Le microplastiche sono ovunque: trovate anche nell’olio

microplastichen nemico invisibile ha invaso ormai ogni angolo del pianeta, dall’Artico fino all’Himalaya. Sono le microplastiche, ovvero quelle particelle di materiale plastico con dimensioni comprese tra 5 mm e 0,1 µm. Ci sono poi le nanoplastiche, particelle ancora più piccole (tra 0,1 e 0,001 µm) e per questo ancora più sfuggenti. Oltre all’inquinamento ambientale, a destare preoccupazione sono i danni che le microplastiche possono arrecare alla salute umana: sono state trovate perfino nella placenta e nei testicoli. Un nuovo studio condotto dall’Università di Bologna, pubblicato sulla rivista scientifica Food Chemistry, ha indagato per la prima volta la presenza di microplastiche in diversi oli vegetali – olio extravergine di oliva, olio d’oliva, olio di semi di girasole e olio di semi vari – attualmente in commercio in Italia e in Spagna ed è arrivato a una sconfortante (o forse è meglio dire scontata) conclusione: le microplastiche non risparmiano neanche l’olio.

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Fonte: repubblica.it




I ricercatori hanno trovato PFAS nelle lontre inglesi

 

Un nuovo studio dell’Otter Project dell’Università di Cardiff ha rilevato la presenza di PFAS nelle lontre inglesi, sollevando preoccupazioni su potenziali impatti sulla salute in futuro. La ricerca, intitolata “Persistence of PFOA Pollution at a PTFE Production Site and Occurrence of Replacement PFASs in English Freshwaters Revealed by Sentinel Species, the Eurasian Otter (Lutra lutra)”, è stata pubblicata su Environmental Science and Technology.

Gli scienziati di Cardiff hanno analizzato le lontre di tutto il Regno Unito per monitorare i livelli di PFAS nell’ambiente, al fine di comprendere la concentrazione di queste sostanze chimiche nelle acque dolci del Regno Unito, la loro persistenza nell’ambiente e gli eventuali rischi ecologici e per la salute. I ricercatori erano particolarmente interessati ai livelli di PFAS nelle lontre che vivono vicino a fabbriche che utilizzano PFAS nella loro produzione.

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Fonte: FOSAN




Microplastiche: quante ne mangiamo e quante ne respiriamo?

microplasticheQuali sono i Paesi in cui l’assunzione di microplastiche è più elevata? Come fare a determinarlo? Che la plastica e, quindi, le particelle derivanti dalla sua degradazione (di dimensioni micro e nano) siano ubiquitarie, nel mondo, lo si è capito da tempo. Tuttavia, lo studio appena pubblicato su Environmental Science & Technology dai ricercatori della Cornell University di New York offre uno spaccato globale, analizzando ciò che accade in 109 Paesi (Italia esclusa). E il risultato è che le due principali modalità di assorbimento sono l’ingestione e l’inalazione, e che la concentrazione aumenta in parallelo con gli utilizzi, e con l’assenza di limiti di impiego e regole stringenti per lo smaltimento. In generale il fenomeno è maggiore nelle economie in via di sviluppo. Infatti la rapida industrializzazione nell’Asia orientale e meridionale, ha portato a un aumento del consumo di materiali plastici, della produzione di rifiuti e dell’assorbimento umano di microplastiche.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




Residui di pesticidi negli alimenti: rese note le ultime cifre

Analizzato un ampio numero di campioni

Nel 2022 è stato raccolto nell’Unione europea (UE) un numero senza precedenti di 110 829 campioni di prodotti alimentari, un quarto in più rispetto al 2021. Il 96,3% di essi è risultato nei limiti di legge. Quanto al sottoinsieme di 11 727 campioni analizzati in base allo specifico programma di controllo coordinato dall’UE (EU MACP) si è riscontrato che rientrava nei limiti di legge il 98,4% di essi.

Risultati del programma coordinato dall’UE

Il programma EU MACP analizza campioni prelevati a caso da 12 prodotti alimentari. Per il 2022 si è trattato di mele, fragole, pesche, vino (rosso e bianco), lattughe, cavoli cappucci, pomodori, spinaci, avena in grani, orzo in grani, latte di mucca e grasso di maiale.

Dei campioni analizzati all’interno del programma coordinato:

  • 6 023, ovvero il 51,4%, sono risultati privi di residui quantificabili;
  • 5 512, ovvero il 47%, contenevano uno o più residui in concentrazioni inferiori o pari ai limiti ammessi (noti come livelli massimi di residui o LMR );
  • 192 ovvero il 1,6% conteneva residui superiori ai limiti consentiti.

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Fonte: EFSA




Gli PFAS in pesci e molluschi: occorrono linee guida specifiche

Gli PFAS, o sostanze perfluoroalchiliche, estremamente versatili, usatissimi e quasi indistruttibili, perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti, si trovano in concentrazioni variabili, e non di rado elevate, anche nei pesci, nei molluschi e nei crostacei. Un riscontro che non stupisce, dal momento che gli PFAS sono presenti in tutte le acque del mondo. Eppure questo tipo di contaminazione, oltre ad essere ancora sconosciuta ai più, resta da approfondire, oltre a non esistere linee guida adeguate.

 I pesci del New Hampshire

A dimostrare che una fonte di quantità non irrilevanti di PFAS possono essere i pesci, i crostacei e i molluschi, è uno studio appena pubblicato su Exposure and Healthcondotto dai ricercatori del Darmouth College di Lebanon, in New Hampshire, stato che ha una competenza specifica nel settore. Nella zona, come in tutto il New England, infatti, esistono diverse fabbriche di plastificanti che per anni hanno sversato rifiuti nelle acque dolci e salate. Per questo lì sono stati effettuati alcuni dei primi studi che hanno mostrato, senza possibilità di equivoco, la contaminazione delle acque potabili. Al tempo stesso, il New Hampshire ha una tradizione culinaria incentrata sul pesce, ed è quindi una zona ideale, per studiare l’assunzione regolare di quantità significative di cibo che contiene PFAS.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




I Pfas vengono riemessi nell’aria dalle onde oceaniche

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Stoccolma ha scoperto che i Pfas vengono riemessi nell’aria dalle onde oceaniche con una frequenza maggiore rispetto a quanto si pensasse.

Lo studio, pubblicato su Science Advances, mette in discussione l’idea che mari e oceani diluiscano i PFAS che arrivano dai fiumi, asserendo invece che spingano queste sostanze di nuovo verso riva. I livelli di riemissione dovuti alla risacca, stima lo studio, possono essere paragonabili o superiori a quelli di altre fonti.

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Fonte: fosan.org




Uno studio rivela la presenza pervasiva di Pfas nei MOCA

MocaUn nuovo studio pubblicato su Environmental Science & Technology (ES&T) ha rilevato la presenza in imballaggi alimentari di Pfas che non dovrebbero essere presenti al loro interno.

Il report, che analizza i dati di 47 studi scientifici di diversi Paesi del mondo, denuncia che sono state rinvenute 68 tipologie di Pfas, 61 delle quali non autorizzate per l’utilizzo nelle confezioni alimentari. Nel 72,5% dei casi i Pfas sono stati trovati nella carta e nel cartone, ma sono stati identificati anche all’interno di confezioni in plastica.

7 dei 68 PFAS riscontrati nei contenitori alimentari risultano essere stati inseriti negli elenchi normativi o industriali delle sostanze chimiche specificamente utilizzate nella fase della fabbricazione di quei materiali. Gli altri 61 invece, ovvero il 90% dei Pfas rintracciati, non sono specificatamente menzionati in quelle liste. Alcuni PFAS, invece, sono stati rinvenuti in materiali per il quali non è stato indicato il loro utilizzo (come ad esempio il bisfenolo, rinvenuto in plastica e metalli rivestiti, che è in elenco solo per l’uso nella gomma).

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Fonte: fosan.org




Persistenza dei pericoli microbiologici negli ambienti di produzione e lavorazione di alimenti e mangimi

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha chiesto al Gruppo di Esperti scientifici sui Pericoli Biologici (BIOHAZ) di formulare un parere scientifico sulla persistenza dei pericoli microbiologici negli ambienti di produzione e trasformazione di alimenti e mangimi, esclusa la produzione primaria. Nell’ambito di questo mandato, la “persistenza” microbica è stata definita come la capacità di un determinato organismo di stabilirsi in nicchie (o siti di rifugio) all’interno degli ambienti di produzione e trasformazione di alimenti e mangimi per un lungo periodo, nonostante la frequente applicazione di pulizia e disinfezione.

La persistenza richiede un’esistenza prolungata (che si estende per mesi o anni) di solito con moltiplicazione del microrganismo. Gli ambienti per la produzione di mangimi sono stati limitati agli ambienti degli impianti di produzione e lavorazione di mangimi per animali destinati alla produzione di alimenti.

Gli ambienti di produzione alimentare comprendono quelli in cui gli alimenti di origine animale o non animale sono prodotti o trasformati industrialmente. I settori considerati sono stati: (i) mangimi per la produzione animale, (ii) carne (compresi i macelli e gli impianti di trasformazione), (iii) pesce e frutti di mare, (iv) prodotti lattiero-caseari, (v) uova e ovoprodotti, (vi) frutta e verdura (comprese le erbe aromatiche) e (vii) alimenti a bassa umidità.

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Fonte: Ruminantia




Sicurezza alimentare, un opuscolo informativo sull’avvelenamento da ciguatera nel pesce

Banco di pesceNel 2016 l’EFSA e l’Autorità spagnola per la sicurezza alimentare hanno finanziato il progetto quadriennale EuroCigua per studiare i rischi emergenti per i consumatori derivanti dall’intossicazione da ciguatera nel pesce.

La ciguatera, causata dal consumo di pesci che hanno accumulato ciguatossine nella carne, è il tipo più comune di intossicazione alimentare da biotossine marine, contaminanti chimici prodotti naturalmente da alcuni tipi di alghe e altri microrganismi, che possono entrare nella catena alimentare principalmente attraverso il consumo di pesce e altri frutti di mare.

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Fonte: Ministero della Salute




Listeria Monocytogenes e il ruolo della proteomica: comprendere a fondo un patogeno alimentare

Listeria monocytogenesUna ricerca che approfondisce l’adattamento e il comportamento di un importante patogeno alimentare. L’importanza di avanzate tecniche analitiche per comprendere meglio la virulenza del microrganismo

La proteomica è un settore della biologia molecolare che si focalizza sull’analisi completa delle proteine presenti in una cellula o un microrganismo. Più specificamente, studia il profilo delle proteine, le loro interazioni e funzioni. Una tecnica che ha aperto nuove strade verso la comprensione dei meccanismi molecolari, permettendo agli scienziati di avere uno sguardo più profondo e dettagliato su come gli organismi viventi funzionano e come reagiscono all’ambiente.

Proprio la proteomica è al centro di due lavori scientifici, realizzati dall’Istituto Zooprofilattico di Teramo in collaborazione con l’Università di Teramo, che approfondiscono il ruolo di questa disciplina nella comprensione del comportamento e dell’adattamento di Listeria monocytogenes, un microrganismo ben noto nel mondo della microbiologia e dell’industria alimentare. Listeria rappresenta infatti una continua sfida per i ricercatori data la sua capacità di causare la listeriosi, una malattia grave soprattutto per pazienti immunodepressi, anziani, donne incinte e neonati. A questo bisogna aggiungere la sua diffusione ubiquitaria, in particolare negli ambienti di produzione alimentare, un dato che lo rende un argomento di cruciale importanza nel campo della sicurezza alimentare. La sfida di prevenire la contaminazione alimentare da Listeria monocytogenes non riguarda però solo il microrganismo stesso, ma anche la complessità dei cibi che consumiamo. Gli alimenti sono infatti matrici complesse in cui i batteri possono subire cambiamenti fisiologici e strutturali che non solo permettono loro di resistere ma anche di crescere ed esprimere geni associati a una maggiore virulenza.

La prima ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Foods, ha utilizzato metodi proteomici per analizzare come Listeria reagisce a diverse condizioni di stress, adattandosi a condizioni ambientali avverse come acidità, basse temperature e alte concentrazioni di sale. “Volevamo studiare in dettaglio – spiega Federica D’Onofrio, ricercatrice IZSAM e dottoranda in Scienze degli Alimenti con la professoressa Maria Schirone – come il microrganismo modula la sua espressione proteica in risposta alle situazioni ambientali in cui si trova. Questo ci ha permesso di osservare come alcune proteine, essenziali per la virulenza, vengano prodotte solo in determinate condizioni di stress”.

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Fonte: IZS Teramo