Rischio zoonosi in canili, colonie e oasi feline. Puntare su monitoraggio, formazione e comunicazione

Le strutture di ricovero per cani e gatti rappresentano una realtà di grande importanza sanitaria e sociale, che hanno l’obiettivo di garantire la salute e il benessere degli animali durante la loro permanenza. Tuttavia, l’elevato turnover di animali di età, razza e origine diversi, affollati in poco spazio, e la frequente presenza di personale volontario spesso non adeguatamente formato, rendono queste strutture ad alto rischio igienico-sanitario non solo per gli animali ma potenzialmente anche per l’uomo.

Ricercatrici dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno condotto uno studio sulla prevalenza di alcune zoonosi note, potenziali ed emergenti in rifugi per cani e gatti nel Nord-Est, al fine di raccogliere informazioni utili all’implementazione di misure di prevenzione e controllo della diffusione delle infezioni e ridurre il rischio di zoonosi per gli operatori. I risultati sono stati ottenuti nell’ambito del progetto di ricerca RC 12/19 e pubblicati su Frontiers in Veterinary Science.

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Fonte: IZS Venezie




Un nuovo metodo per rilevare la Peste Suina Africana

Uno studio realizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) dimostra la validità del succo di carne di maiale come matriale diagnostico per individuare il virus responsabile della Peste Suina Africana (PSA).

 La Peste Suina Africana (PSA), innocua per la salute dell’uomo, è una malattia virale altamente contagiosa e con un elevato tasso di mortalità che colpisce suini domestici e selvatici, comportando gravi danni economici agli allevamenti. Il virus si trasmette sia per contatto diretto tra animali infetti, sia per trasmissione indiretta, come il consumo di cibo e acqua contaminati. Tra i segni clinici più gravi della patologia si riscontrano febbre alta, anoressia, letargia, fino alla morte dell’animale.

Dal 2007, un’epidemia del genotipo 2 di African Swine Fever Virus (ASFV), appartenente alla famiglia Asfarviridae e altamente aggressivo, si è diffusa rapidamente dalla Georgia fino ad arrivare in Europa, in Asia e nelle isole Caraibiche, rendendo necessario lo studio di nuove strategie per il contenimento della malattia, a partire dalla disponibilità di metodi rapidi ed efficaci per l’individuazione del virus. Con questo obiettivo, i ricercatori IZSAM hanno impiegato la real-time PCR (rt-PCR, metodo tradizionalmente usato per amplificare e rilevare il genoma dei microrganismi in campioni biologici), applicandola ai succhi di carne.

Il succo di carne può essere utilizzato per il rilevamento di numerosi agenti patogeni virali, protozoari e batterici dei suini. Viene spesso scambiato per sangue, ma il colore rosso del succo di carne è dovuto alla mioglobina, non all’emoglobina. Oltre alla mioglobina, il succo di carne contiene acqua, enzimi glicolitici, aminoacidi e numerose vitamine idrosolubili. A seconda del muscolo o della parte anatomica da cui proviene, possono essere presenti anche tracce di sangue contaminante. Il succo di carne si genera a seguito della trasudazione passiva, un fenomeno complesso non completamente compreso.

Il metodo oggi più utilizzato per la conferma in laboratorio della PSA prevede l’analisi di campioni di sangue, di siero o di organi, spesso difficili da reperire. Lo studio condotto dall’IZSAM, in collaborazione con la Facoltà di Medicina Veterinaria e l’Institute for Diagnosis and Animal Health, entrambi in Romania, pubblicato dalla rivista scientifica Journal of Virological Methods, propone invece l’uso del succo di carne come alternativa per il rilevamento del virus.

Il succo era già stato utilizzato in passato per rilevare la presenza di altre malattie, come la Peste Suina Classica e l’Afta Epizootica. “Basandoci su studi precedenti – dice Marta Cresci, ricercatrice dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo, prima autrice del lavoro scientifico – siamo riusciti a dimostrare come il DNA di ASFV, se presente, sia facilmente individuabile nei succhi di carne dei suini, rendendo possibile la rilevazione del virus anche nei casi in cui campioni di organi o sangue non siano disponibili.”

