Primo caso di febbre di Oropouche in Italia: una nuova sfida per la sanità pubblica

È stato recentemente diagnosticato in Veneto il primo caso europeo di febbre Oropouche, La febbre di Oropouche, una malattia virale trasmessa da insetti vettori, è endemica in alcune regioni dell’America Latina, ma mai prima d’ora era stata diagnosticata in Italia.

Il paziente, un uomo di 45 anni, con una recente storia di viaggi nella regione tropicale caraibica, ha presentato sintomi influenzali tra cui febbre alta, mal di testa intenso, dolori muscolari e articolari. Il caso è stato confermato dal Dipartimento di Malattie Infettive, Tropicali e Microbiologia dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar di Valpolicella (Verona) e prontamente segnalato alle autorità sanitarie e all’ASL di competenza della Regione Veneto, nonché ai servizi di informazione e monitoraggio internazionali. La diagnosi effettuata nei laboratori BSL3 è stata confermata tramite test di laboratorio specifici, che hanno individuato la presenza del virus Oropouche nel sangue del paziente. Attualmente, il paziente è sotto stretto monitoraggio medico e le sue condizioni sono stabili.

La febbre di Oropouche è causata da un virus del genere Orthobunyavirus, Il virus oropouche è trasmesso all’uomo da insetti mordaci del genere Culicoides e nello specifico da Culicoides paraensis, presente nell’America meridionale e centrale e nei Caraibi.

La trasmissione del virus oropouche avviene in due cicli: selvaggio e urbano-epidemico

Nel ciclo selvaggio, il bacino per il virus Oropouche è la fauna selvatica (primati, bradipi, certi artropodi). Nel ciclo urbano-epidemico, gli esseri umani sono il principale serbatoio e il ciclo di infezione è da uomo a uomo attraverso il Culicoides come vettore.

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Fonte: IZS Teramo




La fenomica del latte: usare le tecnologie dell’infrarosso per valutare lo stato nutrizionale e di salute degli animali

Negli ultimi decenni le Scienze Zootecniche si sono concentrate nel ricercare il perfezionamento delle prestazioni e attitudini produttive degli animali da allevamento. Tuttavia, questa specializzazione ha presentato anche degli effetti negativi sugli animali in alcune fasi della loro vita. Un recente studio ha esaminato come l’analisi a infrarossi del latte possa aiutare a prevenire le problematiche di salute degli animali allevati e migliorarne il benessere e le capacità produttive. Di seguito l’approfondimento.

Negli ultimi decenni, la gestione e le prestazioni produttive del bestiame si sono trasformate e sviluppate drasticamente, soprattutto nel settore dei bovini da latte. Negli ultimi 40 anni la produzione di latte per vacca è più che raddoppiata nelle razze specializzate, come la Holstein, ed è ora circa sei volte superiore a quella di 100 anni fa. Le vacche ad alta produzione oggi possono facilmente fornire 12.000 kg di latte all’anno.

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 Fonte: Assaspa.it



I ricercatori hanno trovato PFAS nelle lontre inglesi

 

Un nuovo studio dell’Otter Project dell’Università di Cardiff ha rilevato la presenza di PFAS nelle lontre inglesi, sollevando preoccupazioni su potenziali impatti sulla salute in futuro. La ricerca, intitolata “Persistence of PFOA Pollution at a PTFE Production Site and Occurrence of Replacement PFASs in English Freshwaters Revealed by Sentinel Species, the Eurasian Otter (Lutra lutra)”, è stata pubblicata su Environmental Science and Technology.

Gli scienziati di Cardiff hanno analizzato le lontre di tutto il Regno Unito per monitorare i livelli di PFAS nell’ambiente, al fine di comprendere la concentrazione di queste sostanze chimiche nelle acque dolci del Regno Unito, la loro persistenza nell’ambiente e gli eventuali rischi ecologici e per la salute. I ricercatori erano particolarmente interessati ai livelli di PFAS nelle lontre che vivono vicino a fabbriche che utilizzano PFAS nella loro produzione.

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Fonte: FOSAN




Protocollo per salmonellosi negli allevamenti di bovine da latte

Il documento è rivolto ai servizi veterinari delle aziende sanitarie locali, ai veterinari che operano nei laboratori diagnostici territoriali degli Istituti Zooprofilattici Sperimentali e ai veterinari liberi professionisti.

La definizione del protocollo è stata possibile grazie al contributo determinante di diverse strutture dell’IZSVe, a partire dal Centro di referenza nazionale per le salmonellosi, insieme alla SCS4 – Epidemiologia, servizi e ricerca in sanità pubblica veterinaria, e alle sezioni diagnostiche dell’IZSVe, in particolare il Laboratorio diagnostica clinica e sierologia di piano (SCT1 – Sezione di Verona) e il Laboratorio di patologia, allevamento e benessere del bovino (SCT3 – Padova, Vicenza e Rovigo).

Il protocollo operativo definisce le azioni da applicare per la gestione dei focolai di salmonellosi bovina sostenuti dai sierotipi considerati di rilievo per la specie (S. Typhimurium, variante monofasica di S. typhimurium, S. Dublin e S. Enteritidis), ed è tuttavia applicabile in larga misura anche a focolai sostenuti da sierotipi diversi di Salmonella, mediante l’applicazione di approcci parzialmente rimodulati rispetto a quanto di seguito indicato.

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Fonte: IZS Venezie




Salute: le zanzare invasive ci sono costate più di 94 mld

Tra il 1975 e il 2020, i costi totali dovuti alle zanzare invasive, come Aedes a Egypti e Aedes albopictus, vettori della febbre dengue, della chikugunya e del virus Zika, ammontano a circa 94,7 miliardi di dollari. Lo rivela uno studio internazionale condotto da scienziati di IRD, CNRS e MNHN. Sebbene i costi associati alle perdite e ai danni causati da queste zanzare e alle malattie che trasmettono siano sottostimati perché raramente quantificati o riportati in molti paesi, sono letteralmente esplosi a partire dai primi anni 2000. Allo stesso tempo, gli investimenti nella gestione e nella prevenzione di queste malattie sono rimasti stabili, rappresentando solo una frazione dei costi totali. I benefici attesi dall’attuazione di strategie di prevenzione efficaci e sostenibili sono enormi. Utilizzando un set di dati e una tipologia di costi specifici associati a danni e perdite, quali costi medici diretti, definiti come spese relative alla diagnosi, al ricovero ospedaliero, all’ospedalizzazione, ai casi ambulatoriali, all’assistenza al paziente e al trattamento della malattia, sia a carico dei pazienti che degli operatori sanitari, costi diretti non medici, che riguardano altre spese relative alla malattia e costi indiretti, causati da dengue, chikungunya e Zika, lo studio rappresenta la più recente, completa, standardizzata, solida e accurata compilazione dei costi associati alle specie invasive di Aedes e alle malattie trasmesse da Aedes, riportati a livello mondiale tra il 1975 e il 2020. La ricerca include 166 Paesi e territori per un periodo di 45 anni. Nonostante il costo totale cumulativo delle zanzare Aedes e delle malattie che veicolano, per il periodo compreso tra il 1975 e il 2020, sia stimato almeno a 94,7 miliardi di dollari, o a un costo medio annuo di 3,29 miliardi di dollari, con un picco di 20,9 miliardi di dollari nel 2013, cifra considerata fortemente sottostimata, in quanto si basa esclusivamente sui costi effettivi riportati nella letteratura scientifica. I ricercatori hanno dimostrato che, come l’incidenza di queste malattie, questi costi sono aumentati massicciamente negli ultimi tre decenni, con una stima di 14 volte nel periodo successivo alla comparsa di Zika e chikungunya. I costi riportati sono principalmente legati alle spese mediche dirette dovute alla dengue trasmessa dall’Aedes aegypti, seguite da perdite e costi indiretti, che sono in gran parte assorbiti dagli individui o dalla comunità.

Lo studio mostra anche che i costi sono più elevati nelle regioni in cui sono presenti entrambe le specie di Aedes, come le Americhe e l’Asia, piuttosto che nelle regioni in cui si trovano solo Aedes aegypti o Aedes albopictus. Mentre i costi delle perdite e dei danni causati da queste zanzare e dalle malattie sono aumentati considerevolmente negli ultimi decenni, gli investimenti nella prevenzione e nella gestione di questo rischio sanitario emergente, attraverso monitoraggio, controllo dei vettori e altre azioni preventive, compreso lo sviluppo di vaccini, non sono stati incentivati nello stesso periodo. Sono rimasti costantemente inferiori ai costi dei danni, fino a dieci volte. Questo studio evidenzia il sottofinanziamento cronico del controllo dei vettori, identificato come un fattore che favorisce la dispersione dell’Aedes e la trasmissione della malattia. Gli autori suggeriscono che investimenti mirati nello sviluppo e nell’implementazione di azioni preventive efficaci e sostenibili dovrebbero ridurre significativamente questi impatti economici e sono necessari per gestire i rischi sanitari associati alle zanzare Aedes nel lungo termine. L’analisi dei costi sostenuti dalle zanzare Aedes e dai virus che trasmettono evidenzia la necessità di attuare strategie di gestione preventiva dei rischi sanitari che esse rappresentano. Lo spettro dei costi in gioco e l’identificazione dei vari soggetti direttamente coinvolti dovrebbero consentire di mobilitare tutte le parti interessate verso un obiettivo comune di gestione sostenibile e integrata del rischio vettoriale, come raccomandato dagli organismi internazionali. Studi che ponderino il rapporto tra costo ed efficacia, abbinati ad analisi di accettabilità sociale dovrebbero aiutare a guidare le decisioni per combinare i metodi e gli strumenti più adatti al contesto locale. Gli autori sottolineano che solo un cambiamento della società e una collaborazione internazionale altamente impegnata apriranno la strada all’attuazione di azioni preventive volte a limitare la diffusione delle zanzare Aedes invasive e delle malattie che trasmettono in tutto il mondo. Questo studio rappresenta un’opportunità per contribuire alla salvaguardia della salute globale e alla riduzione delle disuguaglianze sanitarie. Gli autori raccomandano inoltre di intensificare gli sforzi per gestire i rischi associati ad altre specie esotiche invasive e alle malattie emergenti.

Fonte: AGI




Influenza aviaria da virus A(H5N1): Siamo pronti a fronteggiare una nuova pandemia?

Fra le varie motivazioni che sono alla base del fondato allarme suscitato dal virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (highly pathogenic avian influenza, HPAI) A(H5N1), con particolare riferimento al clade 2.3.4.4b, possiamo annoverare lo spiccato neurotropismo e l’elevata neuropatogenicità dello stesso nei confronti di numerose specie di uccelli e di mammiferi domestici e selvatici, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, ivi compresi i Pinnipedi e i Cetacei, nonché la già pluriminacciata popolazione di orsi polari (Ursus maritimus), con un caso accertato lo scorso Gennaio in Alaska (https://www.nytimes.com/2024/01/03/science/bird-flu-polar-bears.html). Ciò appare ulteriormente giustificato dalla comprovata suscettibilità dei bovini nei confronti di tale infezione, come in maniera oltremodo eloquente testimoniano i numerosi casi recentemente insorti nella popolazione bovina statunitense di ben nove Stati, primo fra tutti il Texas (7), ove un allevatore ha sviluppato una congiuntivite bilaterale insorta dopo il contatto con un capo infetto (8), cui ha fatto seguito un analogo episodio di malattia oculare riscontrato in un allevatore del Michigan (https://www.nytimes.com/2024/05/22/health/h5n1-bird-flu-dairy.html). Degno di particolare menzione risulta, in un siffatto contesto, anche il parallelo riscontro del virus A(H5N1) nelle acque reflue di più città texane (9) – come già segnalato in precedenza sia per il poliovirus sia per il betacoronavirus SARS-CoV-2 (10) -, a fronte di una presunta origine del medesimo da una matrice avicola o bovina, se non addirittura umana (9).

Per quanto specificamente attiene alla sorveglianza epidemiologica dell’infezione da virus A(H5N1) nella popolazione bovina statunitense e, più in generale, in quella di tutti gli altri Paesi, un serio ostacolo è rappresentato dalle manifestazioni cliniche paucisintomatiche con cui la stessa generalmente evolve nella specie in esame, con il conseguente rischio di una più o meno marcata sottostima dei casi d’infezione effettivamente presenti (11). Ciononostante, mentre si assisterebbe da un lato ad una consistente eliminazione del virus attraverso il latte – fattispecie quest’ultima che richiama ad un caloroso invito a consumare esclusivamente latte pastorizzato (il processo di pastorizzazione, è bene ricordarlo, sarebbe in grado di inattivare sia questo che molti altri agenti microbici, virali e non) -, l’epitelio tubulo-alveolare della ghiandola mammaria bovina albergherebbe al proprio interno, dall’altro lato, un’elevata densità di recettori nei confronti del virus A(H5N1) (11,12). A tal proposito, la coesistenza a livello dell’epitelio ghiandolare mammario dei bovini di un’elevata concentrazione di recettori specifici sia per i virus influenzali aviari (sialic acid, SA-alfa 2-3) sia per quelli umani (SA-alfa 2-6) – a differenza di quanto osservato in ambito respiratorio e cerebrale, ove tali recettori sarebbero presenti in numero decisamente inferiore, se non addirittura assenti – qualificherebbe la specie bovina, secondo alcuni studiosi, quale ulteriore “mixing vessel” in grado di consentire un “rimescolamento genetico” fra virus di origine aviare ed umana, in stretta analogia con il comprovato ruolo notoriamente svolto in tal senso dai suini (12). Ciò potrebbe contribuire, unitamente alle succitate dinamiche evolutive progressivamente assunte dall’infezione da virus A(H5N1), ad un ulteriore affinamento della “fitness” virale, con conseguente acquisizione ad opera dello stesso della capacità di trasmettersi facilmente da uomo a uomo. Per quanto sia attualmente ben lungi dall’essere comprovata, una siffatta evenienza appare tuttavia oltremodo plausibile, vista e considerata l’elevata propensione dei virus influenzali di soggiacere a mutazioni del proprio “make-up” genetico attraverso i ben noti fenomeni di riassortimento/ricombinazione genomica che li contraddistinguono (6).

La possibilità di una trasmissione interumana efficiente risulta ulteriormente supportata dalla comprovata diffusione dell’agente vireale in numerose specie  di uccelli e di mammiferi, domestici e selvatici, terrestri ed acquatici, fra cui si annoverano più specie di Pinnipedi e di Cetacei.

In epoca recente, infatti, un ceppo di HPAI virus A(H5N1) ha causato una significativa mortalità fra gli uccelli selvatici e i mammiferi marini lungo le coste di numerosi Paesi del Sud America, ove si calcola che almeno  30.000 esemplari di leoni marini (Otaria byronia) sarebbero deceduti. Nonostante i casi umani di malattia  siano stati numericamente  limitati, seppur variabili nelle manifestazioni cliniche,  il rischio zoonosico associato  a tutti i ceppi di virus A(H5N1) e ad altri sottotipi non può essere sottovalutato, come peraltro testimonierebbe anche il recente caso d’infezione ad esito fatale da HPAI virus A(H5N2) recentemente segnalato in un paziente messicano che non avrebbe tuttavia riferito una pregressa esposizione a volatili infetti (https://www.who.int/emergencies/disease-outbreak-news/item/2024-DON520).

Risulta cruciale,  pertanto, diagnosticare tempestivamente e  notificare  in modo rapido tutti i casi sospetti, insieme all’adozione di rigorose misure di biosicurezza, al fine di sviluppare strategie efficaci di contenimento e prevenzione, proteggendo il  benessere degli animali e degli esseri umani e tutelando la  biodiversità.

Le linee guida attuali, riassunte nel documento “Practical Guide for Authorized Field Responders to HPAI Outbreaks in Marine Mammals, with a Focus on Biosecurity, Sample Collection for A(H5N1) Virus Detection and Carcass Disposal” (World Organization for Animal Health, WOAH),   sono state formulate da un panel di esperti internazionali con il Centro di Collaborazione per la Salute dei Mammiferi Marini (WOAH), in risposta agli ultimi episodi di malattia che hanno coinvolto le popolazioni di mammiferi marini lungo le coste del Sud America, e forniscono indicazioni importanti per la progettazione di strategie preventive e di gestione di eventuali focolai.

Per quanto riguarda l’Europa,  fra  Dicembre 2022 e Marzo 2023 si è registrata  un’ulteriore diffusione dell’agente patogeno ai mammiferi marini, con un caso di  meningoencefalite da virus A(H5N1) in una focena (Phocoena phocoena) rinvenuta spiaggiata lungo le coste svedesi (4), in stretta connessione epidemiologica  con una serie di casi accertati nei volatili selvatici. Il rischio per la popolazione generale in Europa è considerato basso, ma si presume che lo stesso possa essere di grado più elevato in categorie di individui professionalmente esposte al virus.

In considerazione di quanto sopra esposto, si ritiene opportuno sottolineare  che adeguati sforzi andrebbero profusi, anche  sulla scia delle lezioni apprese dalla drammatica pandemia da CoViD-19, al precipuo fine di giungere adeguatamente “preparati e pronti “preparedness and readiness“, queste le parole-chiave, giustappunto) ad un’eventuale emergenza pandemica da virus dell’influenza aviaria A(H5N1), in una salutare ottica di collaborazione multidisciplinare ed intersettoriale fra Medicina Umana e Medicina Veterinaria, diffusamente permeata dal concetto/principio della “One Health“, la salute unica di uomo, animali ed ambiente!

 

Bibliografia citata

1) Ariyama, N., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Clade 2.3.4.4b Virus in Wild Birds, Chile. Emerg. Infect. Dis. 29:1842-1845. doi: 10.3201/eid2909.230067.

2) Puryear, W., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus Outbreak in New England Seals, United States. Emerg. Infect. Dis. 29:786-791. doi: 10.3201/eid2904.221538.

3) Gamarra-Toledo, V., et al. (2023). Mass Mortality of Sea Lions Caused by Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus. Emerg. Infect. Dis. 29:2553-2556. doi: 10.3201/eid2912.230192.

4) Thorsson, E., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus in a Harbor Porpoise, Sweden. Emerg. Infect. Dis. 29:852-855. doi: 10.3201/eid2904.221426.

5) Murawski, A., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus in a common bottlenose dolphin (Tursiops truncatus) in Florida. Commun. Biol. 7:476. doi: 10.1038/s42003-024-06.

6) Di Guardo, G., Roperto S. (2024). AH5N1 avian influenza, a new pandemic behind the corner? (Rapid Response). BMJ https://www.bmj.com/content/380/bmj.p510/rr.

7) Reardon, S. (2024). Bird flu in US cows: Where will it end? Nature

https://www.nature.com/articles/d41586-024-01333-9.

8) Uyeki, T.M., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus infection in a dairy farm worker. N. Engl. J. Med.

doi:10.1056/NEJMc2405371.

9) Tisza, M.J., et al. (2024). Virome sequencing identifies H5N1 avian influenza in wastewater from nine cities. MedRxiv preprint 2024.05.10. doi:https://doi.org/10.1101/2024.05.10.24307179.

10) Clark, J.R., et al. (2023). Wastewater pandemic preparedness: Toward an end-to-end pathogen monitoring program. Front. Public Health 11:1137881. doi:10.3389/fpubh.2023.1137881.

11) Gerhard, D. (2024). Deciphering the unusual pattern of bird flu symptoms in cows. The Scientist Magazine

https://www.the-scientist.com/deciphering-the-unusual-pattern-of-bird-flu-symptoms-in-cows-71850.

12) Kristensen, C., et al. (2024). The avian and human influenza A virus receptors sialic acid (SA)-α2,3 and SA-α2,6 are widely expressed in the bovine mammary gland. BioRxiv preprint 2024.05.03.592326.

 

Cristina Casalone (1), Giovanni Di Guardo (2)

1) DVM, Dirigente Veterinario presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Torino

2) DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Stanno aumentando anche le zecche

È il periodo dell’anno in cui tante persone fanno escursioni sui sentieri di montagna indossando pantaloni corti: ma passeggiando nei boschi e dove c’è l’erba alta si può rischiare di essere morsi da una zecca dei boschi, cosa che può comportare dei rischi. Questi animali infatti possono trasmettere due malattie pericolose per le persone, la borreliosi di Lyme e l’encefalite da zecche, presenti in Italia dalla metà degli anni Ottanta e dal 1994 rispettivamente.

 In Europa i casi di contagio registrati sono in aumento da anni e si ritiene che c’entri il cambiamento climatico. Le temperature più alte allungano il periodo di attività annuale delle zecche e favoriscono la loro proliferazione e la loro diffusione territoriale: in alta montagna fa troppo freddo, ma si trovano anche tra i 1.200-1.400 metri di altitudine. Sono quindi cresciute le popolazioni di questi animali e con esse le probabilità di essere morsi da individui vettori dei batteri che causano la malattia di Lyme o del virus dell’encefalite. Ci sono comunque varie precauzioni per evitare di essere morsi, e nel caso dell’encefalite esiste anche un vaccino, che è consigliato a chi è più esposto al rischio di incontrare zecche ed è gratuito per i residenti in aree particolarmente interessate dalla loro presenza.

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Fonte: ilpost.it




Chi ha paura dell’influenza aviare?

Ha sollevato molte preoccupazioni la recente decisione dell’Autorità europea per le emergenze sanitarie, (Hera, Health Emergency Preparedness and Response Authority) di siglare un contratto per l’acquisto di 665mila dosi di vaccino contro l’influenza aviare.

Vaccini non destinati alla protezione degli animali, ma da utilizzare in campo umano.

Perché l’influenza aviare, quando sostenuta da ceppi ad alta patogenicità (HPAI), può trasferirsi ad altri animali, come cani, cavalli e anche all’uomo.

Un contagio che avviene però raramente e interessa solo quanti sono a stretto contatto con gli animali ammalati.

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Fonte: Agronotizie.it

 




Un’etichettatura come il nutri-score per benessere animale

muccaDiversi studi lo confermano: i consumatori europei vogliono che gli animali da allevamento siano trattati meglio possibile, e che le confezioni rechino in etichetta informazioni specifiche. Secondo un sondaggio effettuato dall’organizzazione di consumatori europei BEUC, reso noto a inizio 2024, per esempio, oltre il 90% dei cittadini supporterebbe nuove leggi finalizzate a migliorare il benessere animale. E ora la Francia, attraverso la sua agenzia per la sicurezza alimentare ANSES, fa un passo in questa direzione, pubblicando le linee guida per una sorta di di Nutri-Score dedicato, con lettere dalla A alla E, e colori dal verde all’arancio.

 Un’etichetta complessa

L’idea è quella di un’indicazione il più possibile completa, e cioè che non tenga conto, come accade ora nella maggior parte dei casi commerciali, solo del sistema di allevamento (con diciture che sottolineano: a terra, all’aria aperta e così via). In concreto, ciò significa valutare le situazioni nella loro complessità, attraverso 14 parametri in sei ambiti per le tre fasi fondamentali (allevamento, trasporto e macellazione) della vita degli animali. Il tutto alla luce di ciò che dicono gli studi scientifici, e avendo sempre presente la definizione di benessere data dalla stessa agenzia nel 2018: “Il benessere di un animale è lo stato mentale e fisico positivo legato alla soddisfazione dei suoi bisogni fisiologici e comportamentali, nonché delle sue aspettative. Questo stato varia a seconda della percezione che l’animale ha della situazione.”.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




Cambiamento climatico, Ecdc: “Con la globalizzazione in Europa crescono le infezioni veicolate dalle zanzare”

Con il climate change e la globalizzazione, in Europa crescono le infezioni veicolate dalle zanzare. “Gli ultimi dati di Unione europea/Spazio economico europeo mostrano una continua tendenza al rialzo per i casi di Dengue importati”, ma anche “un numero crescente di focolai locali di West Nile e Dengue”, comunica l’Ecdc, Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Con l’estate alle porte suona chiaro il monito di Andrea Ammon, direttrice uscente dell’agenzia: “In Europa stiamo già osservando come il cambiamento climatico stia creando condizioni più favorevoli alla diffusione di zanzare in aree precedentemente non colpite, con più persone infettate da malattie come la Dengue. E l’aumento dei viaggi internazionali dai Paesi dove la Dengue è endemica – avverte – accrescerà il rischio di casi importati e, inevitabilmente, anche quello di epidemie locali. Le misure di protezione personale combinate con interventi per il controllo degli insetti vettori, l’individuazione precoce dei casi, la sorveglianza tempestiva, ulteriori attività di ricerca e di sensibilizzazione – raccomanda Ammon – sono fondamentali nelle aree d’Europa più a rischio”.

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Fonte: Salute e Informazione