I numeri dell’inquinamento da plastica negli oceani

Vi siete mai chiesti quanto inquinamento da plastica si sia accumulato sulla superficie degli oceani di tutto il mondo? Un nuovo studio, in parte sostenuto dal progetto MINKE finanziato dall’UE, parla di un crescente «smog» pari a oltre 170 trilioni di particelle di plastica galleggianti negli oceani di tutto il mondo. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista a libero accesso «PLOS One». Per valutare i rischi attuali e potenziali futuri che il pianeta deve affrontare, e se le politiche attuate oggi sono efficaci, serve una migliore comprensione della progressione globale dell’inquinamento da plastica nel tempo. Lo studio, sostenuto dall’UE, si è esteso oltre gli oceani dell’emisfero settentrionale e i brevi periodi di tempo su cui si erano concentrati i ricercatori precedenti, coprendo l’inquinamento da plastica a livello superficiale raccolto da oltre 11 700 stazioni in sei regioni marine di tutto il mondo tra il 1979 e il 2019. Le regioni marine incluse nello studio erano l’Atlantico settentrionale, l’Atlantico meridionale, il Pacifico settentrionale, il Pacifico meridionale, l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo.

Milioni di tonnellate di particelle di plastica

I ricercatori hanno stimato che il livello di inquinamento superficiale odierno è compreso tra 82 e 358 trilioni di particelle di plastica (una media di 171 trilioni di particelle, per lo più microplastiche) per un peso compreso tra 1,1 e 4,9 milioni (o una media di 2,3 milioni) di tonnellate. Non hanno individuato una tendenza chiaramente rilevabile tra il 1979 e il 1990 a causa di una relativa mancanza di dati, seguita da quella che lo studio descrive come «una tendenza fluttuante ma stagnante» fino al 2005, per poi registrare un rapido aumento fino al 2019. «Abbiamo riscontrato una tendenza allarmante di crescita esponenziale delle microplastiche nell’oceano a partire dal nuovo millennio, raggiungendo oltre 170 trilioni di particelle di plastica. Si tratta di un monito forte che ci impone di agire subito su scala globale. Serve un trattato globale delle Nazioni Unite sull’inquinamento da plastica forte e legalmente vincolante, che fermi il problema alla fonte», osserva il primo autore dello studio, il dottor Marcus Eriksen del «5 Gyres Institute» negli Stati Uniti, in un comunicato stampa su «EurekAlert!». Secondo il dottor Eriksen e i suoi coautori, il rapido aumento dell’inquinamento da plastica negli oceani a partire dal 2005 potrebbe essere attribuito all’aumento esponenziale della produzione di plastica a livello globale e ai cambiamenti nella produzione e gestione dei rifiuti. Si ritiene che questi due fattori abbiano sopraffatto non solo i meccanismi naturali di esportazione che trasportano la plastica fuori dallo strato superficiale dell’oceano, ma anche qualsiasi impatto positivo prodotto da interventi politici tempestivi e vincolanti. Gli autori avvertono: «Senza sostanziali cambiamenti politici su scala globale, il tasso di ingresso della plastica negli ambienti acquatici aumenterà di circa 2,6 volte dal 2016 al 2040.» Gli autori dello studio sostenuto dal progetto MINKE (Metrology for Integrated Marine Management and Knowledge-Transfer Network) concludono che «è necessario un urgente intervento politico internazionale per ridurre al minimo i danni ecologici, sociali ed economici».

Fonte: Commissione Europea




Dal Cnr-Ismn un biosensore ottico per la sicurezza alimentare

La contaminazione di prodotti alimentari ha un impatto nefasto sulla loro qualità e pone seri rischi per la salute dei consumatori.

La presenza di contaminanti microbiologici e chimici nei prodotti alimentari può essere correlata a molteplici cause quali la contaminazione ambientale, i metodi di produzione agricola e di processo delle materie prime, il conseguente immagazzinamento, confezionamento e trasporto dei prodotti finito, fino a pratiche di adulterazione fraudolenta.

Inoltre, prodotti alimentari contaminati devono essere ritirati dal mercato e smaltiti in quanto non rispondenti ai criteri normativi europei o agli standard di qualità, con conseguente spreco di cibo ed ingente perdita economica.

Di conseguenza in questi ultimi anni si è di molto intensificato lo sforzo per realizzare nuove tecnologie per una sensoristica che sia non solo veloce, accurata, quantitativa e a basso costo ma che possa anche essere facilmente trasferita dai laboratori di analisi agli ambienti di lavoro reali (come le aziende agricole, i siti di depurazione delle acque, gli ambulatori territoriali solo per fare alcuni esempi) per realizzare una rilevazione di tipo point-of-need (PON).

Ad oggi rimane aperta la sfida per integrare in un singolo sistema miniaturizzato, robusto e user-friendly le molteplici tecnologie necessarie per abilitare una sensoristica selettiva, multiplexing e altamente sensibile.

“L’attività di ricerca sviluppata da Cnr-Ismn di Bologna e recentemente pubblica sulla rivista Advanced Materials riporta l’innovativo approccio di utilizzare dispositivi optoelettronici organici per realizzare una nuova architettura di biosensore ottico proprio in virtù delle peculiari caratteristiche di questi dispositivi come OLED (diodi organici ad emissione di luce) e OPD (fotodiodi organici) di essere integrabili, modulari, planari e con spessore di qualche centinaio di nanometri mostrando performance ottiche ormai comparabili con le tecnologie competitive basate su semiconduttori inorganici”, conferma Stefano Toffanin dirigente di ricerca presso Cnr-Ismn e coordinatore dei progetti europei H2020 MOLOKO e h-ALO. “Nel nuovo sensore, il meccanismo di bio-riconoscimento molecolare selettivo, sensibile e multiplexing tipico di superfici nanostrutturate che sfruttano il fenomeno della risonanza plasmonica di superficie (SPR) viene abilitato in un chip di circa 1 pollice quadrato proprio grazie all’optoelettronica organica che ha sostituito le usuali componenti ottiche ingombranti e dispendiose che finora avevano impedito l’utilizzo della tecnologia SPR al di fuori dei laboratori di analisi specializzati”.

“La vasta applicabilità del sensore in ambienti industrialmente rilevanti è stata dimostrata nella rilevazione di composti sia ad alto che a basso peso molecolare di interesse per la sicurezza e la qualità nella catena di produzione del latte: in particolare, la lattoferrina che è una proteina presente nel latte vaccino indicatrice di mastini ed infezioni delle mammelle nelle vacche e la streptomicina, un antibiotico tipicamente utilizzati negli allevamenti di bestiame e che può essere facilmente trasferito alla carne, al latte ed altri prodotti caseari contribuendo così al pericoloso problema di salute pubblica dell’antibiotico resistenza”, aggiunge Margherita Bolognesi, ricercatrice del Cnr-Ismn.

In tempistiche dell’ordine di 15 minuti a misurazione è stato possibile ottenere le curve dose-risposta in soluzioni buffer per tali analiti andando ad identificare un limite di rilevabilità (LOD) comparabile con la strumentazione analitica da banco SPR utilizzata come standard in laboratorio (BIACORE 3000).

“In futuro – svela Toffanin – il prototipo del sensore consentirà di effettuare le misurazioni direttamente sul campo e in tutti i punti della filiera del latte senza dover inviare i campioni presso laboratori attrezzati: ad esempio, in sala di mungitura mediante diretta integrazione nell’impianto di mungitura, o presso i diversi siti di interesse della filiera del latte (centri di raccolta latte, caseifici, ecc..) ed è disegnato per essere utilizzato come strumento portabile da operatori specializzati e non”.

L’attività di ricerca e sviluppo su questo tematica è stata sostenuta dai progetti Europei ICT MOLOKO (Grant Agreement n. 780839) e h-ALO (Grant Agreement n. 101016706) all’interno del progamma quadro Horizon 2020 dei quali Cnr-Ismn è coordinatore.

Fonte: CNR




Api e pesticidi: aggiornata la guida EFSA alla valutazione dei rischi

apeL’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha revisionato la propria guida sulle modalità per valutare i rischi derivanti dai prodotti fitosanitari per api da miele, bombi e api solitarie. La guida riveduta tiene conto delle più recenti acquisizioni scientifiche e adotta le metodologie più aggiornate per eseguire valutazioni del rischio in questo ambito.

Quali sono le caratteristiche principali della guida aggiornata?

Il documento descrive come valutare il rischio per le api da miele esposte a prodotti fitosanitari in aree agricole. Lo fa seguendo un approccio progressivo per valutare sia l’esposizione delle api ai pesticidi (per contatto o per via alimentare) sia gli effetti che ne derivano. La guida descrive anche gli studi che i richiedenti devono produrre quando non sia possibile escludere un elevato rischio in fase di valutazione iniziale.

Contempla quindi vari scenari e aspetti pertinenti alla valutazione del rischio. Tra questi: le diverse tempistiche degli effetti (acuti e cronici) e le diverse fasi di vita delle api (adulti e larve). Per le api da miele esamina i possibili effetti a lungo termine delle basse dosi e le preoccupazioni potenziali dovute agli effetti subletali. Il documento esprime inoltre raccomandazioni in merito ai rischi da metaboliti e miscele di prodotti fitosanitari.

Che cos’è un approccio progressivo?

Sia la stima dell’esposizione che la valutazione degli effetti possono essere eseguite seguendo un approccio per gradi, passando da valutazioni prudenziali a valutazioni più realistiche. Il concetto di approccio progressivo consiste nel partire con una valutazione semplice, come ad esempio uno screening basato su dati standard, per poi aggiungere complessità, se necessario, onde affinare il rischio. Ciò avviene quando un rischio elevato non può essere escluso al gradino inferiore, e può implicare l’uso di dati desunti da studi di campo o semi-campo.

Per quale ragione e in che modo è stata condotta la revisione?

Ai sensi della legislazione europea, i prodotti fitosanitari possono essere approvati solo se una valutazione del rischio dimostri che essi non hanno effetti inaccettabili sull’ambiente, comprese le specie non bersaglio come le api. Nel 2013 l’EFSA ha pubblicato la sua prima guida alla valutazione del rischio da prodotti fitosanitari per le api (Apis melliferaBombus spp. e api solitarie), che la Commissione europea ci ha chiesto di rivedere nel 2019.

In risposta alla richiesta abbiamo istituito un gruppo di lavoro composto da personale dell’EFSA ed esperti esterni e, in linea con il mandato ricevuto, abbiamo effettuato una revisione basata sulle evidenze scientifiche tenendo conto delle ultime conoscenze scientifiche emerse dal 2013. Abbiamo raccolto dati sulla mortalità delle api, rivisto i requisiti per gli studi su campo e aggiornato le metodologie di valutazione del rischio.

Per documentare in modo trasparente lo studio scientifico che è alla base della revisione, la guida con le sue appendici e gli allegati sono stati corredati da un documento supplementare che racchiude tutte le informazioni di base nonché su raccolte dati e analisi.

In che modo sono stati coinvolti gli Stati membri e i portatori di interesse?

Durante il processo di revisione l’EFSA ha consultato gli Stati membri tramite la Rete di indirizzo sui pesticidi  (Pesticide Steering Network) e una serie di soggetti interessati tramite un apposito gruppo di portatori di interesse. L’EFSA ha poi preso parte a una serie di seminari e sessioni informative rivolte a rappresentanti degli Stati membri e parti interessate, organizzati dalla Commissione europea (CE).

Inoltre l’EFSA ha mantenuto stretti contatti con la CE e ha collaborato con l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) per armonizzare gli approcci alla valutazione dei rischi per le api nell’ambito dei regolamenti su prodotti fitosanitari e biocidi.

Tra luglio e ottobre del 2022 l’EFSA ha tenuto una consultazione pubblica sulla versione in bozza della guida. I contributi pervenuti sono stati elaborati in un workshop apposito rivolto a rappresentati di Stati membri e parti interessate, confluendo poi nel documento finale.

Ci sono state criticità particolari?

Poiché la legislazione europea in materia non definisce quantitativamente gli “effetti inaccettabili”, questo obiettivo di protezione generico doveva essere tradotto in obiettivi di protezione specifici (SPG), che potessero essere collegati in modo trasparente agli schemi di valutazione del rischio descritti nella guida. Sebbene la definizione degli SPG non rientri nelle competenze dell’EFSA, che ha il mero ruolo di valutatore del rischio, tuttavia abbiamo assistito i gestori del rischio – la Commissione europea e gli Stati membri – in questo compito organizzando diverse consultazioni.

A seguito di questo mutuo scambio e sulla base dei  dati scientifici forniti dall’EFSA, i gestori del rischio hanno concordato un GSP per le api mellifere del 10%. Si tratta del livello massimo consentito di riduzione delle dimensioni delle colonie dopo l’esposizione ai pesticidi. Per i bombi e le api solitarie non è stato definito un SPG quantitativo per mancanza di dati. È emerso tuttavia un generale consenso sulla necessità di richiedere più frequentemente studi di grado superiore per ottenere dati più solidi per il futuro.

Quali sono ora i prossimi passi?

Ora che la guida dell’EFSA è stata pubblicata, la Commissione europea inizierà a lavorare con gli Stati membri per l’approvazione del documento in seno al Comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi.

Chi fosse interessato a saperne di più sulla guida EFSA alla valutazione del rischio da prodotti fitosanitari per le api può partecipare alla nostra sessione informativa pubblica del 13 giugno 2023.

Fonte: EFSA




Artico: studio dimostra legame tra riscaldamento globale e aumento mercurio nel mare

Il mercurio, inquinante globale estremamente tossico per salute e ambiente, è al centro di un nuovo studio a guida italiana appena pubblicato sulla rivista scientifica “Nature Geoscience”. Scienziate e scienziati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), Il mercurio, inquinante globale estremamente tossico per salute e ambiente, è al centro di un nuovo studio a guida italiana appena pubblicato sulla rivista scientifica “Nature Geoscience”. Scienziate e scienziati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), in collaborazione con altri partner internazionali hanno esaminato la relazione tra le variazioni climatiche del passato con i livelli di mercurio in Artico per capire quali sono i fattori naturali che influenzano il ciclo biogeochimico di questo elemento.

Nel contesto del progetto EastGRIP (East GReenland Ice core Project) coordinato dal Centre for Ice and Climate di Copenaghen, il team di ricerca ha condotto l’analisi di una carota di ghiaccio proveniente dalla calotta groenlandese, osservando la dinamica del mercurio tra 9.000 e 16.000 anni fa, durante la transizione tra l’ultimo periodo glaciale e l’attuale periodo climatico, l’Olocene.

I risultati hanno evidenziato che i livelli di mercurio durante questa transizione sono stati fortemente influenzati dalla riduzione della copertura di ghiaccio marino.

“Il nostro studio mostra che la deposizione di mercurio in Artico è triplicata all’inizio dell’Olocene rispetto all’Ultimo Periodo Glaciale”, spiega Delia Segato, dottoranda in Scienza e Gestione dei Cambiamenti Climatici dell’Università Ca’ Foscari Venezia. “Grazie all’analisi e l’interpretazione di archivi paleoclimatici e lo sviluppo di un modello di chimica atmosferica del mercurio”, continua Segato, “lo studio ha concluso che la perdita di ghiaccio marino, specialmente quello perenne, nell’oceano Atlantico sub-polare a causa del riscaldamento climatico avvenuto 11.700 anni fa, è stata la maggior responsabile dell’aumento di deposizione di mercurio in Artico”.

Le emissioni di mercurio, attentamente monitorate a livello internazionale, non sono solamente di origine antropica. Il ciclo biogeochimico del mercurio è controllato anche da diverse fonti naturali, come le attività vulcaniche, nonché da una moltitudine di processi fisici, chimici e biologici che si verificano nel suolo, nell’oceano e nell’atmosfera.

“Nelle regioni polari, il ghiaccio marino svolge un ruolo fondamentale nel controllo di questi processi”, spiega Andrea Spolaor, ricercatore presso del Cnr-Isp di Venezia e coautore dello studio. “Infatti, è stato dimostrato che il ghiaccio marino perenne, spesso di diverse decine di metri di spessore, impedisce il trasferimento del mercurio dall’oceano all’atmosfera, che altrimenti avverrebbe a causa della volatilità di questo metallo”.

“Al contrario, il ghiaccio marino stagionale, essendo più sottile, permeabile e salino, consente il trasferimento del mercurio e favorisce complesse reazioni atmosferiche che coinvolgono il bromo e aumentano la frequenza di eventi di depauperamento atmosferico del mercurio, causando una più rapida deposizione nell’ambiente artico”, conclude Spolaor. “A causa del riscaldamento climatico attuale, l’estensione del ghiaccio marino perenne nell’Artico è diminuita di oltre il 50% rispetto all’inizio delle misurazioni satellitari negli anni ’70. Studi futuri ci aiuteranno a stimare come questo fenomeno influirà sui livelli di mercurio e quali sono i rischi associati per le popolazioni e gli ecosistemi artici”.

Fonte: sanitainformazione.it




ISS pubblicate le linee guida al Regolamento (CE) 2023/2006

issNell’ambito del Progetto CAST (Contatto Alimentare Sicurezza e Tecnologia) sono state sviluppate linee guida per l’applicazione del Regolamento (CE) 2023/2006 sulle buone pratiche di fabbricazione nella filiera di produzione dei materiali e oggetti destinati a venire in contatto con gli alimenti.

Le linee guida sono strutturate in una parte di applicazione generale e in una parte di applicazione specifica, distinta per le filiere dei materiali e oggetti in alluminio, carta e cartone, imballaggi flessibili, legno, materie plastiche, metalli e leghe metalliche rivestiti e non rivestiti, sughero, vetro, prodotti verniciati su metalli (coating), adesivi sigillanti, inchiostri da stampa.

Scarica il rapporto

Fonte: Istituto Superiore di Sanità




Pesticidi negli alimenti: pubblicati gli ultimi dati

Nel 2021 è stato raccolto nell’Unione europea un insieme di 87 863 campioni di prodotti alimentari. Sottoposti ad analisi, il 96,1% di essi è risultato nei limiti di legge. Quanto al sottoinsieme di 13 845 campioni analizzati in base allo specifico programma di controllo coordinato dall’UE (EUCP) si è riscontrato che rientrava nei limiti di legge il 97,9% di essi.

Il programma EUCP dell’UE analizza campioni prelevati a caso da 12 prodotti alimentari. Per il 2021 questi erano: melanzane, banane, broccoli, funghi coltivati, pompelmi, meloni, peperoni, uva da tavola, olio vergine d’oliva, grano, grasso bovino e uova di gallina.

Dei campioni analizzati nell’ambito del programma coordinato:

  • 8 043, ovvero il 58,1%, sono risultati privi di residui quantificabili;
  • 5 507, ovvero il 39,8%, contenevano uno o più residui in concentrazioni inferiori o pari ai limiti ammessi (noti come livelli massimi di residui o LMR);
  • 295, ovvero il 2,1%, conteneva residui superiori ai livelli consentiti.

Il programma coordinato utilizza a rotazione triennale panieri degli stessi prodotti in modo da poter individuare tendenze in aumento o diminuzione.

Il tasso complessivo di sforamento degli LMR da parte dei residui di pesticidi è passato dall’1,4% nel 2018 al 2,1% nel 2021. Se si escludono i pompelmi, nel 2021 il tasso

medio di sforamento degli LMR risulta dell’1,4%, lo stesso del 2018.  Nel 2021 quindi gli Stati membri hanno richiamato l’attenzione sulla maggior presenza di residui di pesticidi nei pompelmi importati da Paesi extraeuropei e la Commissione europea ha aumentato i controlli alle frontiere.

L’EFSA ha tradotto le risultanze del programma coordinato in grafici e diagrammi disponibili sul proprio sito web, rendendo così i dati più accessibili al pubblico non specialista.

Oltre ai dati armonizzati e confrontabili raccolti nell’ambito del suddetto programma UE, il rapporto annuale dell’EFSA utilizza anche i dati provenienti dalle attività di controllo nazionali dei singoli Stati membri dell’UE[1], più Norvegia e Islanda.

I risultati dei programmi di monitoraggio sono la fonte essenziale di informazioni per stimare l’esposizione dei consumatori europei ai residui di pesticidi tramite l’alimentazione.

Nell’ambito dell’analisi dei risultati l’EFSA ha prodotto anche una valutazione dei rischi alimentari. È stata introdotta quest’anno anche una valutazione probabilistica pilota su un sottoinsieme di sostanze.

Il rapporto conclude che è improbabile che i prodotti alimentari analizzati nel 2021 rappresentino un problema per la salute dei consumatori. Con tutto ciò il rapporto comprende una serie di raccomandazioni per aumentare l’efficienza dei sistemi europei di controllo sui residui di pesticidi.

Fonte: EFSA




Il bisfenolo A negli alimenti è un rischio per la salute

Gli esperti scientifici dell’EFSA hanno concluso, in una nuova valutazione, che l’esposizione al bisfenolo A (BPA) tramite gli alimenti costituisce una preoccupazione per la salute dei consumatori di tutte le fasce d’età.

Dopo un’accurata valutazione delle evidenze scientifiche e alla luce dei contributi ricevuti da una pubblica consultazione, gli esperti hanno riscontrato possibili effetti nocivi a carico del sistema immunitario.

La Commissione europea e le autorità nazionali esamineranno le misure normative adeguate a dar seguito alle risultanze del parere EFSA.

Il BPA è una sostanza chimica usata in genere in associazione con altre sostanze per produrre plastiche e resine.

Il BPA rientra ad esempio nel policarbonato, un tipo di plastica trasparente e rigida che si usa per produrre contenitori riutilizzabili per distributori d’acqua, bevande e conservazione di alimenti. Viene usato anche per produrre resine epossidiche impiegate in pellicole e verniciature interne per lattine e contenitori destinati a cibi e bevande.

Prodotti chimici come il BPA utilizzato nei contenitori possono trasmigrare in quantità esigue verso gli alimenti e le bevande che essi contengono, per questo motivo gli scienziati dell’EFSA ne rivedono periodicamente la sicurezza alla luce dei nuovi dati disponibili.

Ampio l’insieme di dati esaminato

Ha dichiarato il dr Claude Lambré, presidente del gruppo di esperti sui materiali a contatto con gli alimenti, gli enzimi, gli aromatizzanti e i coadiuvanti tecnologici (gruppo CEF) dell’EFSA: “Fin dalla nostra prima valutazione completa del rischio relativo alla sostanza (2006), i nostri scienziati hanno analizzato periodicamente e in modo molto approfondito la sicurezza del BPA.

“Per il riesame abbiamo vagliato una grande quantità di pubblicazioni scientifiche, tra cui oltre 800 nuovi studi pubblicati dal gennaio 2013. Questo ci ha permesso di orientarci tra notevoli elementi di incertezza circa la tossicità del BPA.

“Negli studi abbiamo osservato nella milza un aumento della percentuale dei linfociti del tipo T helper. Questi svolgono un ruolo chiave nei nostri meccanismi cellulari immunitari e un aumento di questo tipo potrebbe portare allo sviluppo di infiammazione allergica polmonare e malattie autoimmuni”, ha aggiunto.

Il gruppo di esperti, nella valutazione dei rischi, ha inoltre preso in considerazione altri effetti potenzialmente nocivi per la salute dell’apparato riproduttivo, del sistema metabolico e per lo sviluppo dell’organismo.

Un approccio sistematico

Il dr Henk Van Loveren, presidente del gruppo di lavoro dell’EFSA per il la valutazione ex novo del BPA, ha dichiarato: “Per valutare il gran numero di studi pubblicati dal 2013 – data limite per la nostra precedente valutazione del 2015 – abbiamo applicato un approccio sistematico e trasparente. Dapprima abbiamo sviluppato, con l’apporto delle parti interessate e delle autorità competenti degli Stati membri, un protocollo per la selezione e la valutazione di tutte le evidenze.

“I nostri risultati sono il frutto di un intenso processo di valutazione durato diversi anni e che abbiamo portato a termine con i contributi raccolti durante una pubblica consultazione di due mesi avviata nel dicembre 2021”, ha poi aggiunto.

Soglia inferiore di assunzione

Rispetto alla precedente valutazione del 2015, il gruppo di esperti dell’EFSA ha abbassato in modo significativo la soglia giornaliera tollerabile (DGT) del BPA, ovvero la quantità che può essere ingerita quotidianamente per tutta la vita senza rischi sensibili per la salute.

Nel 2015 i nostri esperti avevano stabilito una DGT temporanea a causa degli elementi di incertezza nelle evidenze, sottolineando la necessità di ulteriori dati sugli effetti tossicologici del BPA.

Il riesame ha toccato la maggior parte di tali carenze e i restanti elementi di incertezza sono stati presi in considerazione nello stabilire la nuova DGT, che hanno stabilito in 0,2 nanogrammi (2 miliardesimi di grammo), in sostituzione del precedente livello temporaneo di 4 microgrammi (4 milionesimi di grammo), per chilogrammo di peso corporeo al giorno.

La nuovo DGT è di circa 20 000 volte più bassa.

Esposizione al BPA

Confrontando la nuova DGT con le stime dell’esposizione dei consumatori al BPA tramite l’alimentazione, i nostri esperti hanno concluso che sia l’esposizione media che quella elevata al BPA superavano la nuova DGT per tutte le fasce di età, costituendo così motivo di preoccupazione per la salute.

Sebbene il nostro gruppo di esperti abbia usato per le stime dell’esposizione le valutazione del 2015, ammettiamo che le restrizioni introdotte dai legislatori dell’UE dopo il 2015 su alcuni usi della sostanza possono aver ridotto l’apporto tramite l’alimentazione. Ciò significa che lo scenario che abbiamo configurato è prudenziale.

Diverse variabili possono infatti influenzare il rischio globale per la salute di un individuo, compresi altri fattori di stress sull’organismo, la genetica e la nutrizione.

Rapporti congiunti

Oltre a consultarsi sul progetto di valutazione scientifica, nel 2017 l’EFSA ha tenuto una consultazione pubblica in merito al protocollo che descrive la metodologia proposta.

I nostri scienziati hanno inoltre discusso della metodologia e dei risultati con altri organismi scientifici per chiarire e/o risolvere le differenze emerse, come l’uso di “endpoint intermedi”, ovvero segnali precoci che indichino il potenziale sviluppo di effetti nocivi sulla salute.

In questo contesto abbiamo pubblicato relazioni congiunte che riassumono le discussioni intrattenute con l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) e l’Istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi (BFR).

Discussioni di questo tipo con i nostri partner e le parti interessate aiutano a sviluppare ulteriormente le metodologie di valutazione dei rischi utilizzate per le nostre valutazioni della sicurezza, tenendo conto delle più recenti conoscenze scientifiche e della comprensione dei rischi potenziali.

Prossime tappe

I decisori pubblici dell’UE, vale a dire la Commissione europea e i rappresentanti degli Stati membri, hanno il compito di fissare le soglie quantitative di una sostanza chimica che può trasmigrare dalle confezioni alimentari ai prodotti.

Il parere scientifico dell’EFSA sul BPA fornirà ora gli argomenti da dibattere tra i legislatori dell’UE in ordine alle misure normative appropriate da adottare a tutela dei consumatori.

Fonte: EFSA




Le micro-nanoplastiche come veicoli di Toxoplasma gondii e di altri protozoi nei mari e negli oceani

Sono oramai trascorsi sei anni da quando il Dr James T. Carlton ed i suoi collaboratori descrissero sulla prestigiosa Rivista Science l’inedita dispersione nell’Oceano Pacifico di decine di organismi acquatici, in larga misura invertebrati, per effetto dello tsunami occorso in seguito al sisma del Marzo 2011 lungo le coste orientali giapponesi. Ad amplificare notevolmente tale fenomeno intervennero le micro-nanoplastiche, che operarono in qualità di “zattere” nei confronti dei succitati organismi (1).

Nella complessa ed articolata disamina dell’interazione di questi ultimi con gli innumerevoli frammenti di materiale plastico presenti in mare, particolare attenzione andrebbe prestata ai microorganismi patogeni, numerosi dei quali sarebbero in grado di esercitare un consistente impatto sulla salute e sulla conservazione dei Cetacei (2), sempre più minacciati peraltro dalle attività antropiche.

Un esempio paradigmatico è rappresentato, a tal proposito, da Toxoplasma gondii, un agente protozoario dotato di comprovata capacità zoonosica (3) e la cui infezione sarebbe in grado di determinare la comparsa di gravi ed estese lesioni encefalitiche nei delfini della specie “stenella striata” (Stenella coeruleoalba) – un comune abitante delle acque mediterranee, così come di quelle temperate e tropicali di tutti i mari e gli oceani del pianeta -, con conseguente spiaggiamento e morte degli esemplari colpiti (4). Sebbene vi sia un sostanziale accordo fra i membri della comunità scientifica in merito alla possibilità che un “flusso terra-mare” costituisca il meccanismo biologicamente più plausibile attraverso cui le oocisti di T. gondii riescano a trasferirsi dall’ambiente terrestre a quello marino ed oceanico (analogamente a molti altri microorganismi, protozoari e non, a trasmissione oro-fecale), rimane tuttavia da spiegare come le stesse possano raggiungere ed essere pertanto acquisite dalle stenelle striate, così come da tutte le altre specie cetologiche T. gondii-sensibili che vivono in mare aperto, a fronte della più che comprensibile azione diluente esercitata dal mezzo acquatico nei loro confronti (5).

In altre parole, se appare facile intuire, da un lato, come una specie “costiera” quale il “tursiope” (Tursiops truncatus) – il delfino comunemente ospitato nei delfinari, così come negli oceanari e nei parchi acquatici – possa sviluppare l’infezione da T. gondii, la comprensione di una siffatta evenienza risulta assai meno agevole, dall’altro lato, in presenza di una specie “pelagica” quale S. coeruleoalba. Varie le ipotesi formulate per spiegare tale fenomeno, ivi compresa l’esistenza di un ciclo biologico “marino”, esclusivo o complementare rispetto a quello terrestre di T. gondii (5). A onor del vero, tuttavia, non essendo mai stata dimostrata l’esistenza in natura di cicli vitali del parassita alternativi o comunque differenti da quello terrestre, sarebbe davvero interessante studiare in dettaglio se gli tsunami, gli eventi sismici sottomarini e, più in generale, il moto delle correnti acquatiche possano rendersi responsabili del trasferimento, anche a lunghe distanze, di T. gondii così come di altri microorganismi patogeni a trasmissione oro-fecale. Degna di nota è, in un siffatto contesto, la segnalazione relativa alla presenza in più specie ittiche d’interesse commerciale di T. gondii, che potrebbe esser stato veicolato alle medesime dai frammenti di materiale plastico ingeriti in mare (6). Ciò fa il paio con la recente descrizione, in mare aperto, di T. gondii e di altri due importanti agenti protozoari – Cryptosporidium parvumGiardia enterica -, che sono stati giustappunto rilevati in stretta associazione con microsfere di polietilene e, soprattutto, con microfibre di poliestere (7).

Alla luce di quanto sin qui esposto, mentre il presunto “sinergismo di azione patogena” fra T. gondii e micro-nanoplastiche appare meritevole di ulteriori studi ed approfondimenti, non vi è dubbio al contempo che un approccio “integrato”, basato sul salutare principio/concetto della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente -, rappresenti la conditio sine qua non per investigare al meglio i complessi quanto affascinanti rapporti intercorrenti fra il parassita ed i suoi ospiti nell’ambito delle catene trofiche e degli ecosistemi marini.

Bibliografia di riferimento

1) J.T. Carlton, J.W. Chapman, J.B. Geller, et al. Tsunami-driven rafting: Transoceanic species dispersal and implications for marine biogeography. Science 357, 1402-1406. DOI: 10.1126/science.aao1498 (2017).

2) M.-F. Van Bressem, J.-A. Raga, G. Di Guardo, et al. Emerging infectious diseases in cetaceans worldwide and the possible role of environmental stressors. Dis. Aquat. Organ. 86, 143-157. DOI: 10.3354/dao02101 (2009).

3) J.G. Montoya, O. Liesenfeld. Toxoplasmosis. Lancet 363, 1965-1976. DOI: 10.1016/S0140-6736(04)16412-X (2004).

4) G. Di Guardo, U. Proietto, C.E. Di Francesco, et al. Cerebral toxoplasmosis in striped dolphins (Stenella coeruleoalba) stranded along the Ligurian Sea coast of Italy. Vet. Pathol. 47, 245-253. DOI: 10.1177/0300985809358036 (2010).

5) G. Di Guardo, S. Mazzariol. Toxoplasma gondii: Clues from stranded dolphins. Vet. Pathol. 50, 737. DOI: 10.1177/0300985813486816 (2013).

6) A.M.F. Marino, R.P. Giunta, A. Salvaggio, et al. Toxoplasma gondii in edible fishes captured in the Mediterranean basin. Zoonoses Public Health 66, 826-834 (2019).

7) E. Zhang, M. Kim, L. Rueda, et al. Association of zoonotic protozoan parasites with microplastics in seawater and implications for human and wildlife health. Sci. Rep12, 6532. https://doi.org/10.1038/s41598-022-10485-5 (2022).

 

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

 

 




Microplastiche nei mari: il livello di contaminazione nelle carni di pesce spada e tonno rosso del Mediterraneo

microplastichePer la prima volta, microplastiche, polimeri e additivi sono stati rilevati nel tessuto muscolare dei pesci, proprio la parte che finisce nel piatto dei consumatori.

Le microplastiche sono un serio problema ambientale che sta colpendo gli ecosistemi marini in tutto il mondo. Particelle di dimensioni ridotte, comprese tra 0,1 e 5000 micron, che possono adsorbire sostanze tossiche presenti nell’ambiente circostante rappresentando un’ulteriore via di esposizione alle stesse per la fauna marina. Essendo oramai presenti nella catena alimentare acquatica, i consumatori possono rischiare la loro ingestione. E proprio nel Mediterraneo la contaminazione da plastiche, assieme agli additivi usati per i trattamenti a cui sono sottoposte, è una delle più elevate a livello globale.

Una ricerca condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo in collaborazione con il Croatian Veterinary Institute di Spalato e l’Università Politecnica delle Marche, pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Sea Research, ha permesso ora di rivelare il livello di contaminazione da microplastiche in due specie di pesce comuni nel Mediterraneo: il pesce spada (Xiphias gladius), pescato nel Mare Ionio, e il tonno rosso (Thunnus thynnus), proveniente dall’Adriatico. La particolarità dello studio è che i contaminanti sono stati rilevati anche mediante metodologie mai applicate prima nei muscoli dei pesci, quindi nella parte che effettivamente finisce nei nostri piatti.

“Molti studi precedenti – dice Federica Di Giacinto, ricercatrice del Centro per la Biologia delle acque dell’IZS Teramo – erano incentrati sul contenuto delle sole microplastiche esclusivamente nell’apparato digerente dei pesci. La nostra ricerca, invece, ha potuto evidenziare la contaminazione a livello muscolare non solo da microplastiche, ma anche da polimeri e additivi usati per la loro produzione. Le microplastiche che abbiamo rilevato nei muscoli molto probabilmente sono state ingerite dai pesci e poi sono traslocate dall’apparato gastro-intestinale ai tessuti circostanti”.

Mediante l’utilizzo della stereomicroscopia, della microspettroscopia Raman e della cromatografia liquida con spettrometria di massa, lo studio, condotto con il supporto finanziario dell’Unione Nazionale Cooperative Italiane (UNCI), ha riguardato microplastiche di dimensioni inferiori ai 10 micron e polimeri, come polietilentereftalato (PET) e policarbonato (PC), oltre a pigmenti e additivi come il bisfenolo A (BPA) e l’acido p-ftalico (PTA). Alcune di queste sostanze, ampiamente utilizzate per la produzione di beni di plastica di largo consumo, sono sotto osservazione per valutare se abbiano effetti sulla salute. È il caso del BPA, considerato capace di interferire con la funzionalità del sistema endocrino.

“Questo lavoro – continua Di Giacinto – punta a contribuire a una conoscenza più approfondita di queste particolari categorie di inquinanti, sia dal punto di vista dell’estensione del fenomeno, sia applicando nuove metodologie per la loro quantificazione. I prossimi passi del nostro laboratorio, ora, saranno di valutare quale sia il livello di contaminazione in ulteriori animali acquatici, arrivando ad una valutazione dell’effettiva esposizione alla quale sono esposti i consumatori”.

 Fonte: IZS Teramo



Le nitrosammine negli alimenti destano preoccupazioni per la salute

Sono queste le risultanze della valutazione EFSA sui rischi per la salute pubblica connessi alla presenza di nitrosammine negli alimenti: dieci nitrosammine presenti negli alimenti sono cancerogene (possono provocare il cancro) e genotossiche (possono danneggiare il DNA).

L’EFSA ha consultato i portatori di interesse esterni sul suo progetto di parere e le numerose osservazioni ricevute sono state prese in debita considerazione in fase di redazione conclusiva.

Potenziali rischi per la salute

L’EFSA ha condotto la propria valutazione stimando il danno potenziale causato dalle nitrosammine all’uomo e agli animali e valutando l’esposizione dei consumatori.

Il dr. Dieter Schrenk, presidente del gruppo di esperti scientifici sui contaminanti nella catena alimentare, ha affermato: “La nostra valutazione ha concluso che per tutte le fasce d’età della popolazione dell’UE il livello di esposizione alle nitrosammine negli alimenti desta preoccupazioni per la salute”.

Il dr Schrenk ha poi aggiunto: “Sulla base di studi sugli animali, abbiamo riscontrato l’incidenza dei tumori epatici nei roditori come l’effetto più grave sulla salute”.

“Per garantire un elevato livello di tutela dei consumatori, per la nostra valutazione dei rischi abbiamo prospettato l’ipotesi peggiore: abbiamo ipotizzato che tutte le nitrosammine presenti negli alimenti avessero lo stesso potenziale cancerogeno nell’uomo della più nociva delle nitrosammine, anche se ciò è improbabile”.

Quali sono gli alimenti che contengono nitrosammine?

Le nitrosammine sono state trovate in diversi tipi di prodotti alimentari: prodotti a base di carne, pesce lavorato, cacao, birra e altre bevande alcoliche. Il gruppo alimentare più importante che contribuisce all’esposizione alle nitrosammine è costituito dalla carne e dai prodotti a base di carne.

Le nitrosammine possono essere presenti anche in altri alimenti: le verdure trasformate, i cereali, il latte e i prodotti lattiero-caseari, o gli alimenti fermentati, sottaceto e speziati.

Attualmente ci sono alcune lacune nelle conoscenze circa la presenza di nitrosammine in specifiche categorie di alimenti. Una dieta bilanciata con la più ampia varietà possibile di alimenti potrebbe aiutare i consumatori a ridurre l’assunzione di nitrosammine.

Fonte: EFSA