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Fonte: IZS Teramo




ISS-Le malattie tropicali neglette: una responsabilità di tutti per garantire la salute globale

issSi chiamano malattie tropicali neglette perché, nonostante siano responsabili di centinaia di migliaia di morti e si stima colpiscano 1,6 miliardi di persone, si fa poco o niente per contrastarle nei Paesi poveri dove tra malnutrizione e l’assistenza sanitaria pressoché inesistente trovano terreno fertile di coltura. Una questione umanitaria, ma che riguarda anche la salute globale, dal momento che molte di queste malattie, si pensi alla dengue, stanno espandendo la loro presenza nel mondo, Italia compresa.
È partendo da queste considerazioni che AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco e ISS, l’Istituto Superiore di Sanità, hanno deciso di fare il punto sulle malattie tropicali neglette, proprio a ridosso della giornata mondiale del 30 gennaio a queste dedicate. Parliamo di 21 gruppi di malattie estremamente eterogenee, diffuse in particolar modo nelle aree tropicali più povere. A causarle sono una varietà di agenti patogeni, tra cui virus, batteri, protozoi, elminti, funghi e tossine. Malattie come la scabbia, la lebbra, la leishmaniosi, l’echinococcosi causata da patogeni che infettano l’organismo o le ormai note anche in Italia dengue e chikungunya. Malattie che si diffondono sempre più anche a causa dei cambiamenti climatici, il turismo e la globalizzazione, oltre che da fame, carenze di medicinali e condizioni igienico/sanitarie quantomeno precarie.

“È importante parlare di malattie tropicali neglette – affermano il presidente dell’AIFA Robert Nisticò e quello dell’ISS Rocco Bellantone – perché le popolazioni dimenticate del Mondo lottano quotidianamente contro queste infezioni il cui impatto nel loro insieme è devastante e paragonabile a quello delle tre malattie chiamate big killers dei Paesi più poveri, ossia Tbc, malaria e HIV/AIDS. Ma la questione ci tocca anche da vicino perché la mobilità di persone, cibi, animali, l’aumento dei viaggi, in aree più o meno remote del Mondo, determinano l’acuirsi di un rischio che si è già reso evidente e che sarà destinato ad aumentare anche a causa del cambiamento climatico. L’aumento delle temperature – prosegue Bellantone – può determinare, infatti, un maggiore rischio della presenza di vettori, spesso zanzare, in grado di trasmettere infezioni causate da virus”.

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Fonte: ISS




Linee guida Fao su influenza aviaria e rischio per i bovini

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ha pubblicato le nuove linee guida per aiutare i Paesi membri a implementare programmi di sorveglianza per l’identificazione precoce dell’influenza aviaria nei bovini e altri mammiferi allevati. Lo si apprende da una nota ufficiale.

La FAO sottolinea la necessità di una pronta risposta sanitaria e l’adozione di misure per mitigare il rischio, soprattutto considerando il potenziale del virus di riassemblarsi geneticamente con ceppi influenzali umani. Le indagini dovrebbero includere la verifica dell’esposizione dei lavoratori agricoli e il coinvolgimento delle autorità sanitarie pubbliche.

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Nuova sezione del sito IZSLER: AFTA EPIZOOTICA

muccaE’ stata predisposta una sezione del sito denominata AFTA EPIZOOTICA: AGGIORNAMENTI. La sezione, presente in Home Page del sito IZSLER, consentirà di accedere a  tutte le news del sito, a tutti i materiali informativi e formativi necessari per prepararsi alla  eventuale presentarsi della malattia sul territorio italiano.

Per il momento sono stati inseriti: la segnalazione del focolaio in Germania e la relativa tipizzazione del ceppo, l’apertura del corso FAD sul Portale Formazione IZSLER, il MANUALE OPERATIVO/MODULISTICA aggiornato e approvato dal Ministero della Salute, il link ai video formativi.

Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Salute: scoperta la struttura del virus Nipah

Per la prima volta è stata mappata la struttura di un componente chiave del virus Nipah. A riuscirci gli scienziati della Harvard Medical School e della Boston University Chobanian & Avedisian School of Medicine, che hanno pubblicato un articolo sulla rivista Cell per rendere noti i risultati del proprio lavoro. Il team, guidato da Rachel Fearns e Jonathan Abraham, ha analizzato uno dei componenti più rilevanti dell’agente patogeno, trasmesso dai pipistrelli e responsabile di numerose ondate di epidemie. Identificato per la prima volta nel 1999, il Nipah può contagiare suini ed esseri umani, e non è ancora associato a una terapia o un trattamento efficaci. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato il virus Nipah un patogeno prioritario, oggetto di analisi e approfondimenti. Nei casi più gravi, l’infezione può causare gravi malattie respiratorie ed encefalite, potenzialmente associate a deficit neurologici e decesso. Il virus è letale per il 40-75 per cento degli ospiti che lo contraggono

Nell’ambito dell’indagine, gli autori si sono concentrati su una sezione virale, chiamata complesso della polimerasi virale, un gruppo di proteine ​​che il virus usa per copiare il suo materiale genetico, diffondersi e infettare le cellule. Per la prima volta, gli studiosi hanno ottenuto un quadro tridimensionale dettagliato di questo componente e delle sue caratteristiche principali. Comprendere la struttura e il comportamento di questa sezione, sottolineano gli esperti, permette di ricostruire il modo in cui il patogeno si moltiplica all’interno dell’ospite. Questi risultati rappresentano il primo passo fondamentale verso lo sviluppo di trattamenti e vaccini specifici. Una volta elaborata la struttura dell’enzima, i ricercatori hanno esaminato più da vicino il modo in cui le diverse parti influenzino le varie funzioni. Il team ha condotto due tipologie di esperimenti. In primis, è stata purificata la polimerasi per determinare la struttura tramite microscopia crioelettronica. Successivamente, gli studiosi hanno indotto mutazioni nella polimerasi per valutare quali cambiamenti influenzassero la funzione e in che modo.

“Il nostro lavoro – afferma Heesu Kim, ricercatore del laboratorio di Fearns – fornisce approfondimenti critici che hanno il potenziale per informare lo sviluppo di antivirali ad ampio spettro. I nostri colleghi della Georgia State University hanno progettato un farmaco orale promettente, che sembra contrastare efficacemente i virus correlati al Nipah, ma non l’agente patogeno stesso”. Il gruppo di ricerca ha quindi valutato se alcune modifiche strutturali potessero migliorare la capacità del principio attivo di legarsi al virus. Questo approccio ha permesso agli autori di identificare una porzione specifica della polimerasi virale che potrebbe diventare un bersaglio del farmaco. Ciò, concludono gli scienziati, potrebbe quindi informare la progettazione di inibitori a piccole molecole che interrompono la polimerasi virale e rendono il virus Nipah suscettibile al trattamento. 

Fonte: AGI




L’afta epizootica torna in Germania dopo oltre tre decenni di assenza

L’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (WOAH) ha diffuso l’informazione circa la notifica da parte della Germania di un focolaio di afta epizootica (FMD) nel Brandeburgo, nel nord della Germania. Questo è il primo caso di FMD nel paese dal 1988, come riportato ufficialmente dal Ministro dell’Agricoltura.

Il laboratorio di riferimento nazionale, Friedrich-Loeffler-Institut (FLI), ha identificato il sierotipo O del virus FMD in tre bufali d’acqua nel distretto di Märkisch-Oderland. Questi bufali, infettati dalla FMD, sono successivamente deceduti. Le autorità locali stanno collaborando con specialisti per indagare sull’origine del focolaio. Come parte della risposta, tutti i 14 bufali dell’allevamento colpito sono stati abbattuti e distrutti. I servizi veterinari competenti del Ministero e le autorità veterinarie locali hanno adottato tutte le misure necessarie per contenere la malattia.

Il virus FMD non rappresenta un rischio per gli esseri umani.

Sebbene i virus FMD siano comunemente presenti in Medio Oriente e in Asia, l’origine precisa e la via d’ingresso in Germania rimangono al momento sconosciute.

La banca antigeni tedesca per la FMD, istituita specificamente per emergenze come questo focolaio, contiene vaccini adeguati contro il virus. Una volta attivata dai Länder, la banca può rapidamente produrre i vaccini necessari.

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Fonte: IZS Teramo




Zoonosi e nuove patologie si battono con sorveglianza e informazioni condivise

I sistemi di sorveglianza sono necessari per controllare la diffusione delle malattie emergenti, tra cui le nuove zoonosi, per poter intervenire precocemente. “La situazione attuale, però, nonostante tutti gli sforzi non è ancora sufficiente e la dimostrazione è rappresentata dagli eventi che, negli ultimi anni, hanno colpito duramente anche in Italia”, spiega Gaddo Francesco Vicenzoni, già direttore della struttura complessa territoriale di Verona e Vicenza dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe).

Importante, sottolinea, mantenere viva la memoria di quanto accaduto e stabilire una modalità di sorveglianza davvero efficiente al fine di ridurre i rischi pandemici, gli eventuali spillover, e la comparsa e trasmissione di nuove malattie negli animali per intervenire precocemente.

Su Covid-19 si poteva agire prima

“Pensiamo alla pandemia Covid-19 che ha mietuto molte vittime a partire da marzo 2020. Ora sappiamo che un bambino di 4 anni ricoverato in un ospedale milanese a novembre 2019 con tosse, rinite e iniziale diagnosi sospetta di morbillo in realtà era stato colpito dal virus Sars-CoV-2 come emerso successivamente dall’analisi dei campioni biologici prelevati (Amendola A et al. Emerg Infect diseases, 2021). Tre mesi in anticipo rispetto al primo caso autoctono ufficiale segnalato il 20 febbraio 2020 e un mese prima dell’alert rilasciato dalle autorità cinesi.

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Fonte: aboutpharma.com




Africa: genetica zanzare spiega perchè virus Zika poco diffuso

C’entrano anche le zanzare se in Africa le epidemie del virus Zika sono rare. Un equilibrio che tuttavia potrebbe essee alterato dai cambiamenti climatici. Uno studio dell’High Meadows Environmental Institute (HMEI) presso la Princeton University, l’Institut Pasteur e della University of California, San Diego (US), pubblicato su The Lancet Planetary Health, dimostrerebbe che i bassi tassi correlati alla diffusione del virus Zika, responsabile di difetti alla nascita e di devastanti epidemie nelle Americhe dal 2015 al 2016, possa dipendere dalla composizione genetica delle zanzare autoctone africane. “Esistono due specie di zanzara che diffondono Zika”, dichiara Jamie Caldwell, Associate Research Scholar presso l’HMEI, “ciascuna con tipiche preferenze alimentari e capacità di trasmissione della malattia. Questa differenza genetica potrebbe spiegare perché Zika ha ampiamente risparmiato l’Africa, continente in cui il virus è stato originariamente scoperto, nonostante la presenza di grandi popolazioni di zanzare e le condizioni climatiche favorevoli alla loro attività”. In particolare la forma specializzata umana preferisce pungere gli esseri umani ed ha tendenza a vivere in aree urbane densamente popolate.

Al contrario, la forma ancestrale africana che domina in Africa, è “generalista” e si nutre sia di esseri umani che di animali e proprio la dieta mista ridurrebbe le possibilità che una zanzara infettiva punga un essere umano. Inoltre, la forma ancestrale africana è meno efficace nell’acquisire e trasmettere Zika rispetto alle quelle specializzate umane, costituendo una barriera naturale alla diffusione del virus nel continente africano. Sebbene entrambe le forme di zanzare vivano in Africa, la diversità delle popolazioni di zanzare spiegherebbe la variazione del carico di Zika in Africa, o quale altra ipotesi il contenimento epidemico sul territorio potrebbe dipendere dalla temperatura locale: l’Africa subsahariana ha il clima ideale per la trasmissione del virus Zika, mentre aree con temperature troppo calde o fredde potrebbero limitare la diffusione del virus. Il clima è infatti considerato un “trigger”, cioè un fattore stimolante importante, anche per la distribuzione di altre malattie correlate alle stesse specie di zanzare, come la dengue e la febbre gialla, e in grado di influenzare molti aspetti della trasmissione virale, come la frequenza con cui le zanzare pungono o la velocità con cui si sviluppano in adulti che prediligono gli esseri umani.

La creazione di modelli per studiare gli effetti genetici sulle preferenze di puntura delle zanzare e sulla capacità di diffondere il virus, così come per comprendere il ruolo della temperatura nell’influenzare lo sviluppo, la sopravvivenza e la capacità di trasmissione delle zanzare, ha permesso ai ricercatori di rilevare l’importanza della componente genetica della popolazione di zanzare con un ruolo di maggior peso rispetto al clima. Ciò avrebbe permesso di correlare la proporzione di zanzare specializzate umane in diverse popolazioni in Africa al carico del virus Zika.

Poiché il clima gioca comunque un ruolo importante nel processo di trasmissione, le attuali variazioni climatiche, come anche la rapida urbanizzazione, potrebbero rendere le città africane più vulnerabili alle epidemie del virus Zika nel prossimo futuro. I ricercatori hanno stimato che su un totale di 59 città africane considerate, con una densità di popolazione superiore a 1 milione, 23 città, pari al 39%, rispondano alle condizioni favorenti per la diffusione di un’epidemia di Zika. Se le attuali proiezioni sul clima e sulla crescita della popolazione e gli effetti previsti sulle zanzare si rivelassero accurati, altre 22 città diventeranno luoghi adatti alla contaminazione di Zika, portando a 76% le città africane più popolose. “La nostra ricerca sottolinea l’urgente necessità di sistemi di sorveglianza delle zanzare, soprattutto nelle città con popolazioni in rapida crescita dove anche il cambiamento climatico potrebbe alterare le dinamiche della malattia e sulla diffusione globale di Zika in modi inaspettati “, ha concluso il Noah Rose, coautore dello studio e professore associato presso l’Università della California, San Diego.

 

Fonte: AGI




Malattia X da causa X in Congo, la storia si ripete!

La “nuova” malattia insorta nella Repubblica Democratica del Congo, già messa a dura prova dall’epidemia di “Monkeypox”, avrebbe sin qui provocato almeno 450 casi e oltre 30 decessi, soprattutto fra i bambini al di sotto dei 5 anni.

A dispetto della recentissima notizia relativa alla presenza di una “coinfezione” da Plasmodium falciparum/vivax/malariae – agenti della malaria, malattia endemica nel Continente Africano – nell’80% dei pazienti colpiti dalla “nuova” malattia congolese, fattispecie quest’ultima che renderebbe oltremodo di plausibile e giustificata la frequente coesistenza di quadri anemici negli stessi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e le più importanti Istituzioni planetarie coinvolte nella lotta, nel controllo e nella profilassi delle malattie infettive (quali i prestigiosi “Centers for Disease Control and Prevention”/CDC di Atlanta, negli USA) brancolano ancora nel buio.

A tal proposito, infatti, andrebbe parimenti sottolineato che i succitati quadri anemici si rinvenirebbero comunemente associati ad altre manifestazioni cliniche comprendenti tosse, disturbi respiratori, cefalea ed ipertermia febbrile, elementi dai quali trarrebbe sostegno l’ipotesi di un coinvolgimento di uno o più patogeni respiratori, ai quali potrebbe essere altresì ascritto il ruolo di agente/agenti primario/primari.

Mutatis mutandis, ben prima che il virus responsabile dell’AIDS (Human Immunodeficiency Virus/HIV) venisse contemporaneamente e definitivamente identificato da Luc Montagnier (in Francia) e da Robert Gallo (in USA) nel lontano 1983, i sospetti iniziali si erano indirizzati, per oltre due anni, su Pneumocystis carinii (successivamente ribattezzato P. jirovecii), un protozoo di frequente riscontro nei pazienti affetti da AIDS e che “col senno di poi” avrebbe rappresentato la “punta dell’iceberg” dell’infezione da HIV, costituendo al tempo stesso uno degli svariati agenti opportunisti responsabili di infezioni secondarie in tali individui.

In effetti, si potrebbero citare molteplici esempi di infezioni secondarie sostenute da protozoi sia in persone che in animali primariamente infetti ad opera di agenti immunodeprimenti/immunodepressivi, virali e non, quali Toxoplasma gondii sempre in pazienti con AIDS nonché in cani affetti da cimurro (malattia causata da “Canine Distemper Virus”/CDV, un Morbillivirus) e in delfini con infezione da “Cetacean Morbillivirus” (CeMV, un altro Morbillivirus).

E, poiché di agenti protozoari anche nel caso di Plasmodium falciparum, P. vivax e P. malariae si tratta, l’ipotesi di un coinvolgimento secondario degli stessi nell’eziologia della misteriosa malattia congolese potrebbe risultare plausibile, tanto più in ragione del fatto che i disturbi respiratori osservati nei bambini affetti da siffatta “sindrome X” non rientrerebbero fra i reperti clinico-sintomatologici tipici della malaria.

Se poi andiamo a scavare, neppure più di tanto, nell’affascinante storia delle malattie infettive, fatto salvo il succitato eloquente esempio dell’AIDS, ci accorgiamo che l’identificazione di SARS-CoV, il betacoronavirus responsabile della SARS – malattia riconosciuta per la prima volta nel 2002 dal medico italiano Carlo Urbani, poi deceduto a causa della stessa – è stata preceduta dall’attribuzione, ad opera di ricercatori cinesi, di una responsabilità causale non gia’ ad un agente virale, ma bensi’ a batteri del genere Chlamydia.

Nel mondo animale poi, tanto per citare un ulteriore, eloquente esempio, prima che si addivenisse alla scoperta di una serie di nuovi membri del genere Morbillivirus quali responsabili di devastanti epidemie fra i mammiferi marini (Pinnipedi e Cetacei), la cui salute e conservazione appaiono sempre più minacciate per mano dell’uomo, altri agenti erano stati indiziati quali noxae causali, primo fra tutti Herpesvirus, rivelatosi in seguito un patogeno frequentemente coinvolto in infezioni secondarie. Illuminanti esempi di questo tipo non mancano neppure tra gli ospiti animali invertebrati, come chiaramente ci mostrano i ripetuti episodi di mortalità collettiva che in anni recenti hanno interessato le popolazioni di nacchere (Pinna nobilis) in più aree del Mediterraneo. Si tratta del più grande mollusco bivalve lamellibranco presente nella regione, i cui eventi di mortalità collettiva erano stati ricondotti all’azione di un protozoo (Haplosporidium pinnae) e di batteri (Mycobacterium sherrisii, Vibrio mediterranei) prima che si addivenisse a definirne l’eziologia primaria, ascrivibile ad un piccolo virus a RNA facente parte dell’ordine Picornavirales, rispetto al quale il parassita e i due batteri anzidetti andrebbero considerati come agenti opportunisti d’irruzione secondaria.

Alla luce di quanto sopra, verrebbe da dire che la “malattia X” recentemente identificata in Congo non rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui l’identificazione certa di qualsivoglia agente causale di qualsivoglia nuova malattia infettiva (e non) sia anticipata, giocoforza, da “errori” grazie ai quali l’accertamento della responsabilità eziologica primaria emergera’ a tempo debito e a coronamento degli sforzi profusi dalla Comunità Scientifica, in una sana ottica di collaborazione intersettoriale e multidisciplinare e, nondimeno, nel segno della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Historia Magistra Vitae!

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo