Leptospirosi canina, i rischi per i veterinari e il cane come sentinella ambientale

I medici veterinari che lavorano a contatto con i cani non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio. È quanto emerge da una ricerca condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e finanziata dal Ministero della Salute (RC IZSVE 05/17), che non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro.

Tuttavia le strutture di ricovero per cani ad alta densità di soggetti, se non gestite con la dovuta attenzione verso questa infezione, potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Un altro studio dell’IZSVe ha infatti analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italiaidentificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe) descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio.

Una ricerca dell’IZSVe non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro. Ciò indica che i medici veterinari non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio.

Entrambe le ricerche, condotta dalla struttura di Diagnostica in sanità animale (SCT3) dell’IZSVe, sono state pubblicate dalla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH). I dati raccolti dimostrano che una percentuale di cani esposti all’infezione, spesso trasmessa e mantenuta nell’ambiente da piccoli roditori, si ammala manifestando una grave sintomatologia; tuttavia i cani rappresentano per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Le infezioni da leptospira nei veterinari
Nella ricerca sull’esposizione dei veterinari al rischio leptospirosi sono stati analizzati 221 campioni di siero umani tramite mediante test di microagglutinazione (MAT) per Leptospira: 112 provenienti da medici veterinari clinici specializzati in animali d’affezione, e 109 provenienti da persone non professionalmente esposte al contatto con questi animali. Tutti i soggetti provenivano dal Nord Italia, un’area geografica ad alta endemicità di leptospirosi canina.

Le analisi non hanno rilevato alcuna reattività ai test effettuati, indicando che nessuno dei soggetti aveva sviluppato anticorpi verso le leptospire circolanti nel nostro territorio. Ciò indica che i veterinari, nonostante la maggiore esposizione al rischio per ragioni professionali, non si infettano in modo significativamente diverso rispetto alla popolazione di riferimento.

Ciò può essere dovuto alla maggiore consapevolezza dei rischi zoonotici da parte dei veterinari, e quindi all’adozione di efficaci misure di prevenzione nella gestione dei pazienti nell’esercizio della professione; ma anche alla scarsa escrezione di Leptospira nei cani sintomatici, sia per durata di escrezione che per quantità di batteri eliminati. Il cane, pertanto, sembra rappresentare più una sentinella ambientale per la presenza di Leptospira piuttosto che un veicolo di diffusione dell’infezione.

Il focolaio di leptospirosi in canile
Le strutture di ricovero per cani potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Uno studio dell’IZSVe ha analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italia, identificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe), descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio. I cani rappresentano tuttavia per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Nello studio sul focolaio di leptospirosi in canile i ricercatori hanno analizzato campioni provenienti da 59 cani su un totale di 78 ospitati dalla struttura, in seguito alla segnalazione e alla conferma di positività di 3 cani sintomatici. I campioni sono stati analizzati sia dal punto di vista sierologico tramite MAT, sia attraverso la ricerca diretta del DNA batterico tramite real-time PCR; i campioni risultati positivi alla PCR sono stati inoltre sottoposti a sequenziamento tramite la tecnica Multilocus sequence typing (MLST) presso il Centro di referenza nazionale per la Leptospirosi dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZSLER).

Il 50,9% cani esaminati è risultato positivo ad almeno uno dei test effettuati. Il 37,3% cani ha mostrato sieropositività ad almeno una sierovariante appartenente al sierogruppo Sejroe, e le analisi tramite MLST hanno permesso di identificare L. borgpetersenii, sierogruppo Sejroe (ST155) come responsabile dell’epidemia. L’infezione da parte di questo sierogruppo è stata segnalata sporadicamente nei cani in Italia.

Al fine di aumentare la sensibilità dei servizi diagnostici erogati, questi dati hanno indotto l’IZSVe ad includere nel pannello degli antigeni previsti dal MAT due sierovarianti aggiuntive appartenenti al sierogruppo Sejroe (Sejroe e Saxkoebing) oltre ad Hardjo, già prevista nel pannello del MAT condiviso a livello nazionale.

Dallo studio emerge inoltre che la sorveglianza delle infezioni da Leptospira nei canili è sempre raccomandata, anche quando viene correttamente somministrata la profilassi vaccinale: attualmente infatti i vaccini disponibili per Leptospira non sono in grado di proteggere i cani dal sierogruppo Sejroeoltre che da altri sierogruppi circolanti nel territorio.

Dai dati raccolti non è stato possibile determinare con certezza se Leptospira fosse stata introdotta nel canile dall’ingresso di un cane infetto, piuttosto che dal contatto dei cani con altre specie serbatoio diffuse nello stesso ambiente, come ratti o topi. Tuttavia, dato che gli animali risultati positivi erano distribuiti in vari settori del canile e includevano soggetti che non erano mai entrati in contatto tra loro, secondo i ricercatori la circolazione di piccoli roditori infetti rappresenta la modalità più probabile con cui può essersi diffusa l’infezione. Questa ipotesi è sostenuta anche dall’assenza di nuovi casi clinici segnalati dopo l’intervento di derattizzazione effettuato nel canile in seguito all’identificazione del focolaio.

Fonte: IZS Venezie




EFSA: zoonosi e focolai infettivi di origine alimentare in aumento, benché ancora inferiori ai livelli pre-pandemia

efsa ecdcRispetto all’anno precedente, nel 2021 si è registrato un incremento generale delle segnalazioni relative a malattie zoonotiche e focolai infettivi di origine alimentare, che tuttavia sono rimaste decisamente al di sotto di quelle relative agli anni precedenti la pandemia. È quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale sulle zoonosi «One Health» dell’UE pubblicato dall’EFSA e dall’ECDC.

Il decremento generale dei casi di zoonosi e di focolai segnalati rispetto agli anni precedenti la pandemia è probabilmente collegato alle misure di controllo del COVID-19, ancora in vigore nel 2021. Tra le poche eccezioni figurano i casi di yersiniosi e quelli di focolai di listeriosi di origine alimentare, che hanno superato i livelli pre-pandemia.

Causa della maggior parte dei focolai di origine alimentare (773) è stata la Salmonella, responsabile del 19,3 % del totale. Diversamente dai casi di malattia complessivamente segnalati, i focolai di origine alimentare vedono almeno due persone contrarre la stessa malattia dallo stesso alimento contaminato. Le fonti più comuni di focolai di salmonellosi sono state uova, ovoprodotti e «alimenti misti», ossia pasti composti da vari ingredienti.

Il numero di focolai causati da Listeria monocytogenes (23) è stato il più alto mai registrato, un incremento possibilmente riconducibile a un maggiore ricorso alle tecniche di sequenziamento dell’intero genoma, che permettono una migliore individuazione e definizione dei focolai da parte degli esperti scientifici.

Nel rapporto figurano anche i casi complessivi di malattie zoonotiche segnalati, che non sono necessariamente collegati a focolai. La campilobatteriosi rimane la zoonosi più frequente, per la quale si registra un aumento che porta a 127 840 i casi segnalati rispetto ai 120 946 del 2020, laddove la carne di pollo e tacchino risultano la fonte più comune. Al secondo posto si attesta la salmonellosi, che ha colpito 60 050 persone rispetto alle 52 702 del 2020. Seguono, tra le malattie zoonotiche comunemente segnalate, la yersiniosi (6 789 casi), le infezioni da E. coli produttore della tossina Shiga (6 084) e la listeriosi (2 183).

Il rapporto contiene inoltre dati su Mycobacterium bovis/capraeBrucellaTrichinellaTrichinellaEchinococcusToxoplasma gondii, rabbia, febbre Q, virus della Valle del Nilo e tularemia.

L’EFSA pubblica oggi anche diversi strumenti interattivi di comunicazione sui seguenti argomenti:

Da ascoltare anche l’ultimo episodio del podcast dell’EFSA «Unwelcome gifts: food poisoning unwrapped» (Regali sgraditi: come scartare le intossicazioni alimentari), che spiega le malattie veicolate da alimenti e illustra le buone abitudini da adottare a casa.

Fonte: EFSA




ECM Zoonosi emergenti e riemergenti

imparareIl prossimo 19 dicembre si terrà a Firenze il corso ECM dal titolo “Zoonosi emergenti e riemergenti”, organizzato dalla ASL Toscana Centro. Al corso sono stati assegnati 6 crediti ECM.

Al corso è previsto libero accesso e accreditamento per tutti i veterinari pubblici delle aziende sanitarie della Regione Toscana.




Infezioni da SARS-CoV-2 acquisite dagli animali, un motivo di allarme?

coronavirusLa recente segnalazione di un caso d’infezione umana sostenuta da un ceppo di SARS-CoV-2 fortemente divergente (B.1.641), acquisito da un esemplare di cervo a coda bianca (Odocoileus virginianus) nella regione canadese dell’Ontario (1), desta una certa preoccupazione.

I cervi a coda bianca, infatti, si sono già rivelati altamente suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, sostenendo efficacemente,  in tal modo, la trasmissione intra-specifica di numerose “varianti di rilievo” (“variants of concern”, VOC) e “varianti d’interesse” (“variants of interest” VOI) circolanti all’interno della nostra specie (2).

Le indagini filogenetiche hanno altresì dimostrato, in maniera inequivocabile, che nei cervi a coda bianca si sarebbe selezionato uno stipite di SARS-CoV-2 (B.1.641) fra i più divergenti rispetto a quelli sin qui caratterizzati, albergante al proprio interno ben 76 mutazioni “non silenti” (37 delle quali mai identificate prima in ceppi virali umani) e condividente un comune “antenato” rispetto ad un isolato di SARS-CoV-2 precedentemente identificato nei visoni del Michigan (1).

A tal proposito, sebbene il virus proveniente dai cervi a coda bianca e dal paziente dell’Ontario, così come dai visoni del Michigan, non fosse caratterizzato dalla mutazione “S:Y453F” appannaggio dei visoni intensivamente allevati in Danimarca, nei quali si è selezionata la variante “cluster 5” che e’ stata quindi ritrasmessa all’uomo (“viral spillback”) (3), la natura “gregaria” dei cervi a coda bianca dovrebbe esser tenuta in seria considerazione quale rilevante fattore ecologico dell’ospite in grado di sostenere efficacemente la diffusione e la replicazione dell’agente virale. Alla medesima stregua andrebbero considerate, per quanto in condizioni “artificiali”, le dinamiche di trasmissione di SARS-CoV-2 all’interno degli allevamenti intensivi di visoni danesi, olandesi e di altri Paesi in cui sarebbe emersa la succitata variante “cluster 5”, unitamente alla comparsa di altri ceppi virali previamente acquisiti dall’uomo (“viral spillover”).

Di pari passo con un’accresciuta cinetica replicativa si assisterebbe alla progressiva acquisizione di una serie di eventi mutazionali “non silenti” (alias “non sinonimi”) a carico del genoma virale, che nel caso di SARS-CoV-2 consta di circa 30.000 nucleotidi. Si stima, al riguardo, che ad ogni ciclo replicativo coinvolgente 10.000 basi azotate corrisponderebbe la comparsa di una delle mutazioni anzidette (4). In tal modo si giustificherebbe lo sviluppo di varianti virali altamente divergenti e/o dotate di notevole patogenicita’, che potrebbero quindi infettare l’uomo a partire da specie o popolazioni animali “naturalmente” o “artificialmente” gregarie quali cervi a coda bianca e visoni, rispettivamente.

Ciononostante, l’efficienza di trasmissione degli isolati di SARS-CoV-2 fin qui identificati nelle 30 specie di animali domestici e selvatici suscettibili nei confronti dell’infezione risulterebbe a tutt’oggi piuttosto limitata, per nostra fortuna.

In conclusione, mentre l’opzione vaccinale andrebbe attentamente considerata anche per gli animali, con particolare riferimento alle specie selvatiche a rischio di estinzione (5), una meticolosa, capillare e qualificata attività di sorveglianza eco-epidemiologica, posta in essere nel segno della “One Health” ad opera dei Servizi Veterinari e delle competenti Istituzioni Medico-Veterinarie, rappresenta il necessario prerequisito per definire nella maniera più precisa ed accurata le complesse quanto intriganti traiettorie compiute da SARS-CoV-2 all’interno – così come al di qua e al di là – delle numerose “interfacce animali-uomo-animali”.

BIBLIOGRAFIA

1) Pickering B., et al. (2022). Divergent SARS-CoV-variant emerges in white-tailed deer with deer-to-human transmission. Nat. Microbiol. https://doi.org/10.1038/s41564-022-01268-9.

2) Hale V.L., et al. (2022). SARS-CoV-2 infection in free-ranging white-tailed deer. Nature 602, 481-486.

3) Lassaunière R., et al. (2021). In vitro characterization of fitness and convalescent antibody neutralization of SARS-CoV-2 cluster 5 variant emerging in mink at Danish farms. Front. Microbiol. 12, 698944. doi: 10.3389/fmicb.2021.698944.

4) Di Guardo G. (2022). Is gain of function a reliable tool for establishing SARS-CoV-2 origin?. Adv. Microbiol. 12, 103-108. doi: 10.4236/aim.2022.123009.

5) Di Guardo, G. (2022). We should be vaccinating domestic and wild animal species against CoViD-19. Vet. Rec. 190, 293.

Giovanni Di GuardoDVM, Dipl. ECVP,
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




SIPA: un nuovo strumento per visualizzare i focolai di influenza aviare

La SIPA informa che è stato realizzato un nuovo strumento informatico per la rapida visualizzazione dei focolai di influenza aviare nella popolazione domestica e selvatica in Europa. Realizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie è liberamente consultabile al link   seguente EURL Avian Flu Data Portal (izsvenezie.it)

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Malattie infettive emergenti. Nasce la Fondazione INF-ACT, progetto integrato per affrontare le emergenze infettive sostenuto dai fondi del PNRR

25 membri tra atenei, enti pubblici e privati, fra cui l’Associazione Istituti Zooprofilattici Sperimentali (AIZS). Università di Pavia capofila, in collaborazione con ISS e CNR.

L’Università di Pavia capofila di un progetto ambizioso e di ampio raggio, ma anche di reale impatto scientifico e con ricadute operative e organizzative, sul tema “malattie infettive emergenti”, che parte dall’individuazione di quelle che sono le principali minacce attuali e quelle che potrebbero emergere nel futuro.

Il progetto, sviluppato da una squadra proponente caratterizzata fin dall’inizio da una forte sinergia tra l’ateneo pavese, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), è stato selezionato dal Ministero dell’Università e della Ricerca e finanziato con 114,5 milioni di euro, nell’ambito della Missione 4, “Istruzione e Ricerca” – Componente 2, “Dalla ricerca all’impresa” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – Linea di investimento 1.3, “Partenariati Estesi”, finanziato dall’Unione europea – NextGenerationEU.

Grazie a questo importante finanziamento nasce la Fondazione INF-ACT, di cui fanno parte 25 tra atenei nazionali, enti pubblici e privati. Un consorzio che prevede forti competenze trasversali in grado di affrontare il problema delle possibili epidemie adottando un approccio “One Health” , ossia integrando aspetti di salute umana, salute animale e ambientale, dagli eventi epidemici ai fenomeni di spillover ai mutamenti climatici alla base delle modifiche della fauna selvatica e le interazioni con l’uomo.

La rete dei 10 Istituti Zooprofilattici Sperimentali, rappresentata dall’Associazione AIZS, ha dunque un ruolo di rilievo nel prestigioso network che svilupperà il progetto INF-ACT, garantendo proprio quell’approccio alla Salute Unica che viene declinato nei diversi filoni lungo i quali si svilupperanno le attività di ricerca.

La DG dell’IZSVe, Antonia Ricci, è stata candidata a rappresentare AIZS nell’ambito degli organi di governo della Fondazione INF-ACT.


Tematiche di ricerca

Sono state individuate cinque tematiche principali che saranno al centro della sinergia operativa messa in campo dalla Fondazione:

  • studio dei virus emergenti e riemergenti;
  • studio di insetti e altri vettori che veicolano agenti patogeni e delle malattie ad essi correlate;
  • studio degli agenti patogeni resistenti agli antimicrobici e dei meccanismi di generazione e scambio di marcatori di farmacoresistenza;
  • studio di nuovi sistemi di sorveglianza integrata epidemiologica e microbiologica (umana-animale-ambientale); identificazione di modelli per l’individuazione precoce di infezioni emergenti; messa a punto di meccanismi di alert e modelli matematici predittivi;
  • identificazione di nuovi bersagli per molecole ad attività antinfettiva; progettazione, sintesi e validazione di molecole con potenziale terapeutico con approcci in silico, in vitro, ex vivo e in modelli animali.

 

Fonte: IZS Venezie




Vaiolo delle scimmie, un nuovo nome per evitare stereotipi

Per evitare stereotipi e stigmatizzazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha raccomandato che il virus del vaiolo delle scimmie sia rinominato “mpox”. Entrambi i nomi – mpox e monkeypox – saranno utilizzati contemporaneamente per un anno, mentre il secondo sarà gradualmente eliminato, ha dichiarato l’Oms in un comunicato.

Il cambiamento arriva dopo che un certo numero di individui e di Paesi hanno sollevato preoccupazioni in diverse riunioni e hanno chiesto all’Oms di proporre un modo per cambiare il nome.

Il periodo di transizione di un anno serve a mitigare le preoccupazioni degli esperti circa la confusione causata da un cambio di nome nel bel mezzo di un’epidemia. Inoltre, dà il tempo di completare il processo di aggiornamento della Classificazione internazionale delle malattie (Icd) e di aggiornare le pubblicazioni dell’Oms

A luglio, l’Oms ha dichiarato ufficialmente l’epidemia di vaiolo delle scimmie in più Paesi, al di fuori delle tradizionali aree endemiche dell’Africa, un’emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale. È responsabilità dell’Oms assegnare i nomi alle malattie nuove ed esistenti attraverso un processo consultivo, che include gli Stati membri dell’Organizzazione. La consultazione sul vaiolo delle scimmie ha coinvolto i rappresentanti delle autorità governative di 45 Paesi diversi. Secondo l’Oms, alla data di sabato, 110 Stati membri avevano segnalato 81.107 casi confermati in laboratorio e 1.526 casi probabili, compresi 55 decessi.

La maggior parte dei casi segnalati nelle ultime quattro settimane proveniva dalle Americhe (92,3%) e dall’Europa (5,8%). Il numero di nuovi casi settimanali segnalati a livello globale è diminuito del 46,1% nella settimana dal 21 al 27 novembre.

Fonte: AGI




Arbovirosi in Italia: i dati al 31 ottobre 2022

artropodiSono stati pubblicati sul sito EpiCentro (ISS)  i nuovi rapporti del sistema di sorveglianza nazionale integrata delle arbovirosi relativi al periodo 1 gennaio – 31 ottobre 2022. Durante questi mesi il sistema di sorveglianza nazionale segnala: 40 casi confermati di infezione neuro-invasiva – TBE; nessun caso confermato di Chikungunya; 114 casi confermati di Dengue; 100 casi confermati di Toscana Virus; 1 caso confermato di Zika Virus.

Per maggiori informazioni consulta la pagina dedicata ai bollettini periodici della sorveglianza nazionale sulle arbovirosi.

Fonte: ISS




L’Oms a caccia di nuovi patogeni

L’Organizzazione ha convocato gli esperti per compilare un elenco aggiornato di agenti patogeni prioritari che possono causare future epidemie o pandemie. 

L’ Oms sta convocando oltre 300 scienziati che prenderanno in considerazione le prove su oltre 25 famiglie di virus e batteri, oltre alla “Malattia X”, che indica un agente patogeno sconosciuto che potrebbe causare una grave epidemia internazionale. Il processo è iniziato venerdì e guiderà gli investimenti globali e la ricerca e lo sviluppo (R&S), in particolare nei vaccini, nei test e nei trattamenti. L’elenco dei patogeni prioritari è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 e comprende COVID-19, malattia da virus Ebola , febbre di Lassa, sindrome respiratoria mediorientale (MERS), sindrome respiratoria acuta grave (SARS), febbre della Rift Valley, Zika e “Malattia X”. “Prendere di mira i patogeni prioritari e le famiglie di virus per la ricerca e lo sviluppo di contromisure è essenziale per una risposta rapida ed efficace a epidemie e pandemie “, ha affermato Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Oms. “Senza significativi investimenti in ricerca e sviluppo prima della pandemia di Covid-19 , non sarebbe stato possibile sviluppare vaccini sicuri ed efficaci in tempi record”, ha aggiunto.

Gli esperti consiglieranno un elenco di agenti patogeni prioritari che necessitano di ulteriori ricerche e investimenti.  Il processo includerà sia criteri scientifici che di salute pubblica, nonché criteri relativi all’impatto socioeconomico, all’accesso e all’equità. Saranno sviluppate tabelle di marcia di R&S per quei patogeni identificati come prioritari, delineando le lacune di conoscenza e le aree di ricerca. Saranno inoltre compiuti sforzi per mappare, compilare e facilitare le sperimentazioni cliniche per sviluppare vaccini, trattamenti e test diagnostici. L’elenco rivisto dovrebbe essere pubblicato all’inizio del 2023.

Fonte: panoramasanita.it




Spillover e Spillback, andata e ritorno dei patogeni dall’uomo agli animali

In questi anni abbiamo sentito parlare parecchio di spillover, che letteralmente identifica un “salto di specie” ma che più spesso viene inteso come passaggio di un patogeno dagli animali all’uomo. Tale meccanismo può essere alla base  di malattie nuove o emergenti o vere e proprie epidemie/pandemie, come nel caso dell’influenza e probabilmente del SARS_CoV-2.

Si parla meno frequentemente, ma non è meno importante in ottica One Health, del fenomeno dello  “spillback” che identifica il processo inverso ovvero il “salto” del patogeno dall’uomo agli animali, talvolta a specie molto diverse da quelle che erano serbatoio o ospite occasionale/spillover del patogeno stesso. Lo spillback può determinare la comparsa e la stabilizzazione di un patogeno negli animali in un territorio dove prima non era presente, ed  essere causa di malattia in specie animali che loro volta possono diventare fonte di infezione per l’uomo.

Il meccanismo è meno complicato di quanto sembra se pensiamo al virus del vaiolo della scimmia, (monkeypox) che è sempre stato localizzato in Africa e in poche altre regioni, nelle quali è passato dalla scimmia ed altre specie di roditori che fungevano da serbatoio all’uomo, avendo però ben poche occasioni di passare in altre specie animali, anche domestiche.

Tuttavia, da quando il monkeypox virus si è diffuso tra gli umani in nuove aree più densamente popolate, come gli Stati Uniti e l’Europa, è sorto il problema della possibile infezione anche di nuove specie animali “domestiche” a contatto con esseri umani infetti (cani, roditori, lagomorfi etc.) e quindi anche del potenziale passaggio nelle specie selvatiche.

La mancanza di controllo e monitoraggio dei fenomeni di spillback può essere facilmente causa della costituzione di nuovi serbatoi animali di virus e della persistenza della malattia nelle nuove aree “conquistate”.

Per questo l’Organizzazione Mondiale della Salute animale (WOAH) ha prodotto una linea guida per indirizzare a conoscere e limitare il rischio di spillback dall’uomo agli animali selvatici, ai pet e ad altri animali.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna