatori hanno  dimostrato come la pianta carnivora acquatica U. australis,  abbia le potenzialità per essere utilizzata come agente di biocontrollo contro la zanzara tigre, riuscendo a ridurre drasticamente il numero di larve se utilizzata in piccole raccolte d’acqua. L’efficacia di questa specie in ambiente naturale resta ancora un argomento da esaminare.

Fonte: IZS Lazio Toscana