Medicina Veterinaria e “One Health”, alcune riflessioni

La visione olistica One Health,” si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità,“è antica e al contempo attuale”. Si tratta di un piano o, per meglio dire, di un “patto” di collaborazione tra salute umana, animale e ambientale, al fine di preservare concretamente l’integrità del Pianeta e dei suoi abitanti. Un ottimo progetto, verrebbe da dire, se non fosse che il concetto ed il principio della “Salute Unica”, alias “One Health”, ancorchè sulla bocca di molti politici, amministratori della cosa pubblica e “addetti ai lavori”, si trova ad esser relegato, nei fatti, in una dimensione di pressochè totale oblio.

I nostri “Padri”, secoli orsono, già declinavano il concetto-principio di “One Health” con l’antesignana quanto efficace espressione di “Universal Medicina” e ci sorprende molto in qualità di Medici Veterinari ma anche di comuni cittadini, nell’attuale contesto pandemico da CoViD-19/SARS-CoV-2, che la Medicina Veterinaria, pienamente titolata ad avere un ruolo di “primo attore” nella gestione di una pandemia verosimilmente originante da un “primario” serbatoio animale (pipistrelli) e, forse, anche da uno “secondario” (non ancora identificato a tutt’oggi), sia stata messa in secondo piano, in aperto contrasto con il succitato principio di “One Health”. E dire che almeno il 70% delle “malattie infettive emergenti” nella nostra specie ha una comprovata o quantomeno sospetta origine da un serbatoio animale!

Una quantomai eloquente ed emblematica “cartina al tornasole” rispetto a quanto sopra ci viene fornita dalla mancata cooptazione della Medicina Veterinaria in seno al Comitato Tecnico-Scientifico (CTS) istituito dal Ministero della Saluteper la gestione della pandemia da SARS-CoV-2, fattispecie quest’ultima che trova riscontro in entrambe le “edizioni” del CTS, della cui prima – targata Febbraio 2020 – facevano parte 20 membri, successivamente ridotti a 12 nella seconda, deliberata nel Marzo di quest’anno.

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum! E pensare che una fetta consistente dell’attività di sorveglianza epidemiologica “attiva” nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 in Italia è stata svolta dagli Istituti Zooprofilattici Sperimentali (II.ZZ.SS.), un’ultracentenaria e quantomai efficiente e capillare rete di presidi di sanità pubblica veterinaria, umana ed ambientale che il mondo intero c’invidia! Ai milioni di tamponi rino-faringei umani processati in questi mesi dagli II.ZZ.SS. per le indagini biomolecolari finalizzate all’identificazione di sequenze genomiche SARS-CoV-2-specifiche, si sono aggiunte infatti, in epoca più recente, le oltremodo significative ricerche incentrate sul sequenziamento dell’intero genoma degli isolati virali presenti in pazienti (così come in animali) infetti. E, proprio grazie a questi studi di fondamentale rilevanza condotti, fra gli altri, dall’I.Z.S dell’Abruzzo e Molise “Giuseppe Caporale”, dall’I.Z.S. del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta nonchè dall’I.Z.S. delle Venezie, è stato possibile identificare, esattamente un mese fa, la presenza della “variante inglese” (alias “B.1.1.7”) in un gatto in provincia di Novara, che avrebbe acquisito l’infezione dai suoi proprietari.

Che la Medicina Veterinaria affondi le proprie radici e riconosca il proprio “marchio di fabbrica” nelle malattie infettive è confermato dalla nascita, in Europa, delle prime Facoltà di Medicina Veterinaria nella seconda metà del XVIII secolo, allorquando il virus della peste bovina flagellava e sterminava le mandrie del Vecchio Continente. E, trascorsi esattamente 250 anni dall’istituzione della prima Scuola di Medicina Veterinaria, fondata nel 1761 a Lione, in Francia, è stata ottenuta nel 2011, grazie alle vaccinazioni su larga scala della popolazione bovina, l’eradicazione di questa temibile malattia infettiva, analogamente a quanto avvenuto 32 anni prima per il vaiolo.

Historia magistra vitae!

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

Alessandra Di Natale
Medico Veterinario libero professionista, Catania




Attivazione di un piano di prevenzione sulle misure anti-contagio negli impianti di macellazione

L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il “Rapporto ISS COVID-19 n. 8/2021 – Attivazione di un piano mirato di prevenzione sulle misure anti-contagio e sulla gestione dei focolai di infezione da COVID-19 negli impianti di macellazione e sezionamento: nota metodologica ad interim. Versione dell’8 aprile 2021“.

La letteratura scientifica evidenzia come gli impianti di macellazione e sezionamento ad elevata capacità abbiano costituito importanti focolai COVID-19. Questo rapporto illustra l’attivazione di un Piano Mirato di Prevenzione (PMP) per COVID-19 per le attività comprese sotto il codice ATECO 10.1, partendo dal registro degli impianti (circa 6700) presso il Ministero della Salute. Tale piano ha visto come soggetto attuatore il Gruppo Tecnico Interregionale per la Sicurezza e Salute sul Lavoro e il Coordinamento Interregionale Prevenzione nell’ambito della Commissione Salute, articolazione della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome – con il contributo tecnico-scientifico di ISS, INAIL e Dipartimento di Prevenzione ASL Bari. Sono stati messi a punto tre strumenti sinergici: a) scheda di autocontrollo destinata agli operatori; b) scheda di valutazione per i dipartimenti di prevenzione; c) scheda di gestione focolai. Il PMP intende: sensibilizzare i datori di lavoro al rispetto e corretta applicazione delle misure anti-contagio; registrare in maniera standardizzata e confrontabile i dati relativi; approfondire le conoscenze sulle condizioni di rischio certe (sovraffollamento) o sospette (bassa temperatura, elevata umidità) per la diffusione del contagio; analizzare i fattori ambientali, gestionali e strutturali relativi ai focolai insorti all’interno degli stabilimenti.




Ipotesi patogenetiche sulle (pur rarissime) affezioni trombotiche post-vaccinali

Il Professor Giovanni Di Guardo, già Docente di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, in una “Lettera all’Editore” recentemente pubblicata sul prestigioso “British Medical Journal” avanza alcune ipotesi patogenetiche in merito a quella rarissima condizione trombotica che va sotto il nome di “vaccine-induced, thrombotic, immune-mediated thrombocytopenia“, che e’ stata descritta in un ridottissimo numero di pazienti (1 caso su 150.000-200.000 vaccinati, con esito infausto segnalato in un individuo ogni 1.500.000 vaccinati), prevalentemente di sesso femminile e di età compresa fra i 20 e i 50 anni, a seguito della vaccinazione anti-CoViD-19 con il vaccino anglo-svedese prodotto da AstraZeneca e, cosa emersa ancor più di recente, anche con quello statunitense prodotto da Johnson & Johnson.

Si tratta, sottolinea il Prof. Di Guardo, di un’evenienza rarissima, che mai e poi mai dovrebbe mettere in discussione gli enormi vantaggi derivanti dalla vaccinazione di massa anti-CoViD-19 con i succitati presidi immunizzanti e rispetto alla cui verosimile natura autoimmunitaria il contributo in oggetto rimarca l’opportunità che vengano eseguite approfondite indagini sulle motivazioni alla base dell’insorgenza di tali fenomeni trombotici soprattutto in soggetti di sesso femminile e di età inferiore ai 50 anni. Sebbene le forme più gravi di CoViD-19 siano infatti caratterizzate da disordini sistemici della coagulazione (cosiddetta “coagulazione intravasale disseminata”), sarebbero soprattutto gli individui di sesso maschile ed in età geriatrica, come ben noto, a pagare il tributo più alto in termini di percentuale di ricoveri in terapia intensiva nonché di decessi”.




IPBES: sfuggire all’era delle pandemie passando dalla reazione alla prevenzione

Un nuovo importante rapporto sulla biodiversità e pandemie, redatto da 22 maggiori esperti nel mondo, avverte che se non ci sarà un cambiamento trasformativo nell’approccio globale alla gestione delle malattie  infettive, future pandemie emergeranno più spesso, si diffonderanno più rapidamente, arrecheranno più  danni all’economia mondiale e uccideranno più persone rispetto a COVID-19.

Convocati dalla Piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (IPBES) per partecipare a un seminario, in modalità virtuale, sulle connessioni tra il degrado  della natura e l’aumento dei rischi pandemici, gli esperti concordano sul fatto che sfuggire all’era delle  pandemie è possibile, ma che ciò richiederà un cambiamento profondo  dell’approccio applicato: dalla reazione alla prevenzione.

COVID-19 è almeno la sesta pandemia sanitaria globale dalla Grande Pandemia Influenzale del 1918, e sebbene abbia le sue origini in patogeni trasmessi dagli animali, come tutte le pandemie, la sua comparsa è  stata interamente determinata dalle attività umane, afferma il rapporto pubblicato a ottobre 2020.

Si stima che esistano attualmente altri 1,7 milioni di virus “non ancora conosciuti” che utilizzano mammiferi e uccelli come ospiti, di questi circa 850.000 potrebbero avere la capacità di infettare le persone.

“Non c’è un grande mistero sulla causa della pandemia COVID-19 – o di qualsiasi pandemia moderna”, ha  affermato il dott. Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, chiamato a presiedere il seminario IPBES. “Le attività umane che causano il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità sono le stesse che, attraverso i loro impatti sul nostro ambiente,conducono al rischio di pandemia,. I cambiamenti nell’uso del territorio; l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura; e il commercio, la produzione e il consumo non  sostenibili sconvolgono la natura e aumentano il contatto tra fauna selvatica, animali allevati, agenti  patogeni e persone. Questo è il percorso verso le pandemie “.

Il Rapporto afferma che il rischio di pandemia può essere notevolmente ridotto riducendo le attività umane che causano la perdita di biodiversità, aumentando il livello di conservazione della natura mediante l’aumento delle aree protette e attraverso misure che riducono lo sfruttamento insostenibile delle regioni del pianeta ad alta biodiversità. Ciò ridurrà il contatto tra fauna selvatica, bestiame e esseri umani e aiuterà  a prevenire la diffusione di nuove malattie.

La schiacciante evidenza scientifica indica una conclusione molto positiva“, ha detto il dott. Daszak.  “Possiamo contare su una crescente capacità di prevenire le pandemie, ma il modo in cui le stiamo  affrontando in questo momento ignora in gran parte questa capacità. Il nostro approccio si è effettivamente impantanato: facciamo ancora affidamento sui tentativi di contenere e controllare le  malattie dopo che si sono manifestate, attraverso vaccini e terapie. Possiamo sfuggire all’era delle  pandemie, ma ciò richiede una maggiore attenzione alla prevenzione oltre alla reazione“. “I cambiamenti radicali che l’attività umana è stata in grado di produrre sul nostro ambiente naturale non  devono essere sempre visti come eventi negativi. Questi forniscono anche una prova convincente del  nostro potere di guidare il cambiamento necessario per ridurre il rischio di future pandemie, generando  contemporaneamente vantaggi per la conservazione e riducendo il cambiamento climatico“.

Il rapporto afferma che fare affidamento sulle risposte alle malattie dopo la loro comparsa, per esempio ricorrendo a misure di salute pubblica e a soluzioni tecnologiche e in particolare alla rapida preparazione e  alla distribuzione di nuovi vaccini e terapie, è un “percorso lento e incerto”, sottolineando come la reazione  alle pandemie comporti una diffusa sofferenza umana e decine di miliardi dollari l’anno di danni  all’economia globale.

Il rapporto offre anche una serie di opzioni politiche che aiuterebbero a ridurre e affrontare il rischio di pandemia. Tra queste:

• Istituire una commissione intergovernativa di alto livello sulla prevenzione delle pandemie allo scopo di: fornire ai decisori la migliore scienza ed evidenza sulle malattie emergenti; prevedere le aree ad alto  rischio; valutare l’impatto economico di potenziali pandemie ed evidenziare le lacune conoscitive da colmare con le attività di ricerca. Questa commissione potrebbe anche coordinare la progettazione di unquadro di monitoraggio globale.
• Impegnare i Paesi a stabilire obiettivi o traguardi reciprocamente concordati nel quadro di un accordo o  trattato internazionale, con chiari vantaggi per le persone, gli animali e l’ambiente.
• Istituzionalizzazione dell’approccio “One Health” nei governi nazionali per costruire la preparazione alle pandemie, migliorare i programmi di prevenzione delle pandemie e indagare e controllare le epidemie in tutti i settori.
• Sviluppare e incorporare (integrare) valutazioni del rischio di impatto sulla salute di malattie pandemiche ed emergenti nei principali programmi e progetti di sviluppo e di uso del suolo, riformando al contempo gli aiuti finanziari per l’uso del suolo in modo che i benefici e i rischi per la biodiversità e la salute siano riconosciuti e mirati esplicitamente.
• Garantire che il costo economico delle pandemie sia preso in considerazione nei processi di produzione e consumo, come pure nelle politiche e nei budget del governo.
• Favorire le trasformazioni necessarie per ridurre i modelli di consumo, di espansione dell’agricoltura globalizzata e di commercio che hanno portato a pandemie, anche includendo tasse o fiscalità su consumo di carne, produzione di bestiame e altre forme di attività ad alto rischio pandemico.
• Ridurre i rischi di malattie zoonotiche nel commercio internazionale di specie selvatiche attraverso: un nuovo partenariato intergovernativo “Salute e Commercio”; la riduzione o l’eliminazione delle specie ad alto rischio di malattia nel commercio della fauna selvatica; il rafforzamento dell’applicazione della legge in tutti gli aspetti del commercio illegale della fauna selvatica; e il miglioramento dell’educazione delle comunità locali nei siti hotspot delle malattie rispetto ai rischi per la salute legati al commercio di fauna selvatica.
• Valorizzare l’impegno e la conoscenza delle popolazioni indigene e delle comunità locali nei programmi di prevenzione delle pandemie, assicurando un maggior livello di sicurezza alimentare e riducendo il consumo di fauna selvatica.
• Colmare le lacune di conoscenza critica come quelle sui comportamenti a rischio, l’importanza del commercio illegale, non regolamentato, ma anche di quello legale e regolamentato della fauna selvatica in relazione al rischio di insorgenza di malattie e migliorare la comprensione della relazione tra degrado dell’ecosistema e ripristino, struttura del paesaggio e rischio di comparsa della malattia.




Giornata mondiale della salute: dal CNR un web doc per l’agroalimentare

In occasione della Giornata mondiale della salute del 7 aprile 2021, la piattaforma Cnr Outreach propone un interessante “web doc” dedicato al tema dell’agroalimentare, sul quale la comunità scientifica del Consiglio nazionale delle ricerche è fortemente impegnata.

Il web doc è uno strumento per costruire un sistema di comunicazione immediato e interattivo, che coinvolge l’utente e permette non solo l’approfondimento dei contenuti scientifici, spiegati in modo semplice e stimolante dai ricercatori del CNR, ma anche di intavolare una vera e propria “discussione” con i numerosi utenti che si possono raggiungere grazie al web.

Un modo immediato e coinvolgente per conoscere cosa sta facendo il mondo della ricerca per lo sviluppo e la valorizzazione di un sistema agroalimentare sostenibile e innovativo, in grado di affrontare le grandi sfide globali del futuro della Terra, tra cui la necessità di fornire cibo, acqua ed energia ad una popolazione in crescita, attraverso un uso sostenibile delle risorse naturali limitate. Ma anche uno strumento per rendere i cittadini consapevoli dei tanti e vari aspetti legati alla tutela del nostro pianeta.

Il documento vuole contribuire al progresso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche utili per lo sviluppo e la valorizzazione di un sistema agroalimentare sostenibile e innovativo, in grado di affrontare le grandi sfide globali del futuro della terra, tra cui la necessità di fornire cibo, acqua ed energia ad una popolazione in crescita, attraverso un uso sostenibile delle risorse naturali limitate.

Web doc per l’agroalimentare




Capua: “Ecco cosa serve per vaccino universale”

L’attuale campagna di vaccinazione contro Sars-CoV-2 presenta molte sfide, una delle quali è il mantenimento della catena del freddo per la distribuzione e lo stoccaggio dei vaccini disponibili che vanno conservati a temperature che oggi non permettono una consegna a domicilio o, idealmente, auto-somministrati. Quindi per arrivare al vaccino universale, chiesto da molti Paesi, è necessario sviluppare la termostabilità dei vaccini anti-Covid”. Lo sottolinea la virologa Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’università della Florida, in una lettera pubblicata su ‘Lancet’.

Capua analizza i motivi che hanno rallentato lo sviluppo di vaccini termostabili. “I paesi ad alto reddito non erano realmente interessati e impegnati nello sviluppo di vaccini termostabili, perché non ci si aspettava che questa caratteristica diventasse un ostacolo così importante durante una pandemia.  La domanda reale per avere vaccini termostabili, sia in veterinaria che in medicina umana, proviene dai paesi a basso e medio reddito e, sebbene supportata anche dalle organizzazioni internazionali, non è mai stata considerata una prioritaria tale da diventare una delle caratteristiche ricercate da chi sviluppa i vaccini, dall’industria agli enti di finanziamento“.

Forse investire nei bisogni globali, che includono le necessità delle persone più povere, avrebbe giovato all’intera umanità nell’affrontare la pandemia Covid-19. Ora è il momento di ridefinire le priorità dei urgenti nello sviluppo dei vaccini che sono essenziali per sfruttare appieno il potere delle campagne di immunizzazione in diverse circostanze da quelle epidemiologiche, geografiche e logistiche” conclude Capua




Di Guardo: usiamo troppi antibiotici, ci saranno conseguenze

AntibioticoresistenzaSecondo un recente rapporto dell’OMS, nonostante il 15% dei pazienti con forme lievi o medio-gravi di Covid-19 necessiti della loro somministrazione, gli antibiotici sarebbero stati assunti dai tre quarti di essi, andando inevitabilmente ad alimentare l’antibiotico resistenza.

Ne parla, in un lettera pubblicata da Il Corriere della Sera, il Prof. Giovanni Di Guardo, già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo.

Andando avanti di questo passo, è probabile che buona parte, se non addirittura l’intero arsenale dei farmaci attualmente disponibili per combattere le infezioni batteriche, annovererà al proprio interno, di qui a breve, solo armi spuntate!

Afferma Di Guardo.




ISS: Approccio ambientale all’antimicrobico-resistenza

E’ stato recentemente pubblicato il Rapporto ISTISAN 21/3 “Approccio ambientale all’antimicrobico-resistenza”.

Ad oggi, il ciclo dell’antibiotico-resistenza in ambiente è ancora in parte oscuro, non tanto nell’identificazione delle sorgenti di contaminazione e del rischio per l’uomo che questa sottende, ma piuttosto per una corretta conoscenza dei fenomeni naturali e delle interazioni ecologiche e  ambientali che promuovono la stabilizzazione e anche la proliferazione di resistenze di origine umana in ambiti naturali” si legge nel rapporto che sostiene un approccio One Health al problema.

Considerato l’attuale contesto pandemico, l’elevato consumo di antibiotici nel mondo e la necessità di misure condivise e intersettoriali per il contrasto alla resistenza antimicrobica, il rapporto raccoglie le evidenze disponibili in Italia in tema di AMR e ambiente, e fornisce
indicazioni sugli elementi prioritari d’intervento quali l’informazione e l’educazione della popolazione ad un corretto uso e smaltimento degli antimicrobici, l’attività di ricerca e training specifico per colmare lacune conoscitive, l’uso di sistemi innovativi di depurazione dei reflui
civili e ospedalieri, oltre alle prospettive di innovazione nella gestione degli allevamenti intensivi..




Di Guardo: il suo nome è vaccino e non chiamatelo siero, per favore!

Non è infrequente che i mezzi di informazione utilizzino il termine “siero” quale sinonimo di “vaccino”, un’imprecisione notevole e una preoccupante “deriva dell’informazione” – resa ancor più tale dalla colossale montagna di “fake news” che da oltre un anno fioriscono, in maniera quantomai rigogliosa, attorno alla “vicenda CoViD-19” – che alimenta il fenomeno che l’OMS ha chiamato con efficace neologismo “infodemia” ovvero un’«abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno» e che quindi ostacola la comprensione dei fenomeni.

Sul punto è intervenuto, con una lettera al Direttore di Quotidiano sanità, il Prof. Giovanni Di Guardo, già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 




Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione anti-COVID-19

coronavirusL’Istituto Superiore di Sanità, Gruppo di Lavoro Prevenzione e Controllo delle Infezioni pubblica il documento “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione anti-COVID-19” aggiornato al 13 marzo 2021, che risponde a diversi quesiti sulle misure farmacologiche e non farmacologiche nell’area di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 sorti con il progredire della campagna di vaccinazione contro COVID-19 e la comparsa delle varianti VOC di SARS-CoV-2.

“La circolazione prolungata di SARS-Cov-2 e il meccanismo naturale di accumulo di errori durante la replicazione virale generano la comparsa di varianti virali di cui solo alcune destano preoccupazione per la salute pubblica (Variant Of Concern, VOC), essenzialmente per la presenza di mutazioni che possono conferire al virus SARS-CoV-2 un’aumentata capacità diffusiva, così come la potenziale resistenza a
trattamenti terapeutici (es. anticorpi monoclonali) e la capacità di eludere la risposta protettiva evocata dalla vaccinazione.

Sebbene sia ancora in corso di valutazione se alcune VOC siano associate ad un quadro clinico più grave o se colpiscano maggiormente alcune specifiche fasce di popolazione, è noto, invece, che l’aumentata circolazione, per esempio, della variante VOC 202012/01 (denominata anche B.1.1.7), identificata per la prima volta nel Regno Unito e caratterizzata da una maggiore capacità diffusiva, può determinare un incremento significativo del numero di ospedalizzazioni, con conseguente impatto sui sistemi sanitari.

Al febbraio 2020, sono state segnalate tre varianti che destano particolare preoccupazione, la già menzionata VOC 202012/01 identificata per la prima volta nel Regno Unito, la 501Y. V2 (denominata anche B.1.351) identificata in Sudafrica e la P1 con origine in Brasile.

Mentre in Italia si stanno attuando indagini per accertare la presenza e la diffusione di queste varianti  e la campagna vaccinale anti-COVID-19 è attualmente in corso,5 sono sorti diversi quesiti sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni sostenute da varianti di SARS-CoV-2 sia di tipo non farmacologico sia di tipo farmacologico. Infatti, in generale, si può affermare che una drastica riduzione della circolazione virale nella popolazione sia in grado di prevenire la diffusione delle VOC già note e il potenziale sviluppo di ulteriori nuove varianti. Nonostante le conoscenze sulle nuove varianti virali siano ancora in via di consolidamento, si è ritenuto necessario fornire specifiche indicazioni che, basate sulle evidenze ad oggi disponibili, possano essere di riferimento per l’implementazione delle strategie di prevenzione e controllo dei casi di COVID-19 sostenuti da queste varianti virali.

Parallelamente, con il progredire della campagna di vaccinazione anti-COVID-19, sono sorti diversi quesiti su come comportarsi nei confronti delle persone vaccinate. E’, quindi, sembrato utile in questo documento affrontare anche tali temi” si legge nell’introduzione.