Rapporto One Health dell’UE: calo nel 2020 dei casi di malattie zoonotiche riferite nell’uomo e delle infezioni veicolate da alimenti

Nel 2020 è stata la campilobatteriosi la zoonosi maggiormente segnalata nell’UE, con 120 946 casi contro gli oltre 220 000 dell’anno precedente, seguita poi dalla salmonellosi, che ha interessato 52 702 individui contro gli 88 000 dell’anno precedente. Il numero di infezioni veicolate da alimenti ha registrato un calo del 47%. Queste risultanze si basano sulle cifre contenute nell’annuale rapporto “One Health” (salute unica globale) dell’UE sulle zoonosi, curato dall’EFSA e dall’ECDC.

Per spiegare il notevole calo dei casi di malattie zoonotiche riferiti nell’uomo e di infezioni alimentari (tra il 7% e il 53% a seconda della malattia riferita), gli esperti hanno riconosciuto il ruolo determinante svolto in Europa dalla pandemia da COVID-19.

Tra i fattori che possono aver causato il calo nelle segnalazioni: i mutamenti avvenuti nel ricorso all’assistenza sanitaria, le limitazioni a viaggi ed eventi, le chiusure dei ristoranti, la quarantena e altre misure di contenimento come l’uso di mascherine, il distanziamento sociale e la frequente disinfezione delle mani.

Di seguito le malattie più segnalate sono state la yersiniosi (con 5 668 casi) e le infezioni causate da E.coli produttore di Shigatoxina (con 4 446 casi). La listeriosi è stata la quinta zoonosi più segnalata (con 1 876 casi) e ha colpito soprattutto persone di età superiore a 64 anni.

La listeriosi e le infezioni da virus del Nilo occidentale sono state le due malattie con i più alti tassi di mortalità e ricoveri ospedalieri. La maggior parte delle infezioni da virus del Nilo occidentale contratte in loco sono state riferite in Grecia, Spagna e Italia.

Il rapporto esamina anche le infezioni veicolate da alimenti, ovvero eventi durante i quali almeno due persone contraggono la stessa malattia consumando il medesimo cibo contaminato. Un totale di 3 086 focolai infettivi di origine alimentare sono stati segnalati nel 2020. Salmonella è rimasta l’agente infettivo più frequentemente rilevato, causa del 23% dei focolai. Le più comuni fonti di salmonellosi sono state uova, ovoprodotti e carne di maiale.

Si riportano anche dati su Mycobacterium bovis/caprae, Brucella, Yersinia, Trichinella, Echinococcus, Toxoplasma gondii, rabbia, febbre Q e tularemia.

L’EFSA pubblica quest’oggi anche due pagine web per comunicare in maniera interattiva sulle infezioni veicolate da alimenti: una story map e un dashboard. La story map fornisce informazioni generali sulle infezioni alimentari, i loro agenti causali e gli alimenti che fungono da loro veicolo. Il dashboard consente agli utenti di cercare e interrogare la gran mole di dati sulle infezioni alimentari collazionati dall’EFSA e trasmessi da Stati membri dell’UE e altri Paesi dichiaranti sin dal 2015.

Fonte: EFSA




Parere CNSA – Echinococcosi cistica: conoscenze attuali e suggerimenti per la prevenzione e il controllo della diffusione

L’Echinococcosi cistica (EC) è una malattia cronica disabilitante di origine parassitaria, diffusa in tutto il mondo e storicamente endemica in Italia, che costituisce un caso esemplare di one-health, coinvolgendo l’uomo, i cani, gli animali da reddito, l’ambiente e i prodotti alimentari.

Su scala internazionale, nonostante lo svolgimento di importanti programmi di ricerca, sussistono ancora numerose incertezze scientifiche e diverse criticità che non consentono di delineare un preciso quadro epidemiologico, sia per l’uomo che per gli animali. Nonostante, quindi, sia difficile calcolare con precisione l’onere sanitario ed economico dell’echinococcosi, si stima che tale patologia sia responsabile di perdite economiche significative nel settore della sanità pubblica. A livello globale, uno studio del 2006 ha stimato costo di almeno 760 milioni di dollari di perdite per l’infezione umana e di almeno 140 milioni di dollari per le perdite annuali di produzione degli animali da reddito. Per quanto riguarda l’Italia, l’EC risulta essere la seconda zoonosi per ospedalizzazione, e sono stati stimati un onere finanziario medio nazionale di circa 4.000.000 di euro l’anno per l’infezione umana e notevoli perdite economiche per la riduzione della produzione lattea negli animali da reddito.

La Sezione per la Sicurezza Alimentare del CNSA evidenzia la necessità di sensibilizzare ed informare cittadini ed operatori sanitari, al fine di assicurare il contenimento della parassitosi, ed auspica lo svolgimento di studi scientifici che possano contribuire alla conoscenza delle fonti di infezione e delle abitudini socioculturali coinvolte nella trasmissione della patologia nelle aree endemiche.

Parere CNSA – Echinococcosi cistica: conoscenze attuali e suggerimenti per la prevenzione e il controllo della diffusione




Covid: gli animali più a rischio? Quelli che frequentano l’uomo

Mucche, gorilla e orsi sono a più alto rischio di contagiarsi di di SARS-CoV-2. Più in generale, tutte le specie a stretto contatto con l’uomo.  A scoprirlo, lo studio del Cary Institute of Ecosystem Studies, pubblicato su Proceedings of the Royal Society B. Per arrivare a questi risultati, i ricercatori hanno utilizzato un nuovo approccio con un modello computerizzato in grado di prevedere la capacità di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 di 5.400 specie di mammiferi ed estendendo la capacità predittiva di rischio Covid-19 di vari ordini di grandezza.

Delle specie ad alto rischio segnalate, secondo lo studio, molte vivono vicino alle persone e negli hotspot Covid-19.

Secondo i ricercatori, un importante ostacolo alla previsione delle specie di mammiferi ad alto rischio sono i dati limitati su ACE2, il recettore cellulare a cui si lega SARS-CoV-2 negli animali. ACE2 consente a SARS-CoV-2 di entrare nelle cellule ospiti e si trova in tutti i principali gruppi di vertebrati. È probabile che tutti i vertebrati abbiano recettori ACE2, ma le sequenze erano disponibili solo per 326 specie. Per superare questo ostacolo, il team ha sviluppato un modello di apprendimento automatico che combinava i dati sui tratti biologici di 5.400 specie di mammiferi con i dati disponibili su ACE2.

L’obiettivo: identificare le specie di mammiferi con un’elevata “capacità zoonotica” – la capacità di contrarre l’infezione da SARS-CoV-2 e trasmetterla ad altri animali e persone. Il metodo che hanno sviluppato potrebbe aiutare a estendere la capacità predittiva per i sistemi di malattie oltre il Covid-19.

“Il SARS-CoV-2 ha avuto origine in un animale prima di fare il salto alle persone” – commenta l’autore Ilya Fischhoff, del Cary Institute of Ecosystem Studies – “Ora, le persone hanno causato infezioni in una varietà di mammiferi, principalmente quelli tenuti nelle fattorie, negli zoo e persino nelle nostre case. Sapere quali mammiferi sono in grado di reinfettarci è fondamentale per prevenire le infezioni da spillback e nuove varianti pericolose”, conclude. Quando un virus passa dalle persone agli animali e di nuovo alle persone si parla di spillover secondario. Questo fenomeno può accelerare la creazione di nuove varianti nell’uomo che sono più virulente e meno reattive ai vaccini.

La ricaduta secondaria di SARS-CoV-2 è già stata segnalata tra i visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi, dove ha portato ad almeno una nuova variante di SARS-CoV-2.

Questo modello matematico ha previsto la capacità zoonotica delle specie di mammiferi con una precisione del 72% e ha identificato numerose altre specie di mammiferi con il potenziale di trasmettere SARS-CoV-2.

Le previsioni corrispondevano ai risultati osservati per cervi dalla coda bianca, visoni, cani procioni, leopardi delle nevi e altri. Il modello ha rilevato che le specie di mammiferi più rischiose erano spesso quelle che vivono in paesaggi disturbati e in prossimità delle persone, inclusi animali domestici, bestiame e animali che vengono scambiati e cacciati. Si prevedeva che i primati avessero la più alta capacità zoonotica e il più forte legame virale tra i gruppi di mammiferi. Il bufalo d’acqua, allevato per il latte e l’allevamento, aveva il rischio più alto tra il bestiame. Il modello ha anche previsto un elevato potenziale zoonotico tra i mammiferi commerciati vivi, tra cui macachi, orsi neri asiatici, giaguari e pangolini, evidenziando i rischi posti dai mercati vivi e dal commercio di animali selvatici. SARS-CoV-2 presenta anche sfide per la conservazione della fauna selvatica.

L’infezione è già stata confermata nei gorilla di pianura occidentale. Per le specie ad alto rischio come i gorilla di montagna, l’infezione da spillback potrebbe verificarsi attraverso l’ecoturismo. Gli orsi grizzly, gli orsi polari e i lupi, tutti nel 90esimo percentile per la capacità zoonotica prevista, sono spesso gestiti dai biologi per la ricerca e la gestione. Han spiega: “Il nostro modello è l’unico che è stato in grado di fare previsioni sui rischi per quasi tutte le specie di mammiferi. Ogni volta che sentiamo parlare di una nuova specie che è stata trovata positiva al SARS-CoV-2, rivisitiamo la nostra lista e scopriamo che è classificata in alto. I leopardi delle nevi avevano un punteggio di rischio intorno all’80° percentile. Ora sappiamo che sono una delle specie selvatiche che potrebbero morire di Covid-19″.

Le persone che lavorano a stretto contatto con mammiferi ad alto rischio dovrebbero prendere ulteriori precauzioni per prevenire la diffusione di SARS-CoV-2. Tra questi, la priorità delle vaccinazioni tra veterinari, guardiani dello zoo, allevatori di bestiame e altre persone in contatto costante con gli animali. I risultati possono anche guidare strategie di vaccinazione mirate per i mammiferi a rischio. Un’iterazione più efficiente tra previsioni computazionali, analisi di laboratorio e sorveglianza degli animali ci aiuterà ad ottenere informazioni necessarie per guidare la risposta alla pandemia zoonotica ora e in futuro, concludono gli autori.

Fonte: AGI




Le origini delle facoltà di veterinaria

Momumento dedicato all’eradicazione della Peste bovina – Roma, Ministero della salute

Sono un veterinario che per quasi 20 anni ha insegnato patologia generale e fisiopatologia veterinaria all’Università di Teramo e, mantenendo fede all’identità culturale appannaggio della categoria professionale cui mi vanto e mi onoro di appartenere, mi preme sottolineare che la ragion storica all’origine delle Facoltà di Medicina Veterinaria nel Vecchio continente, nate dapprima in Francia e in Italia a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si deve alla peste bovina.

Questa malattia, sostenuta da un virus imparentato con quello del morbillo e che illo tempore era causa di gravissime perdite fra le mandrie di mezza europa, è stata dichiarata ufficialmente eradicata a livello globale nel 2011, grazie alla campagna di vaccinazione effettuata sulla popolazione bovina.

Analoga sorte è toccata al vaiolo, anch’esso debellato su scala planetaria nel 1980 grazie alla vaccinazioni di massa della popolazione umana.

Ai giorni nostri il “nemico pubblico” da combattere si chiamaSars-Cov2, il betacoronavirus che ha sinora mietuto oltre 5 milioni di vittime nel mondo.

Gli efficaci vaccini di cu disponiamo a distanza di un solo anno dall’identificazione del virus rappresentano una formidalbile arma di contrasto alla diffusioone di Sars-Cov2 con particolare riferimento alle forme gravi e a esito letale di Covid-19.

Di contro, la mancata vaccinazione di fette di popolazione, oltre a mettere le ali al virus (come in diversi Paesi dell’Est Europa), si traduce di fatto in un accresciuto rischio di comparsa di nuove varianti, non di rado più contagiose e/o patogene  rispetto a quelle circolant, come chiaramente testimoniato dalla variante delta

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e
Fisiopatologia Veterinaria
all’Universita’ di Teramo

Lettera pubblicata su Il Corriere della Sera del 22 novembre 2021




Lo strano caso del gatto di Arezzo, vittima dello spillover di un Lyssavirus

gattoÈ fine giugno 2020 quando ad Arezzo in un gatto viene accertato un raro caso di infezione da Lyssavirus, un genere che comprende 17 specie e annovera fra i suoi membri anche il virus della rabbia. L’animale muore per una malattia neurologica compatibile con la rabbia, dopo aver morso la proprietaria e alcuni veterinari, fortunatamente senza ulteriori conseguenze per animali e persone residenti in quella zona.

Il virus viene prontamente isolato dal Centro di referenza nazionale per la rabbia dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), da un campione di cervello dell’animale, e identificato come West Caucasian Bat Lyssavirus (WCBV). Come è andata a finire?

Il silenzioso viaggio del West Caucasian Bat Lyssavirus

Finora il WCBV era stato rilevato solo un’unica volta nel 2002 in un pipistrello del Caucaso, in Russia. Il WCBV è un virus tipico dei pipistrelli, ma diverso da quello della rabbia classica; tuttavia negli animali infetti determina una sintomatologia clinica identica con un’encefalite che si manifesta con aggressività anomala, come è accaduto nel gatto di Arezzo.

Ben si comprende, quindi, come l’isolamento del virus in Italia – il secondo al mondo – fosse già di per sé un fatto piuttosto raro; ma il vero ‘rompicapo scientifico’ è stato riconoscere la dinamica del salto di specie (spillover) dal pipistrello al gatto.

In tempo di pandemia, dove i pipistrelli sono sotto la lente della comunità scientifica, la questione non è secondaria. Un anno dopo, grazie a indagini approfondite, i ricercatori hanno ricostruito il meccanismo dello spillover fra le due specie animali in un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Viruses.

Il tunnel dei miniotteri

L’indagine epidemiologica si è concentra subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli. Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, dove è stato scoperto un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia.

L’indagine epidemiologica si è concentrata subito sullo studio della possibile interfaccia tra gatti e pipistrelli presenti nella zona mediante osservazioni visive, analisi bioacustiche e utilizzo di foto-trappole, per capire quali fossero le aree di rifugio dei pipistrelli. La task force di esperti ha visto la partecipazione oltre che dell’IZSVe, anche di IZS Lazio e Toscana, Cooperativa Studi Ecologici e Ricerca Natura ed Ambiente (STERNA), Regione Toscana, AUSL Toscana SudEst di Arezzo e Ministero della Salute.

Alla fine è stato individuato un tunnel, in cui scorre un fiume sotterraneo vicino alla casa del gatto, lungo circa 2 km, che i ricercatori hanno perlustrato periodicamente anche due volte al mese, a partire da agosto 2020 giungendo infine alla scoperta: al suo interno è stato identificato un gruppo di pipistrelli della specie miniottero comune (Miniopterus schreibersii), appartenente a una popolazione che in genere varia fra 40 e 425 individui a seconda della stagione, la stessa specie di pipistrello in cui il virus era stato trovato quasi vent’anni fa in Russia. La medesima popolazione frequenta la zona solo in alcuni momenti dell’anno, tra aprile e giugno e poi di nuovo da agosto a ottobre, ed è oggi sotto stretto monitoraggio.

Per comprendere se ci fossero altre specie di pipistrello nella zona oltre ai miniotteri il team multidisciplinare ha effettuato un’analisi degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli – classificati in ecolocalizzazioni, ronzii di alimentazione e chiamate sociali – che hanno permesso di identificare anche esemplari di Pipistrellus kuhliiHypsugo savii (specie tipiche delle nostre città) e altre specie più sporadiche. Ma il tunnel era visitato anche da altri avventori, come hanno dimostrato le immagini scattate dalla foto-trappole piazzate ai due ingressi: sono stati immortalati gatti, ricci, uccelli e… tre persone!

Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanza, i virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli. La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città; questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti.

Parallelamente, nello stesso periodo, sono stati effettuati quattro campionamenti che hanno consentito di stabilire età, genere e stato fisiologico degli animali. La raccolta di campioni di sangue (190) e saliva (268) è servita invece per verificare la presenza del virus e degli anticorpi; dalle analisi di laboratorio si è visto che gli individui di questa colonia mostravano anticorpi neutralizzanti contro il WCBV, ma nessun virus nei tamponi salivari. Per contro, le carcasse di altre specie di pipistrelli erano tutte negative sia per il virus che per gli anticorpi. Infine, le analisi genetiche hanno rivelato che il genoma virale di WCBV rinvenuto ad Arezzo possiede un’elevata similitudine con quello del pipistrello russo trovato nel 2002.

La lezione del gatto di Arezzo

Quello che sappiamo di WCBV è legato a una casistica piuttosto ridotta, ma la sua parentela con il virus della rabbia ha fatto sì che fossero attivate tempestivamente tutte le misure controllo e monitoraggio di persone e animali, necessarie a scongiurare il ripetersi dell’emergenza. Il caso del gatto di Arezzo ci dice che a distanza di 18 anni e ad oltre 2.000 km di distanzai virus continuano a circolare silenziosamente e ogni tanto escono allo scoperto, se le condizioni sono favorevoli.

La vera sfida ora è approfondire i motivi che hanno spinto i miniotteri così vicini alla città. Questa specie, infatti, è abituata a vivere in grotte e a cibarsi in spazi aperti. Per questo, la sua presenza ad Arezzo è stata una sorpresa, particolarmente apprezzata da un predatore quale il gatto, ponendo un potenziale rischio per la salute pubblica e la conservazione dei pipistrelli. Come già successo in altri contesti, è possibile questi animali si siano spostati a seguito di un’alterazione o distruzione del loro habitat naturale da parte dell’uomo, rendendoci così i veri detonatori dello spillover.

Fonte: IZS Venezie




IZS Ler: zanzara coreana sempre più presente in Lombardia

I giornali e diversi siti internet presentano alla nostra attenzione un nuovo tipo di zanzara: la zanzara coreana, la cui segnalazione è sempre più frequente in Lombardia ed è stata rinvenuta anche dai nostri laboratori nei monitoraggi ordinari per la West Nile (malattia trasmessa da zanzare) e tramite le attività previste da uno specifico progetto di ricerca finanziato dal Ministero della Salute. Le caratteristiche di resistenza alle basse temperature fanno sì che la probabilità di impiantarsi stabilmente nei nostri territori sia sempre più alta.

Questa zanzara è in grado di trasmettere alcune filarie ed è stata segnalata come possibile vettore di encefalite giapponese in Russia; è stata in grado di trasmettere il virus del Chikungunya in laboratorio, ma la sua capacità di trasmettere malattie pericolose per l’uomo non è ancora caratterizzata con precisione.
L’areale d’origine della zanzara Aedes koreicus, comunemente detta zanzara coreana, è compreso fra il Giappone, il Nord-Est della Cina, la Corea e parte della Russia. Come la più nota zanzara tigre, questa zanzare è stata in grado di espandere negli ultimi anni il suo areale, arrivando in paesi nei quali non era presente. Questa espansione, legata all’ecologia della specie, è probabilmente dovuta al trasporto di uova o larve con il commercio internazionale, anche se l’esatta via di introduzione della zanzara coreana non è nota.

La prima segnalazione della specie in Europa risale al 2008 in Belgio, oggi la specie è segnalata in Svizzera, Germania, Ungheria, Austria, Slovenia, sulle Coste del Mar Nero ed Italia. La prima segnalazione Italiana risale al 2011 in Veneto, successivamente è stata rilevata in Trentino Alto Adige, Liguria e Lombardia. IZSLER ha attivamente monitorato l’espansione della zanzara coreana, rilevando la sua presenza in Lombardia, al confine con la Svizzera, già dal 2014. La presenza di questa zanzara è stata quindi confermata nelle province di Como e Sondrio, ma anche nelle province di Lecco, Bergamo, Varese e Milano, in particolare grazie ad un progetto di ricerca IZSLER attivato per definire la distribuzione delle specie di zanzare invasive nei territori di Lombardia e Emilia-Romagna (PRC2017_004)al quale hanno collaborato la virologia della Sede, la sede territoriale di Reggio-Emilia e le sedi di Sondrio e Binago. In Emilia-Romagna la zanzara coreana non è ancora stata rilevata.

Le preferenze alimentari della zanzara coreana non sono conosciute ma può pungere l’uomo, sia di giorno che di notte, anche se è meno aggressiva della zanzara tigre. Può condividere con la zanzara tigre le raccolte d’acqua di origine artificiale che fungono da focolai larvali. La capacità di produrre uova diapausanti (resistenti alle basse temperature) gli permette di superare gli inverni dei climi temperati. La zanzara coreana preferisce condizioni di temperatura inferiori rispetto alla zanzara tigre, occupa quindi zone con temperature medie più basse, dove la zanzara tigre si stabilisce con maggiore difficoltà; è quindi maggiormente presente in zone marginali per la zanzara tigre, in particolare le zone collinari ed è stata campionata in Italia fin sopra i 1200 m. Gli adulti non sono comunque in grado di superare la stagione fredda.

Fonte: IZS Lombardia ed Emilia Romagna




Prima segnalazione di leptospirosi nel lupo in Europa

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie, in funzione delle lesioni riscontrate e come previsto tra le attività di un progetto di ricerca (RC 16/18 per Echinococcus multilocularis).

Approcci sierologico e molecolare per identificare la leptospira

I veterinari della sezione di Udine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno descritto per la prima volta in Europa un caso di leptospirosi in un lupo. L’esemplare, un maschio di circa 7 mesi, era stato investito in provincia di Pordenone e sottoposto a indagini sanitarie in funzione delle lesioni riscontrate. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117), un ceppo la cui circolazione in Italia è nota nel suino e nel cane.

Dai primi approfondimenti diagnostici biomolecolari è stata evidenziata la presenza di una leptospira patogena a livello renale, mentre dall’esame sierologico per ricerca anticorpi – sempre nei confronti di leptospira – è stata osservata la presenza di reattività verso tre sierogruppi: GrippotyphosaPomona, Icterohaemorrhagiae. Dall’esame istopatologico del rene è emersa una nefrite interstiziale cronica.

Successivamente i campioni sono stati inviati al Centro di referenza nazionale per la leptospirosi dell’IZS Lombardia ed Emilia-Romagna per la tipizzazione molecolare, la fase in cui vengono assegnati nome e cognome al patogeno. La leptospira è stata identificata come Leptospira kirschneri, sierogruppo Pomona, serovar Mozdok (ST117).

Si tratta di un ceppo la cui circolazione in Italia è già nota nel suino e nel cane, mentre nel cinghiale (Sus scrofa) è stata finora rilevato il sierogruppo Pomona, serovar Pomona. È verosimile che la serovar Mozdok possa circolare anche nel cinghiale, vista l’omologia di specie rispetto al suino domestico e che il cinghiale possa rappresentare un serbatoio di infezione per il lupo; dal punto di vista epidemiologico, il rapporto preda-predatore tra cinghiale e lupo è compatibile con una trasmissione diretta o indiretta dell’infezione.

Il lupo in questo caso rappresenterebbe più una vittima accidentale che un serbatoio di infezione, quindi un interessante epifenomeno e sentinella della diffusione di sierogruppi di leptospira nel territorio. Il rilevamento è stato pubblicato sulla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH).

Lupo e leptospirosi in Friuli Venezia Giulia

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani, nonostante un’ampia diffusione della vaccinazione, e rappresenta anche un’importante zoonosi. La malattia è compresa tra quelle elencate come prioritarie nel Piano di sorveglianza della fauna selvatica del Friuli Venezia Giulia.

La leptospirosi è una malattia endemica in Friuli Venezia Giulia che determina casi clinici e decessi nei cani. Nei carnivori selvatici il riscontro di quadri patologici da leptospira non è frequente: in Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo. La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino.

In ambito selvatico sono riconosciuti serbatoi di infezione, in particolare tra i roditori; nei carnivori selvatici sono state riscontrate positività sierologiche, sebbene il riscontro di quadri patologici da leptospira non sia frequente. In Europa finora non erano note segnalazioni di forme cliniche o di lesioni anatomopatologiche dovute a leptospira nel lupo; riscontri di positività sierologiche sono stati documentati in Spagna, mentre analisi condotte in centro Italia sono risultate negative.

La comparsa della malattia nel lupo è collegata alla ricolonizzazione naturale che interessa ormai tutto l’arco alpino. L’espansione del lupo italico (Canis lupus italicus) dagli Appennini alle Alpi e l’incontro con esemplari provenienti dalle aree dinarico-balcaniche (Canis lupus lupus) hanno dato origine a nuclei familiari nel Nord-est che si stanno stabilizzando. A parte presenze sporadiche di soggetti provenienti dalla Slovenia, la prima coppia di lupi formatasi sul territorio è stata individuata nel 2013 e attualmente si stimano circa 15-25 esemplari in tutta la Regione.

Il lupo (Canis lupus) è una di quelle specie protette, insieme allo sciacallo dorato (Canis aureus), alla lontra (Lutra lutra) e al gatto selvatico (Felis silvestris), attorno alle quali negli ultimi anni in Friuli Venezia Giulia si è sviluppata la collaborazione scientifica tra vari enti, come l’IZSVe, l’Università di Udine, il Museo di Storia Naturale di Udine e il Corpo Forestale Regionale.

Le indagini sanitarie nelle specie selvatiche, che continuano ad essere svolte, consentiranno di raccogliere ulteriori informazioni epidemiologiche sulla distribuzione di ceppi di Leptospira sul territorio.

Fonte: IZS delle Venezie




Nasce il Centro di Referenza Regionale dedicato all’Elicicoltura

La 50ª edizione del Convegno Internazionale di Elicicoltura, promosso dall’Istituto Internazionale di Elicicoltura Cherasco è stato il momento centrale di Helix 2021. Hanno partecipato al convegno i massimi esponenti della Sanità Veterinaria italiana e internazionale. Sono intervenuti infatti il Consigliere dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale, Romano Marabelli, il Direttore generale della Sanità animale e dei farmaci veterinari, Pierdavide Lecchini, il Sottosegretario di Stato al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, e Giorgio Maria Bergesio, Componente della IX Commissione Permanente Agricoltura e Produzione agroalimentare del Senato della Repubblica Italiana.

Con loro hanno dialogato il Direttore generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, Angelo Ferrari, e il Presidente dell’Istituto Internazionale di Elicicoltura di Cherasco, Simone Sampò.

Al termine del convegno il Direttore generale dell’IZSPLV, Angelo Ferrari, ha annunciato la futura nascita di Centro di Referenza Regionale dedicato proprio all’Elicicoltura con sede di Cuneo.

Fonte: IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta

 




Virus Yezo: scoperto in Giappone un virus precedentemente sconosciuto collegato a una malattia infettiva “emergente”

In Giappone è stato scoperto un nuovo virus che può essere trasmesso da punture di zecca. Soprannominato virus Yezo (YEZV), può causare febbre e altri sintomi negli esseri umani. Un caso della misteriosa malattia è stato registrato nel 2019 dopo che un uomo di 41 anni è stato ricoverato in ospedale con sintomi, tra cui febbre e dolore alle gambe, ha riportato l’Università di Hokkaido in un comunicato stampa. L’uomo è stato punto da un “artropode ritenuto una zecca”, ma i test hanno rivelato che non era infetto da nessuno dei virus delle zecche conosciuti nella regione. Sebbene l’uomo sia stato dimesso dall’ospedale dopo due settimane, un anno dopo è stato segnalato un altro caso della misteriosa malattia, con il paziente che mostrava sintomi simili.

Nuovo orthonairovirus 

In uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, un team di ricercatori ha identificato il nuovo orthonairovirus attraverso l’analisi genetica dei campioni di sangue raccolti dai due pazienti. Inoltre, sono stati analizzati campioni di sangue di 248 pazienti sospettati di avere una malattia trasmessa da zecche e hanno scoperto che c’erano in totale sette casi dal 2014 al 2020. Il virus “YEZV è filogeneticamente raggruppato con il virus Sulina rilevato nelle zecche Ixodes ricinus in Romania”. Il nome del nuovo virus fa riferimento allo storico nome giapponese di Hokkaido, il luogo in cui è stata scoperta la malattia. Per individuare il serbatoio naturale del virus a Hokkaido, il team di ricercatori ha esaminato campioni di siero raccolti da animali selvatici a Hokkaido dal 2010 al 2020. Nei cervi e procioni shika di Hokkaido sono stati trovati anticorpi di YEZV; inoltre è stato identificato l’RNA YEZV in “tre principali specie di zecche” raccolte dal 2016 al 2020. “Abbiamo dimostrato che dal 2014 almeno sette pazienti sono stati infettati da YEZV e che animali selvatici e zecche potrebbero essere potenziali serbatoi del virus, suggerendo che l’infezione da YEZV è endemica in quest’area”, il team di ricercatori comunica.

Fonte: IZS Teramo

 




Nuove specie di flebotomi in Pianura Padana

Uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha riportato la presenza di alcune specie di flebotomi in aree della Pianura Padana dove non erano mai stati segnalati prima, e che possono trasmettere la leishmaniosi nei cani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Parasites & Vectors.

Identikit dei flebotomi

flebotomi o ‘pappataci’ sono piccoli ditteri ematofagi, vettori di diversi patogeni, tra i quali i più noti sono i protozoi del genere Leishmania e i virus del genere Phlebovirus. L’insetto adulto ha dimensioni ridotte (2-4 mm di lunghezza), è di color sabbia e ha il corpo e le ali ricoperti da una fitta peluria, grazie alla quale è in grado compiere un volo silenzioso e di nutrirsi senza emettere alcun rumore (da cui il nome ‘pappatacio’: “mangia e taci”).

Uno studio condotto da ricercatori dell’IZSVe ha riportato la presenza di alcune specie di flebotomi in aree della Pianura Padana dove non erano mai stati segnalati prima. Dal 2017 al 2019 sono stati catturati più di 300 esemplari grazie alle trappole utilizzate per la sorveglianza entomologica della West Nile Disease. Di notevole interesse il ritrovamento per la prima volta in Veneto e Friuli Venezia Giulia della specie Phlebotomus perfiliewi (vettore di Leishmania infantum e Toscana virus), specie che aveva il suo limite di distribuzione al Nord Italia sull’Appennino emiliano.

In Italia sono presenti otto specie e le più comuni sono P. papatasiP. perniciosus e P. perfiliewi. I flebotomi sono molto comuni nelle aree del Centro e Sud Italia, mentre sono meno abbondanti nelle regioni settentrionali; qui sono confinate ad aree collinari e pedemontane, caratterizzate da un’altitudine compresa tra 100 e 800 metri, vegetazione abbondante e clima mite.

Espansione verso nord e in Pianura Padana

In studi sulla distribuzione di questi vettori condotti in passato era spesso riportato che “i flebotomi sono assenti in Pianura Padana”. Il motivo non è mai stato ben chiarito; probabilmente le condizioni climatiche e geologiche della pianura Padana non erano idonee allo sviluppo delle diverse specie di flebotomi.

Tuttavia, negli ultimi anni venivano segnalati sporadici ritrovamenti di alcuni esemplari di questo insetto. Partendo da questi “insoliti ritrovamenti” il Laboratorio di parassitologia, micologia ed entomologia sanitaria dell’IZSVe ha cominciato a raccogliere tutti gli esemplari di flebotomi che venivano catturati accidentalmente con le trappole utilizzate per la sorveglianza entomologica della West Nile Disease, quindi utilizzate per la cattura delle zanzare.

Dal 2017 al 2019 sono stati catturati più di 300 esemplari appartenenti alle specie Phlebotomus perniciosusP. perfiliewiP. mascittii e Sergentomyia minuta in aree di pianura, sia in ambienti rurali che peri-urbani. È stata osservata un’estensione dell’areale di distribuzione dei flebotomi, la cui presenza è stata segnalata in zone a maggiori latitudini e a diverse altitudini (addirittura anche a -2 metri), ambienti che si discostano da quelli tradizionalmente considerati idonei allo sviluppo di questi insetti. Di notevole interesse il ritrovamento per la prima volta in Veneto e Friuli Venezia Giulia della specie P. perfiliewi (vettore di Leishmania infantum e Toscana virus), specie che aveva il suo limite di distribuzione al Nord Italia sull’Appennino emiliano.

Sebbene in queste aree il numero di esemplari trovati è comunque limitato e inferiore a quello osservato negli ambienti tipicamente abitati dai flebotomi, la presenza di un vettore di patogeni in aree considerate ‘free’ è di grande rilevanza. Quindi, anche in Pianura Padana bisogna cominciare a porre attenzione nel proteggere i propri animali domestici (il cane principalmente) dalle punture di questi insetti, utilizzando prodotti repellenti registrati per la prevenzione della leishmaniosi.

Fonte: IZS delle Venezie