Le nuove, intriganti traiettorie di SARS-CoV-2 nel mondo animale

E’ di poche settimane fa la notizia relativa ad un ulteriore ampliamento del già ampio spettro d’ospite posseduto dal betacoronavirus SARS-CoV-2, il famigerato agente responsabile della pandemia da CoViD-19.

Nello specifico, ben 6 nuove specie di mammiferi selvatici (opossum, procione, marmotta, topo cervo, silvilago orientale e pipistrello rosso) si sono aggiunte all’elenco di quelle, sia domestiche sia selvatiche, già dichiarate suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, mentre una sin qui inedita mutazione sarebbe stata descritta a carico del gene codificante per la “Spike (S) protein” – grazie alla quale si realizza l’interazione del virus con il recettore ACE2 posto sulla superficie delle cellule-ospiti – nell’opossum, analogamente a quanto avvenuto verso la fine del 2020 nei visoni degli allevamenti danesi e olandesi per il ceppo virale denominato “Cluster 5”.

E come non citare, in proposito, il ben noto caso dei cervi a coda bianca (Odocoileus virginianus) statunitensi nella cui popolazione il virus, previamente acquisito da Homo sapiens sapiens (c.d. “spillover“), si sarebbe diffuso in lungo e in largo per “ritornare” successivamente all’uomo (c.d. “spillback” o “zoonosi inversa”) in forma mutata, come già accaduto nei visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi?

A fronte dell’elevato e progressivamente crescente numero di specie suscettibili nei confronti dell’infezione dal SARS-CoV-2, che a tutt’oggi supererebbe le 50 unità, ciò che maggiormente preoccupa (o, per meglio dire, ci dovrebbe preoccupare) è la distanza filogenetica esistente fra le stesse, che in una normale dinamica d’interazione ospite-parassita (ospite-virus, nella fattispecie) costituisce un fondamentale determinante biologico e prerequisito rispetto alla cosiddetta “barriera di specie”.

Quest’ultima, nel caso del betacoronavirus responsabile della CoViD-19, sarebbe definita dal livello di omologia esistente fra il recettore ACE2 umano e quello della specie animale di volta in volta considerata, con particolare riferimento alla regione/sequenza del succitato recettore direttamente interagente con il “receptor-binding domain” (RBD) situato all’interno della (glico)proteina S del virus.

Evidentemente, nello specifico caso di SARS-CoV-2, questa barriera di specie risulterebbe oltremodo “permeabile”, così da consentire il trasferimento dell’agente virale a numerose specie animali (anche) filogeneticamente distanti fra loro, una situazione quest’ultima che risulterebbe esacerbata dal progressivo quanto persistente emergere di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più diffusive e contagiose (vedi, a puro titolo esemplificativo, quelle più recenti denominate “FLiRT” quali JN.1, KP.2, KP.3 e LB.1).

In un siffatto contesto, va da sè che il rischio relativo all’emergere di nuove varianti possa risultare sensibilmente accresciuto dal passaggio del virus a nuove specie animali, soprattutto in ambito selvatico – ove le dinamiche evolutive del rapporto ospite-parassita risulterebbero oggettivamente più difficili da controllare -, parallelamente a quanto sta avvenendo anche nel caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1), che in virtù dei recenti quanto numerosi “salti di specie” dallo stesso operati potrebbe acquisire la capacità (sin qui non ancora dimostrata, per nostra fortuna) di diffondersi in maniera efficace da uomo a uomo.

A tal proposito, come ben si sa, più un agente virale replica all’interno delle cellule di una determinata specie sensibile nei confronti dello stesso, maggiore diviene la probabilità che si realizzino, di pari passo, eventi mutazionali a carico del proprio genoma, con la conseguente comparsa di varianti più diffusive e contagiose di quelle precedenti.

Ciò descrive con esattezza quel che è accaduto, sta tuttora accadendo e, con ogni probabilità, continuerà ad accadere nel caso di SARS-CoV-2, un betacoronavirus il cui genoma consta di circa 30.000 nucleotidi, con una frequenza di mutazioni (sia “silenti” o “sinonime” che “non silenti” o “non sinonime”) pari all’incirca ad una ogni 10.000 basi azotate coinvolte in ciascun ciclo replicativo virale.

In ultima analisi, la notevole “plasticità’ di SARS-CoV-2, che ha già consentito e continua a permettere al virus di trasferirsi ad un così elevato e crescente numero di specie animali domestiche e selvatiche, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, costituirebbe a mio avviso un ulteriore elemento a favore dell’origine naturale di SARS-CoV-2, visto e considerato che un siffatto comportamento mal si concilierebbe in termini di plausibilita’ biologica con quello di un agente creato artificialmente in laboratorio.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto, ancora una volta (e mai abbastanza, comunque!), la fondamentale rilevanza del concetto/principio della One Health – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – non soltanto nella complessa ed articolata gestione eco-epidemiologica dell’infezione da SARS-CoV-2 – così come di quella da virus dell’influenza aviaria A(H5N1) -, ma in generale di tutte le c.d. “malattie infettive emergenti”, il 70% delle quali, è bene ricordarlo, riconoscono la loro origine, comprovata o sospetta che sia, in uno o più serbatoi animali.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Svelata complessità catene di trasmissione zoonotica

zoonosiLe zoonosi, che ogni anno influenzano la salute di oltre due miliardi di persone in tutto il mondo, sono associate a una rete complessa di interazioni di trasmissione, che coinvolgono vari attori. A descriverle nel dettaglio sulla rivista Nature Communications gli scienziati del Complexity Science Hub e dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna.

Il team, guidato da Amélie Desvars-Larrive, ha introdotto il concetto di “rete zoonotica” per rappresentare l’insieme delle relazioni tra agenti zoonotici, i loro ospiti, vettori, fonti alimentari e ambiente.

“Le malattie zoonotiche – spiega Desvars-Larrive – possono essere trasmesse direttamente o indirettamente tra gli animali e l’uomo, e rappresentano pertanto un problema significativo di salute pubblica. Il nostro lavoro evidenzia l’importanza di un approccio olistico per comprendere e gestire i rischi da esse derivanti”.

Il contagio tra uomo e animali può avvenire tramite contatto diretto con saliva, sangue, urina o persino feci di animali infetti. Interazioni a rischio possono riguardare, ad esempio, morsi, graffi e persino contatti cutanei (in caso di dermatiti e funghi della pelle). La trasmissione indiretta può anche avvenire tramite morsi di vettori artropodi, come nel caso del virus West Nile e dell’encefalite trasmessa da zecche, o anche oggetti e superfici contaminati.

“Le malattie zoonotiche sono spesso discusse in termini di interazioni ospite-patogeno – osserva Anja Joachim, collega e coautrice di Desvars-Larrive – ma il quadro è molto più complesso. Per colmare queste lacune abbiamo sviluppato un metodo in grado di indagare le interfacce in cui avviene lo scambio di patogeni zoonotici circolanti”.

Gli autori hanno condotto una ricerca sistematica della letteratura scientifica riguardante tutte le interazioni documentate tra fonti zoonotiche e patogeni avvenute in Austria tra il 1975 e il 2022. La rete zoonotica risultante è stata elaborata in una dashboard, che ha permesso la visualizzazione di sei distinte comunità di condivisione di agenti zoonotici per quanto riguarda l’Austria: esseri umani, specie domestiche (cani, gatti, bovini, ovini e suini) e animali che si sono adattati agli ambienti umani, come i topolini. Queste linee sembravano influenzate da agenti infettivi altamente connessi, dalla vicinanza agli esseri umani e dalle attività umane. I risultati evidenziano poi il ruolo che alcuni animali, come gli artropodi, possono svolgere nel collegare le comunità ospitanti.

“Conoscere gli attori della rete più influenti – commenta Desvars-Larrive – ci permette di ottimizzare i programmi di sorveglianza delle malattie zoonotiche”. Utilizzando un approccio quantitativo basato sul concetto One Health e su strutture specifiche nella rete, la ricerca conferma che, in Austria, è più probabile che lo spillover zoonotico si verifichi nelle interfacce uomo-bestiame e uomo-cibo.

“Mangiare alimenti contaminati – conclude Desvars-Larrive – sembra associato al rischio maggiore di infezione per agenti comuni come Listeria, Salmonella ed Escherichia. La nostra mappa interattiva potrebbe suscitare curiosità anche tra i non addetti ai lavori e sensibilizzare così le persone sull’importanza della prevenzione. Entriamo a contatto con tanti innumerevoli agenti patogeni nel corso della nostra vita, ma solo alcuni possono provocare malattie. Eppure ci sono delle semplici accortezze che possono ridurre il rischio di contaminazione, come pulire i coltelli quando si maneggiano gli alimenti crudi”.

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Fonte: AGI




Aviaria: può essere trasmessa da mucche anche a topi e furetti

influenza aviariaIl virus altamente patogeno dell’influenza aviaria H5N1, che negli Stati Uniti ha raggiunto anche la popolazione bovina, si trasmette nei mammiferi attraverso il latte vaccino, infettando i topi, che, per esposizione, possono passarlo ai furetti. Questo, in estrema sintesi, è quanto emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati dell’Università del Wisconsin-Madison.

Il team, guidato da Yoshihiro Kawaoka, ha caratterizzato l’agente patogeno dell’influenza H5N1, rivelando che il virus viaggia verso le ghiandole mammarie degli animali infetti.

Nella primavera 2024, negli USA, è stato documentato il primo focolaio di influenza aviaria in un allevamento di bovini da latte, seguito da casi in altri mammiferi, compreso l’uomo. Si ipotizza che l’infezione della ghiandola mammaria e le attrezzature di mungitura contaminate siano coinvolte nella trasmissione tra mucche. Sono stati anche rilevati virus nel latte vaccino, ma le caratteristiche di base dell’H5N1 bovino sono piuttosto sconosciute.

Per colmare le lacune esistenti, gli autori hanno caratterizzato il materiale genetico di un virus isolato dal latte di una mucca infetta nel New Mexico.

I ricercatori hanno osservato il virus replicarsi e provocare la malattia nei topi e nei furetti. Gli scienziati hanno dimostrato che il virus si diffonde sistematicamente, anche alle ghiandole mammarie di entrambi gli animali, una caratteristica precedentemente trascurata dell’infezione dei mammiferi con questi virus aviari.

Il gruppo di ricerca ha inoltre scoperto che l’H5N1 bovino si lega sia ai recettori dell’acido sialico di tipo aviario che a quelli di tipo umano. Questa specificità di legame del recettore duale non è stata osservata per i virus H5N1 circolanti più vecchi.

Tra furetti, invece, la trasmissione poteva avvenire tramite aerosol e goccioline respiratorie, anche se la carica virale sembrava più bassa in questi casi.

Questo lavoro, concludono gli scienziati, rivela nuove caratteristiche del virus H5N1, che potrebbero essere particolarmente utili nella definizione di strategie di contenimento di potenziali focolai di infezione.




IIZZSS, influenza aviaria: allo studio test specifici per i bovini e il latte crudo

A seguito della diffusione del virus influenzale H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) negli allevamenti degli Stati Uniti, gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali delle Venezie (IZSVe) e della Lombardia ed Emilia-Romagna (IZSLER), in accordo con il Ministero della Salute, si sono resi disponibili ad organizzare test sperimentali su bovini e latte crudo allo scopo di produrre dati scientifici utili ad una valutazione del rischio e per una precisa diagnosi, qualora dovessero presentarsi eventuali riscontri sul territorio nazionale di casi analoghi a quelli statunitensi.

 

Questi studi mirano ad ampliare il quadro delle conoscenze scientifiche attualmente a disposizione e a fornire una risposta efficace e tempestiva in caso di rischio sanitario, attraverso metodi di laboratorio validati. Allo stato attuale non vi è alcuna evidenza di infezione, neanche pregressa, nella popolazione bovina in Europa. La circolazione del virus H5N1 nelle vacche da latte ad oggi è stata segnalata solo negli Stati Uniti.

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Influenza aviaria: in calo in Europa ma si a sorveglianza in vista della prossima stagione influenzale

L’Europa ha registrato il più basso numero di casi di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) nel pollame e negli uccelli selvatici dal 2019/2020 e il rischio per la popolazione in genere rimane basso. Sono questi i principali esiti della più recente relazione sull’influenza aviaria elaborata dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e dal laboratorio di riferimento dell’Unione europea, sulla base dei dati notificati tra aprile e giugno 2024.

Il miglioramento della situazione in Europa può essere legato a diversi fattori e richiede ulteriori indagini ma tra i fattori determinanti potrebbero esservi l’immunità sviluppata dagli uccelli selvatici in seguito a una precedente infezione, la riduzione nel numero di alcune popolazioni di uccelli selvatici, la diminuzione delle contaminazioni ambientali e variazioni nella composizione dei genotipi virali.

Gli esperti hanno notato che il virus HPAI ha continuato a circolare tra gli uccelli selvatici in Europa per tutto il corso dell’anno, anche se con cifre ridotte, e hanno raccomandato di rafforzare la sorveglianza in vista della prossima stagione influenzale.

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Fonte: EFSA




Zanzare, sono un reale pericolo per la salute dell’uomo? Rispondono quattro esperti dell’IZS di Teramo

Il 26 giugno 2024 è stato segnalato in Italia, nella provincia di Modena il primo caso autoctono della forma neuroinvasiva di West Nile, un evento che, tuttavia, non ha sorpreso gli esperti. “Non è la prima volta che in Italia si verificano casi di febbre del Nilo Occidentale (WNF) e della forma neuroinvasiva (WNND) durante il mese di giugno – spiega Federica Iapaolo, dirigente del Reparto Diagnostica e sorveglianza delle malattie esotiche IZSAM -.

Anche negli anni precedenti, durante le stagioni epidemiche del 2018 e del 2022, i primi casi di infezione nell’uomo erano stati segnalati a giugno, in quelle occasioni nel Veneto. È importante segnalare che in entrambe le circostanze, le stagioni sono state caratterizzate da un elevato numero di casi umani (618 nel 2018, con 42 decessi, e 588 nel 2022, con 37 decessi).  Lo scorso anno invece sono stati confermati 332 casi nell’uomo, il primo dei quali il 13 luglio 2023, con 27 decessi”. Con i cambiamenti climatici in corso, il quadro della situazione potrebbe ulteriormente peggiorare, di anno in anno. Per evitare che accada, abbiamo interpellato la Federazione Nazionale degli Ordini dei Veterinari Italiani. La FNOVI ha coinvolto quattro esperti del IZSAM che, intervistati da Sanità Informazione, partendo da una fotografia dello stato dell’arte, propongono possibili soluzioni da mettere in campo per invertire la rotta.

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Fonte: sanitainformazione.it




Primo caso di febbre di Oropouche in Italia: una nuova sfida per la sanità pubblica

È stato recentemente diagnosticato in Veneto il primo caso europeo di febbre Oropouche, La febbre di Oropouche, una malattia virale trasmessa da insetti vettori, è endemica in alcune regioni dell’America Latina, ma mai prima d’ora era stata diagnosticata in Italia.

Il paziente, un uomo di 45 anni, con una recente storia di viaggi nella regione tropicale caraibica, ha presentato sintomi influenzali tra cui febbre alta, mal di testa intenso, dolori muscolari e articolari. Il caso è stato confermato dal Dipartimento di Malattie Infettive, Tropicali e Microbiologia dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar di Valpolicella (Verona) e prontamente segnalato alle autorità sanitarie e all’ASL di competenza della Regione Veneto, nonché ai servizi di informazione e monitoraggio internazionali. La diagnosi effettuata nei laboratori BSL3 è stata confermata tramite test di laboratorio specifici, che hanno individuato la presenza del virus Oropouche nel sangue del paziente. Attualmente, il paziente è sotto stretto monitoraggio medico e le sue condizioni sono stabili.

La febbre di Oropouche è causata da un virus del genere Orthobunyavirus, Il virus oropouche è trasmesso all’uomo da insetti mordaci del genere Culicoides e nello specifico da Culicoides paraensis, presente nell’America meridionale e centrale e nei Caraibi.

La trasmissione del virus oropouche avviene in due cicli: selvaggio e urbano-epidemico

Nel ciclo selvaggio, il bacino per il virus Oropouche è la fauna selvatica (primati, bradipi, certi artropodi). Nel ciclo urbano-epidemico, gli esseri umani sono il principale serbatoio e il ciclo di infezione è da uomo a uomo attraverso il Culicoides come vettore.

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Fonte: IZS Teramo




Protocollo per salmonellosi negli allevamenti di bovine da latte

Il documento è rivolto ai servizi veterinari delle aziende sanitarie locali, ai veterinari che operano nei laboratori diagnostici territoriali degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e ai veterinari liberi professionisti.

La definizione del protocollo è stata possibile grazie al contributo determinante di diverse strutture dell’IZSVe, a partire dal Centro di referenza nazionale per le salmonellosi, insieme alla SCS4 – Epidemiologia, servizi e ricerca in sanità pubblica veterinaria, e alle sezioni diagnostiche dell’IZSVe, in particolare il Laboratorio diagnostica clinica e sierologia di piano (SCT1 – Sezione di Verona) e il Laboratorio di patologia, allevamento e benessere del bovino (SCT3 – Padova, Vicenza e Rovigo).

Il protocollo operativo definisce le azioni da applicare per la gestione dei focolai di salmonellosi bovina sostenuti dai sierotipi considerati di rilievo per la specie (S. Typhimurium, variante monofasica di S. typhimurium, S. Dublin e S. Enteritidis), ed è tuttavia applicabile in larga misura anche a focolai sostenuti da sierotipi diversi di Salmonella, mediante l’applicazione di approcci parzialmente rimodulati rispetto a quanto di seguito indicato.

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Fonte: IZS Venezie




Salute: le zanzare invasive ci sono costate più di 94 mld

Tra il 1975 e il 2020, i costi totali dovuti alle zanzare invasive, come Aedes a Egypti e Aedes albopictus, vettori della febbre dengue, della chikugunya e del virus Zika, ammontano a circa 94,7 miliardi di dollari. Lo rivela uno studio internazionale condotto da scienziati di IRD, CNRS e MNHN. Sebbene i costi associati alle perdite e ai danni causati da queste zanzare e alle malattie che trasmettono siano sottostimati perché raramente quantificati o riportati in molti paesi, sono letteralmente esplosi a partire dai primi anni 2000. Allo stesso tempo, gli investimenti nella gestione e nella prevenzione di queste malattie sono rimasti stabili, rappresentando solo una frazione dei costi totali. I benefici attesi dall’attuazione di strategie di prevenzione efficaci e sostenibili sono enormi. Utilizzando un set di dati e una tipologia di costi specifici associati a danni e perdite, quali costi medici diretti, definiti come spese relative alla diagnosi, al ricovero ospedaliero, all’ospedalizzazione, ai casi ambulatoriali, all’assistenza al paziente e al trattamento della malattia, sia a carico dei pazienti che degli operatori sanitari, costi diretti non medici, che riguardano altre spese relative alla malattia e costi indiretti, causati da dengue, chikungunya e Zika, lo studio rappresenta la più recente, completa, standardizzata, solida e accurata compilazione dei costi associati alle specie invasive di Aedes e alle malattie trasmesse da Aedes, riportati a livello mondiale tra il 1975 e il 2020. La ricerca include 166 Paesi e territori per un periodo di 45 anni. Nonostante il costo totale cumulativo delle zanzare Aedes e delle malattie che veicolano, per il periodo compreso tra il 1975 e il 2020, sia stimato almeno a 94,7 miliardi di dollari, o a un costo medio annuo di 3,29 miliardi di dollari, con un picco di 20,9 miliardi di dollari nel 2013, cifra considerata fortemente sottostimata, in quanto si basa esclusivamente sui costi effettivi riportati nella letteratura scientifica. I ricercatori hanno dimostrato che, come l’incidenza di queste malattie, questi costi sono aumentati massicciamente negli ultimi tre decenni, con una stima di 14 volte nel periodo successivo alla comparsa di Zika e chikungunya. I costi riportati sono principalmente legati alle spese mediche dirette dovute alla dengue trasmessa dall’Aedes aegypti, seguite da perdite e costi indiretti, che sono in gran parte assorbiti dagli individui o dalla comunità.

Lo studio mostra anche che i costi sono più elevati nelle regioni in cui sono presenti entrambe le specie di Aedes, come le Americhe e l’Asia, piuttosto che nelle regioni in cui si trovano solo Aedes aegypti o Aedes albopictus. Mentre i costi delle perdite e dei danni causati da queste zanzare e dalle malattie sono aumentati considerevolmente negli ultimi decenni, gli investimenti nella prevenzione e nella gestione di questo rischio sanitario emergente, attraverso monitoraggio, controllo dei vettori e altre azioni preventive, compreso lo sviluppo di vaccini, non sono stati incentivati nello stesso periodo. Sono rimasti costantemente inferiori ai costi dei danni, fino a dieci volte. Questo studio evidenzia il sottofinanziamento cronico del controllo dei vettori, identificato come un fattore che favorisce la dispersione dell’Aedes e la trasmissione della malattia. Gli autori suggeriscono che investimenti mirati nello sviluppo e nell’implementazione di azioni preventive efficaci e sostenibili dovrebbero ridurre significativamente questi impatti economici e sono necessari per gestire i rischi sanitari associati alle zanzare Aedes nel lungo termine. L’analisi dei costi sostenuti dalle zanzare Aedes e dai virus che trasmettono evidenzia la necessità di attuare strategie di gestione preventiva dei rischi sanitari che esse rappresentano. Lo spettro dei costi in gioco e l’identificazione dei vari soggetti direttamente coinvolti dovrebbero consentire di mobilitare tutte le parti interessate verso un obiettivo comune di gestione sostenibile e integrata del rischio vettoriale, come raccomandato dagli organismi internazionali. Studi che ponderino il rapporto tra costo ed efficacia, abbinati ad analisi di accettabilità sociale dovrebbero aiutare a guidare le decisioni per combinare i metodi e gli strumenti più adatti al contesto locale. Gli autori sottolineano che solo un cambiamento della società e una collaborazione internazionale altamente impegnata apriranno la strada all’attuazione di azioni preventive volte a limitare la diffusione delle zanzare Aedes invasive e delle malattie che trasmettono in tutto il mondo. Questo studio rappresenta un’opportunità per contribuire alla salvaguardia della salute globale e alla riduzione delle disuguaglianze sanitarie. Gli autori raccomandano inoltre di intensificare gli sforzi per gestire i rischi associati ad altre specie esotiche invasive e alle malattie emergenti.

Fonte: AGI




Influenza aviaria da virus A(H5N1): Siamo pronti a fronteggiare una nuova pandemia?

Fra le varie motivazioni che sono alla base del fondato allarme suscitato dal virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (highly pathogenic avian influenza, HPAI) A(H5N1), con particolare riferimento al clade 2.3.4.4b, possiamo annoverare lo spiccato neurotropismo e l’elevata neuropatogenicità dello stesso nei confronti di numerose specie di uccelli e di mammiferi domestici e selvatici, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, ivi compresi i Pinnipedi e i Cetacei, nonché la già pluriminacciata popolazione di orsi polari (Ursus maritimus), con un caso accertato lo scorso Gennaio in Alaska (https://www.nytimes.com/2024/01/03/science/bird-flu-polar-bears.html). Ciò appare ulteriormente giustificato dalla comprovata suscettibilità dei bovini nei confronti di tale infezione, come in maniera oltremodo eloquente testimoniano i numerosi casi recentemente insorti nella popolazione bovina statunitense di ben nove Stati, primo fra tutti il Texas (7), ove un allevatore ha sviluppato una congiuntivite bilaterale insorta dopo il contatto con un capo infetto (8), cui ha fatto seguito un analogo episodio di malattia oculare riscontrato in un allevatore del Michigan (https://www.nytimes.com/2024/05/22/health/h5n1-bird-flu-dairy.html). Degno di particolare menzione risulta, in un siffatto contesto, anche il parallelo riscontro del virus A(H5N1) nelle acque reflue di più città texane (9) – come già segnalato in precedenza sia per il poliovirus sia per il betacoronavirus SARS-CoV-2 (10) -, a fronte di una presunta origine del medesimo da una matrice avicola o bovina, se non addirittura umana (9).

Per quanto specificamente attiene alla sorveglianza epidemiologica dell’infezione da virus A(H5N1) nella popolazione bovina statunitense e, più in generale, in quella di tutti gli altri Paesi, un serio ostacolo è rappresentato dalle manifestazioni cliniche paucisintomatiche con cui la stessa generalmente evolve nella specie in esame, con il conseguente rischio di una più o meno marcata sottostima dei casi d’infezione effettivamente presenti (11). Ciononostante, mentre si assisterebbe da un lato ad una consistente eliminazione del virus attraverso il latte – fattispecie quest’ultima che richiama ad un caloroso invito a consumare esclusivamente latte pastorizzato (il processo di pastorizzazione, è bene ricordarlo, sarebbe in grado di inattivare sia questo che molti altri agenti microbici, virali e non) -, l’epitelio tubulo-alveolare della ghiandola mammaria bovina albergherebbe al proprio interno, dall’altro lato, un’elevata densità di recettori nei confronti del virus A(H5N1) (11,12). A tal proposito, la coesistenza a livello dell’epitelio ghiandolare mammario dei bovini di un’elevata concentrazione di recettori specifici sia per i virus influenzali aviari (sialic acid, SA-alfa 2-3) sia per quelli umani (SA-alfa 2-6) – a differenza di quanto osservato in ambito respiratorio e cerebrale, ove tali recettori sarebbero presenti in numero decisamente inferiore, se non addirittura assenti – qualificherebbe la specie bovina, secondo alcuni studiosi, quale ulteriore “mixing vessel” in grado di consentire un “rimescolamento genetico” fra virus di origine aviare ed umana, in stretta analogia con il comprovato ruolo notoriamente svolto in tal senso dai suini (12). Ciò potrebbe contribuire, unitamente alle succitate dinamiche evolutive progressivamente assunte dall’infezione da virus A(H5N1), ad un ulteriore affinamento della “fitness” virale, con conseguente acquisizione ad opera dello stesso della capacità di trasmettersi facilmente da uomo a uomo. Per quanto sia attualmente ben lungi dall’essere comprovata, una siffatta evenienza appare tuttavia oltremodo plausibile, vista e considerata l’elevata propensione dei virus influenzali di soggiacere a mutazioni del proprio “make-up” genetico attraverso i ben noti fenomeni di riassortimento/ricombinazione genomica che li contraddistinguono (6).

La possibilità di una trasmissione interumana efficiente risulta ulteriormente supportata dalla comprovata diffusione dell’agente vireale in numerose specie  di uccelli e di mammiferi, domestici e selvatici, terrestri ed acquatici, fra cui si annoverano più specie di Pinnipedi e di Cetacei.

In epoca recente, infatti, un ceppo di HPAI virus A(H5N1) ha causato una significativa mortalità fra gli uccelli selvatici e i mammiferi marini lungo le coste di numerosi Paesi del Sud America, ove si calcola che almeno  30.000 esemplari di leoni marini (Otaria byronia) sarebbero deceduti. Nonostante i casi umani di malattia  siano stati numericamente  limitati, seppur variabili nelle manifestazioni cliniche,  il rischio zoonosico associato  a tutti i ceppi di virus A(H5N1) e ad altri sottotipi non può essere sottovalutato, come peraltro testimonierebbe anche il recente caso d’infezione ad esito fatale da HPAI virus A(H5N2) recentemente segnalato in un paziente messicano che non avrebbe tuttavia riferito una pregressa esposizione a volatili infetti (https://www.who.int/emergencies/disease-outbreak-news/item/2024-DON520).

Risulta cruciale,  pertanto, diagnosticare tempestivamente e  notificare  in modo rapido tutti i casi sospetti, insieme all’adozione di rigorose misure di biosicurezza, al fine di sviluppare strategie efficaci di contenimento e prevenzione, proteggendo il  benessere degli animali e degli esseri umani e tutelando la  biodiversità.

Le linee guida attuali, riassunte nel documento “Practical Guide for Authorized Field Responders to HPAI Outbreaks in Marine Mammals, with a Focus on Biosecurity, Sample Collection for A(H5N1) Virus Detection and Carcass Disposal” (World Organization for Animal Health, WOAH),   sono state formulate da un panel di esperti internazionali con il Centro di Collaborazione per la Salute dei Mammiferi Marini (WOAH), in risposta agli ultimi episodi di malattia che hanno coinvolto le popolazioni di mammiferi marini lungo le coste del Sud America, e forniscono indicazioni importanti per la progettazione di strategie preventive e di gestione di eventuali focolai.

Per quanto riguarda l’Europa,  fra  Dicembre 2022 e Marzo 2023 si è registrata  un’ulteriore diffusione dell’agente patogeno ai mammiferi marini, con un caso di  meningoencefalite da virus A(H5N1) in una focena (Phocoena phocoena) rinvenuta spiaggiata lungo le coste svedesi (4), in stretta connessione epidemiologica  con una serie di casi accertati nei volatili selvatici. Il rischio per la popolazione generale in Europa è considerato basso, ma si presume che lo stesso possa essere di grado più elevato in categorie di individui professionalmente esposte al virus.

In considerazione di quanto sopra esposto, si ritiene opportuno sottolineare  che adeguati sforzi andrebbero profusi, anche  sulla scia delle lezioni apprese dalla drammatica pandemia da CoViD-19, al precipuo fine di giungere adeguatamente “preparati e pronti “preparedness and readiness“, queste le parole-chiave, giustappunto) ad un’eventuale emergenza pandemica da virus dell’influenza aviaria A(H5N1), in una salutare ottica di collaborazione multidisciplinare ed intersettoriale fra Medicina Umana e Medicina Veterinaria, diffusamente permeata dal concetto/principio della “One Health“, la salute unica di uomo, animali ed ambiente!

 

Bibliografia citata

1) Ariyama, N., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Clade 2.3.4.4b Virus in Wild Birds, Chile. Emerg. Infect. Dis. 29:1842-1845. doi: 10.3201/eid2909.230067.

2) Puryear, W., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus Outbreak in New England Seals, United States. Emerg. Infect. Dis. 29:786-791. doi: 10.3201/eid2904.221538.

3) Gamarra-Toledo, V., et al. (2023). Mass Mortality of Sea Lions Caused by Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus. Emerg. Infect. Dis. 29:2553-2556. doi: 10.3201/eid2912.230192.

4) Thorsson, E., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus in a Harbor Porpoise, Sweden. Emerg. Infect. Dis. 29:852-855. doi: 10.3201/eid2904.221426.

5) Murawski, A., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus in a common bottlenose dolphin (Tursiops truncatus) in Florida. Commun. Biol. 7:476. doi: 10.1038/s42003-024-06.

6) Di Guardo, G., Roperto S. (2024). AH5N1 avian influenza, a new pandemic behind the corner? (Rapid Response). BMJ https://www.bmj.com/content/380/bmj.p510/rr.

7) Reardon, S. (2024). Bird flu in US cows: Where will it end? Nature

https://www.nature.com/articles/d41586-024-01333-9.

8) Uyeki, T.M., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus infection in a dairy farm worker. N. Engl. J. Med.

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9) Tisza, M.J., et al. (2024). Virome sequencing identifies H5N1 avian influenza in wastewater from nine cities. MedRxiv preprint 2024.05.10. doi:https://doi.org/10.1101/2024.05.10.24307179.

10) Clark, J.R., et al. (2023). Wastewater pandemic preparedness: Toward an end-to-end pathogen monitoring program. Front. Public Health 11:1137881. doi:10.3389/fpubh.2023.1137881.

11) Gerhard, D. (2024). Deciphering the unusual pattern of bird flu symptoms in cows. The Scientist Magazine

https://www.the-scientist.com/deciphering-the-unusual-pattern-of-bird-flu-symptoms-in-cows-71850.

12) Kristensen, C., et al. (2024). The avian and human influenza A virus receptors sialic acid (SA)-α2,3 and SA-α2,6 are widely expressed in the bovine mammary gland. BioRxiv preprint 2024.05.03.592326.

 

Cristina Casalone (1), Giovanni Di Guardo (2)

1) DVM, Dirigente Veterinario presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Torino

2) DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo