Africa: genetica zanzare spiega perchè virus Zika poco diffuso

C’entrano anche le zanzare se in Africa le epidemie del virus Zika sono rare. Un equilibrio che tuttavia potrebbe essee alterato dai cambiamenti climatici. Uno studio dell’High Meadows Environmental Institute (HMEI) presso la Princeton University, l’Institut Pasteur e della University of California, San Diego (US), pubblicato su The Lancet Planetary Health, dimostrerebbe che i bassi tassi correlati alla diffusione del virus Zika, responsabile di difetti alla nascita e di devastanti epidemie nelle Americhe dal 2015 al 2016, possa dipendere dalla composizione genetica delle zanzare autoctone africane. “Esistono due specie di zanzara che diffondono Zika”, dichiara Jamie Caldwell, Associate Research Scholar presso l’HMEI, “ciascuna con tipiche preferenze alimentari e capacità di trasmissione della malattia. Questa differenza genetica potrebbe spiegare perché Zika ha ampiamente risparmiato l’Africa, continente in cui il virus è stato originariamente scoperto, nonostante la presenza di grandi popolazioni di zanzare e le condizioni climatiche favorevoli alla loro attività”. In particolare la forma specializzata umana preferisce pungere gli esseri umani ed ha tendenza a vivere in aree urbane densamente popolate.

Al contrario, la forma ancestrale africana che domina in Africa, è “generalista” e si nutre sia di esseri umani che di animali e proprio la dieta mista ridurrebbe le possibilità che una zanzara infettiva punga un essere umano. Inoltre, la forma ancestrale africana è meno efficace nell’acquisire e trasmettere Zika rispetto alle quelle specializzate umane, costituendo una barriera naturale alla diffusione del virus nel continente africano. Sebbene entrambe le forme di zanzare vivano in Africa, la diversità delle popolazioni di zanzare spiegherebbe la variazione del carico di Zika in Africa, o quale altra ipotesi il contenimento epidemico sul territorio potrebbe dipendere dalla temperatura locale: l’Africa subsahariana ha il clima ideale per la trasmissione del virus Zika, mentre aree con temperature troppo calde o fredde potrebbero limitare la diffusione del virus. Il clima è infatti considerato un “trigger”, cioè un fattore stimolante importante, anche per la distribuzione di altre malattie correlate alle stesse specie di zanzare, come la dengue e la febbre gialla, e in grado di influenzare molti aspetti della trasmissione virale, come la frequenza con cui le zanzare pungono o la velocità con cui si sviluppano in adulti che prediligono gli esseri umani.

La creazione di modelli per studiare gli effetti genetici sulle preferenze di puntura delle zanzare e sulla capacità di diffondere il virus, così come per comprendere il ruolo della temperatura nell’influenzare lo sviluppo, la sopravvivenza e la capacità di trasmissione delle zanzare, ha permesso ai ricercatori di rilevare l’importanza della componente genetica della popolazione di zanzare con un ruolo di maggior peso rispetto al clima. Ciò avrebbe permesso di correlare la proporzione di zanzare specializzate umane in diverse popolazioni in Africa al carico del virus Zika.

Poiché il clima gioca comunque un ruolo importante nel processo di trasmissione, le attuali variazioni climatiche, come anche la rapida urbanizzazione, potrebbero rendere le città africane più vulnerabili alle epidemie del virus Zika nel prossimo futuro. I ricercatori hanno stimato che su un totale di 59 città africane considerate, con una densità di popolazione superiore a 1 milione, 23 città, pari al 39%, rispondano alle condizioni favorenti per la diffusione di un’epidemia di Zika. Se le attuali proiezioni sul clima e sulla crescita della popolazione e gli effetti previsti sulle zanzare si rivelassero accurati, altre 22 città diventeranno luoghi adatti alla contaminazione di Zika, portando a 76% le città africane più popolose. “La nostra ricerca sottolinea l’urgente necessità di sistemi di sorveglianza delle zanzare, soprattutto nelle città con popolazioni in rapida crescita dove anche il cambiamento climatico potrebbe alterare le dinamiche della malattia e sulla diffusione globale di Zika in modi inaspettati “, ha concluso il Noah Rose, coautore dello studio e professore associato presso l’Università della California, San Diego.

 

Fonte: AGI




Malattia X da causa X in Congo, la storia si ripete!

La “nuova” malattia insorta nella Repubblica Democratica del Congo, già messa a dura prova dall’epidemia di “Monkeypox”, avrebbe sin qui provocato almeno 450 casi e oltre 30 decessi, soprattutto fra i bambini al di sotto dei 5 anni.

A dispetto della recentissima notizia relativa alla presenza di una “coinfezione” da Plasmodium falciparum/vivax/malariae – agenti della malaria, malattia endemica nel Continente Africano – nell’80% dei pazienti colpiti dalla “nuova” malattia congolese, fattispecie quest’ultima che renderebbe oltremodo di plausibile e giustificata la frequente coesistenza di quadri anemici negli stessi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e le più importanti Istituzioni planetarie coinvolte nella lotta, nel controllo e nella profilassi delle malattie infettive (quali i prestigiosi “Centers for Disease Control and Prevention”/CDC di Atlanta, negli USA) brancolano ancora nel buio.

A tal proposito, infatti, andrebbe parimenti sottolineato che i succitati quadri anemici si rinvenirebbero comunemente associati ad altre manifestazioni cliniche comprendenti tosse, disturbi respiratori, cefalea ed ipertermia febbrile, elementi dai quali trarrebbe sostegno l’ipotesi di un coinvolgimento di uno o più patogeni respiratori, ai quali potrebbe essere altresì ascritto il ruolo di agente/agenti primario/primari.

Mutatis mutandis, ben prima che il virus responsabile dell’AIDS (Human Immunodeficiency Virus/HIV) venisse contemporaneamente e definitivamente identificato da Luc Montagnier (in Francia) e da Robert Gallo (in USA) nel lontano 1983, i sospetti iniziali si erano indirizzati, per oltre due anni, su Pneumocystis carinii (successivamente ribattezzato P. jirovecii), un protozoo di frequente riscontro nei pazienti affetti da AIDS e che “col senno di poi” avrebbe rappresentato la “punta dell’iceberg” dell’infezione da HIV, costituendo al tempo stesso uno degli svariati agenti opportunisti responsabili di infezioni secondarie in tali individui.

In effetti, si potrebbero citare molteplici esempi di infezioni secondarie sostenute da protozoi sia in persone che in animali primariamente infetti ad opera di agenti immunodeprimenti/immunodepressivi, virali e non, quali Toxoplasma gondii sempre in pazienti con AIDS nonché in cani affetti da cimurro (malattia causata da “Canine Distemper Virus”/CDV, un Morbillivirus) e in delfini con infezione da “Cetacean Morbillivirus” (CeMV, un altro Morbillivirus).

E, poiché di agenti protozoari anche nel caso di Plasmodium falciparum, P. vivax e P. malariae si tratta, l’ipotesi di un coinvolgimento secondario degli stessi nell’eziologia della misteriosa malattia congolese potrebbe risultare plausibile, tanto più in ragione del fatto che i disturbi respiratori osservati nei bambini affetti da siffatta “sindrome X” non rientrerebbero fra i reperti clinico-sintomatologici tipici della malaria.

Se poi andiamo a scavare, neppure più di tanto, nell’affascinante storia delle malattie infettive, fatto salvo il succitato eloquente esempio dell’AIDS, ci accorgiamo che l’identificazione di SARS-CoV, il betacoronavirus responsabile della SARS – malattia riconosciuta per la prima volta nel 2002 dal medico italiano Carlo Urbani, poi deceduto a causa della stessa – è stata preceduta dall’attribuzione, ad opera di ricercatori cinesi, di una responsabilità causale non gia’ ad un agente virale, ma bensi’ a batteri del genere Chlamydia.

Nel mondo animale poi, tanto per citare un ulteriore, eloquente esempio, prima che si addivenisse alla scoperta di una serie di nuovi membri del genere Morbillivirus quali responsabili di devastanti epidemie fra i mammiferi marini (Pinnipedi e Cetacei), la cui salute e conservazione appaiono sempre più minacciate per mano dell’uomo, altri agenti erano stati indiziati quali noxae causali, primo fra tutti Herpesvirus, rivelatosi in seguito un patogeno frequentemente coinvolto in infezioni secondarie. Illuminanti esempi di questo tipo non mancano neppure tra gli ospiti animali invertebrati, come chiaramente ci mostrano i ripetuti episodi di mortalità collettiva che in anni recenti hanno interessato le popolazioni di nacchere (Pinna nobilis) in più aree del Mediterraneo. Si tratta del più grande mollusco bivalve lamellibranco presente nella regione, i cui eventi di mortalità collettiva erano stati ricondotti all’azione di un protozoo (Haplosporidium pinnae) e di batteri (Mycobacterium sherrisii, Vibrio mediterranei) prima che si addivenisse a definirne l’eziologia primaria, ascrivibile ad un piccolo virus a RNA facente parte dell’ordine Picornavirales, rispetto al quale il parassita e i due batteri anzidetti andrebbero considerati come agenti opportunisti d’irruzione secondaria.

Alla luce di quanto sopra, verrebbe da dire che la “malattia X” recentemente identificata in Congo non rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui l’identificazione certa di qualsivoglia agente causale di qualsivoglia nuova malattia infettiva (e non) sia anticipata, giocoforza, da “errori” grazie ai quali l’accertamento della responsabilità eziologica primaria emergera’ a tempo debito e a coronamento degli sforzi profusi dalla Comunità Scientifica, in una sana ottica di collaborazione intersettoriale e multidisciplinare e, nondimeno, nel segno della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Historia Magistra Vitae!

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

 




PSA: I veri esperti non si limitano a seguire le raccomandazioni, le anticipano

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato di recente un ampio rapporto scientifico dedicato alla Peste Suina Africana. Il documento analizza i principali fattori di rischio e quelli di prevenzione, offrendo una panoramica sulle misure più efficaci per contenere la malattia. Questo lavoro si basa su un’approfondita revisione della letteratura scientifica e su uno studio caso-controllo specifico, fornendo così una base solida per affrontare il problema.

L’EFSA e la Peste Suina Africana: perché questo rapporto è importante

L’EFSA riveste un ruolo cruciale nella tutela della salute delle piante, degli animali e dei consumatori nell’Unione Europea. La sua importanza non deriva solo dal prestigio istituzionale, ma soprattutto dal rigore scientifico con cui affronta questioni complesse. Quando l’EFSA esprime un parere, lo fa attraverso un’analisi approfondita delle evidenze scientifiche disponibili, avvalendosi di team multidisciplinari composti da esperti di fama internazionale.Iin questo caso il rapporto è stato redatto da un gruppo di undici esperti di diverse nazionalità. Le sue valutazioni non solo guidano le politiche e le normative europee, ma costituiscono anche un punto di riferimento globale per chiunque operi in ambiti legati all’agricoltura, alla sicurezza alimentare e alla gestione ambientale.

La Peste Suina Africana (PSA) rappresenta per l’Italia non una semplice emergenza sanitaria, ma una vera e propria sciagura, capace di colpire il cuore pulsante di uno dei settori più importanti del nostro Paese, ovvero l’agroalimentare. La PSA, inoltre, è una malattia che provoca enormi sofferenze negli animali infetti, con febbre, emorragie interne ed esterne e difficoltà respiratorie ed ha un tasso di mortalità estremamente elevato. Questo virus, spietato nella sua semplicità e devastante nei suoi effetti, non conosce antidoti: non esiste cura e non esiste neppure vaccino. L’unica arma, e purtroppo una delle più difficili da impiegare, è la prevenzione.
Il problema delle misure di profilassi è che sembrano inutili quando funzionano bene, ma la loro importanza diventa evidente quando non vengono applicate. E parlando di prevenzione, abbiamo trovato il nuovo rapporto scientifico degli esperti EFSA particolarmente interessante, in quanto formula precise raccomandazioni su questioni di grande importanza pratica, dalle recinzioni per limitare la diffusione della malattia al possibile utilizzo di vaccini che abbiano un effetto contraccettivo e conseguentemente capaci di ridurre la popolazione dei cinghiali.

Ma vorremmo soffermarci su una questione cruciale e controversa sulla quale EFSA si è espressa, relativa ai fattori di rischio di introduzione della PSA negli allevamenti suinicoli nel corso dell’estate, e che i dati emersi anche negli ultimi mesi indicano chiaramente essere della massima importanza, almeno nell’Italia del Nord: su 40 focolai verificatisi nei suini domestici nel 2023 e nel 2024 in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, 38 sono stati confermati nel periodo compreso tra la fine di luglio e metà settembre. Abbiamo assistito, cioè, ad un picco epidemico stagionale fortissimo, con il 95% dei focolai concentrati in soli due mesi. Un dato che suggerisce che esistano uno o più fattori di rischio specifici alla base della introduzione del virus negli allevamenti in piena estate (si consideri anche che la data di introduzione del virus in un allevamento è in generale precedente alla conferma del focolaio di almeno un paio di settimane, corrispondenti al periodo incubazione e ai tempi necessari alla successiva conferma della malattia: questo significa che i mesi di luglio e agosto sono quelli in cui sussiste in Italia settentrionale il massimo rischio di PSA per gli allevamenti). Fattori di rischio che, evidentemente, non sono presenti o sono comunque molto meno importanti nelle altre stagioni dell’anno.

 

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Encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE): il rapporto EFSA sulla situazione nell’UE

La presente relazione presenta i risultati della sorveglianza sulle encefalopatie spongiformi trasmissibili nei bovini, negli ovini, nei caprini, nei cervidi e in altre specie e della genotipizzazione negli ovini e nei caprini, effettuata nel 2023 da 27 Stati membri (SM, UE-27), dal Regno Unito (rispetto all’Irlanda del Nord (XI)) e da altri otto paesi dichiaranti non appartenenti all’UE: Bosnia-Erzegovina, Islanda, Montenegro, Macedonia del Nord, Norvegia, Serbia, Svizzera (i dati comunicati dalla Svizzera comprendono quelli del Liechtenstein) e Turchia.

In totale, 948 165 bovini sono stati sottoposti a test nell’UE-27 e nell’UE XI (-3 % rispetto al 2022), con cinque casi atipici di BSE segnalati (quattro di tipo H: due in Spagna, uno in Francia e uno in Irlanda; un tipo L nei Paesi Bassi); e 46.096 bovini da otto paesi non UE dichiaranti con due casi atipici di BSE segnalati dalla Svizzera. Altri tre casi atipici di BSE sono stati segnalati da Regno Unito (1), Stati Uniti (1) e Brasile (1). In totale, 284.686 ovini e 102.646 caprini sono stati sottoposti a test nell’UE-27 e nell’UE XI (rispettivamente -3,5 % e -5,9 %, rispetto al 2022).

Negli altri paesi dichiaranti non appartenenti all’UE sono stati sottoposti a test 26.047 ovini e 589 caprini. Negli ovini sono stati segnalati 538 casi di scrapie da 14 SM e XI: 462 casi di scrapie classica (CS) per 4 SM (104 casi indice (IC) con genotipi di gruppi sensibili nel 93,4% dei casi), 76 casi di scrapie atipica (AS) (76 IC) per 12 SM. Negli altri paesi dichiaranti non appartenenti all’UE, l’Islanda ha segnalato 70 casi di CS, mentre la Norvegia ha segnalato 7 casi di AS ovino. La genotipizzazione casuale degli ovini è stata riportata da sei SM e i genotipi dei gruppi sensibili rappresentavano il 6,9%. Nei caprini sono stati segnalati 183 casi di scrapie, tutti provenienti da Stati membri dell’UE: 176 SC (47 CI) da sette SM e 7 SA (7 CI) da cinque SM. Tre casi a Cipro e uno in Spagna sono stati segnalati in capre portatrici di alleli eterozigoti al codone 146 e 222, rispettivamente. In totale, 2096 cervidi sono stati testati per la malattia del deperimento cronico da dieci SM, nessuno è risultato positivo. La Norvegia ha testato 14.224 cervidi con un alce europeo positivo.

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Fonte: EFSA




Un nuovo vaccino per la prevenzione della malattia emorragica epizootica nei bovini

L’IZSAM ha da poco concluso un lavoro di ricerca e analisi che ha portato alla realizzazione di un vaccino inattivato, efficace e sicuro, contro uno specifico ceppo del virus responsabile della malattia emorragica epizootica (EHD). Trasmesso tramite la puntura di insetti appartenenti al genere Culicoides, l’EHDV non è pericoloso per l’uomo, ma colpisce principalmente i ruminanti selvatici e i bovini.

I segni clinici variano da lievi, come febbre e arrossamento degli occhi, ed eccessiva salivazione, a gravi, quali erosioni del musello e del cavo orale, zoppia, perdita di peso, difficoltà respiratorie e, nei casi più gravi, morte dell’animale.

La sua presenza è storicamente documentata in Giappone, Australia e Nord America, dove la specie più colpita è il cervo dalla coda bianca, ma negli ultimi anni ha iniziato a diffondersi negli allevamenti di bovini, suscitando preoccupazione tra gli allevatori europei per le potenziali gravi ripercussioni economiche.

L’EHDV, come molti altri virus, esiste in diversi sierotipi, con caratteristiche diverse che possono influenzare sia la risposta immunitaria che la gravità della malattia. Negli ultimi anni, focolai di sierotipi 6 e 7 di EHDV si sono progressivamente diffusi nel bacino del Mediterraneo, in particolare nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. A partire dal 2022 si è però assistito alla comparsa in Europa del sierotipo 8, probabilmente arrivato dagli stati nordafricani grazie ai moscerini infetti trasportati dai venti. Diversi casi si sono registrati in Italia (circoscritti alle sole regioni della Sardegna e della Sicilia) e in Spagna e. L’ulteriore diffusione di questa malattia in altri Paesi europei, quali Francia e Portogallo, sta allarmando gli allevatori, che temono un impatto economico significativo sul settore dell’allevamento.

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Fonte: IZS Teramo




Prevedere le pandemie con la genetica dei virus

Abbiamo tutti acquisito familiarità con le mutazioni del virus responsabile del Sars-CoV-2 nel corso della pandemia e probabilmente tutti possiamo elencarne le varianti: Alpha, Delta e Omicron. La preoccupazione che ha destato la comparsa di nuove forme di Covid-19 offre una misura della pericolosità di questo fenomeno che è del tutto naturale.

Gli scienziati sono consapevoli del fatto che per contrastare le future pandemie sia necessario puntare sull’analisi di dati che possano indicarci le forme di evoluzione dei virus, cioè appunto la comparsa di varianti. Una variante si genera quando un virus, moltiplicandosi nell’organismo ospite, subisce una o più variazioni, dette mutazioni, nel suo patrimonio genetico che lo rendono diverso dal virus originario.

Uno studio pubblicato su Nature communications presenta i promettenti risultati di RecombinHunt, un nuovo metodo data-driven sviluppato dal dipartimento di elettronica, informazione e bioingegneria del Politecnico di Milano e dall’Università degli Studi di Milano: in grado di riconoscere, con grande precisione e efficienza computazionale, genomi ricombinanti di Sars-CoV-2 con uno o due punti di rottura.

Il significato della ricombinazione

La ricombinazione è un fenomeno che accade spontaneamente in virus a Rna proprio per assicurare loro la sopravvivenza. La ricombinazione del genoma è un meccanismo molecolare messo in atto dai virus per evolvere e per ingannare il sistema immunitario, che nel frattempo potrebbe aver provveduto a innescare strategie mirate a bloccare il patogeno.

Quando gli organismi si riproducono, utilizzano le istruzioni genetiche (rappresentate da Dna o Rna) per replicarsi. Ma dato che ciò avviene a un ritmo molto rapido nei virus, è facile che possano verificarsi errori, chiamati mutazioni. Quando il codice genetico è cambiato a causa di una mu tazione o di una serie di mutazioni, allora si parla di una variante. Una variante, sebbene diversa geneticamente, non differisce necessariamente nel comportamento dal virus genitore.

La ricombinazione consiste nel rimescolamento di due o più genomi virali in cui sono avvenuti questi errori per formare un nuovo genoma. I genomi si spezzano e si scambiano parti di sequenza. È un meccanismo molecolare che si verifica solo se due virus differenti circolano contemporaneamente e se infettano lo stesso organismo ospite, in modo che possano interagire durante la loro replicazione.

Nel caso della ricombinazione, il rimescolamento di due genomi può far sì che il virus generato manifesti le proprietà di uno o entrambi i virus.

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Fonte: aboutpharma.com




Dengue, in Italia 682 casi. Iss: verso chiusura focolai

“Al 12 novembre tutti i focolai di virus Dengue autoctoni sul territorio nazionale risultano controllati, con limitata attività recente”. In Italia “non si registrano nuovi casi di infezione nell’uomo da almeno 16 giorni” e quindi “è stata attivata la fase finale di monitoraggio finalizzata alla chiusura definitiva dei focolai”. Lo comunica l’Istituto superiore di sanità nell’ultimo bollettino sulle infezioni trasmesse dalle zanzare, in cui il bilancio 2024 per Dengue è di 682 casi confermati e segnalati al sistema nazionale di sorveglianza dal primo gennaio al 12 novembre: 468 associati a viaggi all’estero e 214 autoctoni. L’età mediana degli infettati, metà maschi e metà femmine, è di 45,5 anni. Non è stato registrato alcun decesso.

Il focolaio di dimensioni maggiori – ricorda l’Iss – è quello che ha interessato Fano nelle Marche, con 144 casi di virus Dengue di tipo 2 (Denv-2) tutti sintomatici, di cui 142 notificati dalla Regione Marche e 2 dalla Toscana. “Non sono stati segnalati nuovi casi con insorgenza dei sintomi negli ultimi 16 giorni (28 ottobre-12 novembre) – si legge nel report – evidenziando nelle ultime 7 settimane una significativa riduzione del numero di nuove infezioni associate a questo focolaio, che continuano a essere sottoposte a verifica e conferma”.

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Fonte: doctor33




Scoperta scientifica sulla diagnosi precoce della Scrapie

La ricerca premiata al Convegno internazionale “Prion 2024” di Nanchang (Cina)

Un gruppo di ricerca dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (IZSPLV), che vede coinvolte “Neurobiologia Sperimentale” e “Proteomica e diagnostica TSE”, ha realizzato un innovativo metodo per la diagnosi precoce della Scrapie, una patologia prionica che colpisce pecore e capre.

Il protocollo è basato sull’uso dell’RT-QuIC, una tecnica che amplifica la proteina prionica patologica (PrPSc) nel latte.

Il metodo offre una via di diagnosi preclinica, non invasiva e di alta sensibilità, dimostrando come il latte possa essere una matrice biologica per la rilevazione della Scrapie.

Il lavoro rappresenta un passo avanti significativo nella diagnosi delle encefalopatie spongiformi trasmissibili (TSE) e può avere un impatto profondo nella gestione e nella prevenzione di queste malattie negli allevamenti.

Lo studio ha suscitato l’interesse della comunità scientifica internazionale, tanto da ricevere un prestigioso riconoscimento: è stato infatti considerato il terzo miglior lavoro scientifico di tutti quelli presentati al convegno “Prion 2024”, che si è tenuto in Cina a Nanchang dal 23 al 27 ottobre 2024.

La ricerca presentata sotto forma di poster e intitolata “Detection of Pathological Prion Protein in Milk Samples from Scrapie Naturally Infected Sheep by Real-Time Quaking-Induced Conversion assay”, è stata realizzata da Alessandra Favole in collaborazione con Maria Mazza, nell’ambito del progetto di ricerca finalizzata Alive and QuICking: early and intra-vitam detection of prions using Real-Time Quaking-Induced Conversion (RT-QuIC) assay as individual and flock test, to improve Scrapie and CWD surveillance in Italy del quale è responsabile Pierluigi Acutis.

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Fonte: IZS Piemonte Liguria e Valle d’Aosta




Influenza zoonotica: dall’Ecdc le indicazioni per la diagnosi precoce

Un vademecum per la sorveglianza e l’applicazione di test mirati alla diagnosi dell’influenza zoonotica nel periodo invernale è stato stilato dall’European centre for disease prevention and control (Ecdc). Si va dalla sensibilizzazione degli operatori sanitari nelle cure primarie e secondarie all’autoisolamento fino alla tipizzazione in ambito ospedaliero.

La necessità del documento nasce dalla possibilità, nelle aree in cui si sono verificati focolai di influenza aviaria negli uccelli o nei mammiferi, che si verifichino casi umani di infezione con esposizione sconosciuta. Le autorità sanitarie pubbliche dovrebbero quindi incoraggiare laboratori, ospedali e clinici a prendere in considerazione l’aumento dei test.

La sorveglianza parte dai sanitari

In primo luogo, come raccomanda l’Ecdc, la sensibilizzazione dovrebbe includere la comunicazione della situazione epidemiologica locale, inclusa l’influenza aviaria negli uccelli e negli animali, agli operatori sanitari (inclusi gli operatori di cure primarie) nel territorio.

Per non perdere o ritardare la diagnosi di potenziali casi di influenza zoonotica umana, gli operatori sanitari dovrebbero chiedere ai pazienti eventuali sintomi compatibili con l’infezione influenzale zoonotica e la loro storia di esposizione ad animali, in particolare nel contesto di eventuali focolai di influenza aviaria in corso negli uccelli o nei mammiferi.

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Fonte: aboutpharma.com




IZSLER di Pavia: Centro Regionale Lombardo per le zoonosi e le malattie trasmesse da artropodi

Con delibera 2966, il 05/08/2024 Regione Lombardia ha individuato la Sede Territoriale IZSLER di Pavia quale “Centro Regionale per le zoonosi e le malattie trasmesse da artropodi”.

Il Centro svolgerà un ruolo di supporto all’azione di governance regionale. La nomina arriva dopo un lungo percorso rivolto allo studio delle zoonosi iniziato 25 anni fa con l’istituzione di due centri di referenza nazionali (CRN per la tularemia e le clamidiosi) e più recentemente di un centro regionale (CRR per la determinazione rapida degli agenti batterici ad alta diffusione a potenziale impiego bioterroristico).

Dal 2010 la sede di Pavia e la sede di Sondrio, hanno creato un percorso diagnostico-terapeutico per l’identificazione rapida degli agenti patogeni nelle zecche trovate sull’uomo finalizzato a supportare il personale medico con interventi mirati in un’ottica di lotta alla antibiotico-resistenza. Il supporto sanitario, inizialmente offerto alle AATTSS di competenza, con delibera 2365 del 20/05/2024 è stato esteso a tutto il territorio regionale,  con il coordinamento della Direzione Generale Welfare, U.O. Veterinaria e U.O. Prevenzione, aggiungendo valore alla attività di prevenzione a tutela della salute dei cittadini lombardi

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Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna