ECDC: in caso di future pandemie si dovrebbero applicare misure restrittive per contenere i contagi.

 In un rapporto pubblicato oggi, l’Ecdc delinea le principali considerazioni strategiche e operative per informare la pianificazione della preparazione alla progettazione e all’attuazione di misure sanitarie e sociali pubbliche (PHSM) nell’UE/SEE per le emergenze sanitarie e le pandemie.

I PHSM si riferiscono a misure non farmacologiche attuate in contesti comunitari per ridurre la diffusione di malattie infettive. Hanno costituito la risposta primaria della sanità pubblica durante le fasi iniziali della pandemia Covid, in particolare prima che le contromisure mediche, compresi i vaccini, diventassero ampiamente disponibili. Nelle future pandemie i PHSM potrebbero essere nuovamente utilizzati per ridurre la trasmissione delle malattie e attenuare gli impatti negativi sulla salute.

L’obiettivo di sanità pubblica di ridurre i danni complessivi alla salute della popolazione dovrebbe continuare ad applicarsi in situazioni di crisi. Un principio generale dovrebbe essere che le misure con il più alto livello di accettabilità/fattibilità e con le minori conseguenze negative potrebbero essere introdotte per prime e rimosse per ultime, notando anche che l’attuazione tempestiva di alcune misure produrrà la massima efficacia.

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Fonte: quoridianosanita.it




La profezia di Ilaria Capua: “Ci sarà un’altra pandemia”

Una nuova pandemia? Arriverà. Non si sa quando, ma arriverà. La Storia lo insegna, l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) manda un messaggio globale parlando di malattia X e Ilaria Capua, virologa di fama mondiale, sette anni negli Stati Uniti dove ha diretto lo One Health Center in Florida e ora alla John Hopkins University di Bologna, lo conferma.

Lei afferma che un’altra pandemia è inevitabile. L’Oms parla di malattia X. Perché?

“Io continuo a dire che facciamo parte di un sistema complesso. Le pandemie avvengono a cadenza regolare nel tempo. Mi dispiace dirlo, ma non è che perché abbiamo avuto quella da Covid siamo a posto per i prossimi duecento anni. Purtroppo non funziona così. La malattia X di cui parla l’Oms è un termine per dire che qualcosa, prima o poi, arriverà. Non si sa che cosa, ma succederà. E potrebbe essere ancora più aggressivo del Covid”.

Come si può reagire a questo scenario?

“Serve una capacità di risposta a queste emergenze che sia ragionata, consapevole e studiata anche sulla base del territorio”.

Cosa è rimasto di positivo dall’esperienza della pandemia?

“Certamente una consapevolezza di vulnerabilità. E questo è un bene. Mi piacerebbe, però, vedere più attenzione nel mettere in atto comportamenti che siano preventivi per il contagio da qualunque patogeno, quindi lavarsi le mani, se si ha la tosse o non si esce oppure si indossa la mascherina. Adesso abbiamo capito moltissimo su come circolano le malattie infettive. Certo, vedo anche che c’è una sorta di amnesia collettiva. Le persone, essendo stato così brutto quel periodo, non vogliono più pensarci. Però questo non va bene. Il virus del Covid è ancora qui con noi”.

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Fonte: ilrestodelcarlino.it




La terza transizione epidemiologica

Nel dicembre 2023 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme relativo al forte incremento dei casi di dengue nel mondo, sottolineando come il rischio globale per questa malattia debba ora considerarsi elevato. La diffusione della dengue non ha lasciato indenne l’Europa, e men che meno il nostro paese. In Italia nel 2023 si sono registrati 362 casi e un decesso, il numero più elevato mai osservato.

L’Antropocene (1), l’epoca geologica nella quale siamo recentemente entrati, viene descritta come un’epoca in cui i processi e le condizioni geologiche planetarie sono fortemente influenzati dalle attività umane. I fenomeni associati all’Antropocene includono: marcate perturbazioni dei cicli di elementi quali carbonio, azoto, fosforo e vari metalli che hanno a loro volta determinato cambiamenti ambientali tra cui il riscaldamento globale, l’innalzamento del livello dei mari, l’acidificazione degli oceani; rapidi cambiamenti nella biosfera, con distruzione di habitat, perdita di biodiversità, espansione di specie invasive; proliferazione e dispersione globale di nuovi “minerali” e “rocce” tra cui cemento, ceneri volanti e plastica. Molti di questi cambiamenti persisteranno per millenni o più e stanno alterando il “sistema Terra”. Molti di questi fenomeni inoltre contribuiscono a plasmare e rideterminare i processi di salute e malattia, la cui traiettoria si sta modificando e dispiegando in quella che può essere definita “la terza transizione epidemiologica” (2).

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Fonte: saluteinternazionale.info




Dovremmo eradicare le zanzare?

«Se pensiamo ad animali come i ratti, è sempre bene eradicarli nelle isole in cui sono stati introdotti», afferma Jérémy Bouyer, direttore della ricerca presso il Centro di ricerca agricola francese per lo sviluppo internazionale (CIRAD). «In tutta sincerità, possiamo considerare Aedes albopictus e Aedes aegypti alla stregua di topi volanti.» Le zanzare sono vettori di malattie come la malaria e la febbre gialla, che causano la morte di milioni di persone. Questi insetti proliferano dove è presente acqua stagnante, ad esempio nelle paludi e all’interno di rifiuti di plastica, di lattine per bevande e di vecchi pneumatici. «Se si eradica un elemento appena introdotto, si torna di fatto a una situazione di equilibrio», spiega Bouyer. «Quando la specie è endemica, però, bisogna chiedersi se sia saggio eliminarla o meno.» In un ecosistema ogni organismo svolge un ruolo specifico e la sua rimozione può avere un effetto domino nella rete alimentare, dal momento che il predatore di un animale è di solito la preda di un altro. La scomparsa di una specie può anche indebolire l’ecosistema nel suo complesso, persino portandolo al collasso. Nel caso delle zanzare, questa non sembra una prospettiva possibile, poiché i loro predatori (uccelli, ragni e libellule) sono generalisti e si nutrono anche di altri insetti.

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Fonte: Commissione Europea




Paratubercolosi nel cervo, Izsler: uno studio sulla diffusione

Approfittando di una popolazione di cervo rosso sottoposta a un programma di abbattimento nel Parco Nazionale dello Stelvio, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (Izsler) ha condotto uno studio su un totale di 390 soggetti, esaminati e testati per Mycobacterium avium subsp. Paratuberculosis (Map) utilizzando diversi strumenti diagnostici. La ricerca è stata eseguita dal Centro di Referenza per la paratubercolosi, presso la sede Izsler di Piacenza, e pubblicata su Frontiers in Veterinary Science.


La paratubercolosi (o malattia di Johne), causata da Map, è una malattia infettiva che colpisce principalmente i ruminanti domestici e selvatici di tutto il mondo ed è stata recentemente inserita dalla Legge sulla Salute Animale sulle malattie animali trasmissibili (Regolamento Ue 2016/429) tra le patologie che richiedono sorveglianza nell’Unione Europea, elencando Bovidi, Cervidi e Camelidi domestici e selvatici come specie potenziali serbatoi.
Il batterio responsabile viene escreto nelle feci ed è caratterizzato da un’elevata resistenza alle condizioni ambientali. Molte specie sono suscettibili all’infezione e l’interazione tra gli animali al pascolo può facilitare l’instaurazione di un sistema multi-ospite per Map.   La situazione in Italia
In Italia, il primo caso segnalato di paratubercolosi nei ruminanti selvatici è stato identificato nel cervo reale (Cervus elaphus) nella parte meridionale del Tirolo del Parco Nazionale dello Stelvio, in provincia di Bolzano. Successivamente, la prevalenza della Map è stata stimata con metodi molecolari in diverse aree alpine.
Il Ministero della Salute italiano ha implementato la sorveglianza della paratubercolosi nei bovini dal 2013, recentemente estesa a capre e pecore, su base volontaria, e una certificazione basata sul rischio. Il piano prevede lo screening diagnostico, la sorveglianza clinica passiva sui ruminanti domestici e l’adozione di misure di biosicurezza e gestione.
Inoltre, la produzione zootecnica estensiva, in cui interagiscono animali domestici e selvatici, dovrebbe considerare entrambe le popolazioni per il controllo delle malattie.

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Fonte: vet33




Che viaggio fa il virus West Nile?

artropodiNonostante sia stato isolato quasi 90 anni fa – nel 1937 nella zona del Nilo occidentale dell’Uganda – e sia uno dei virus più diffusi al mondo, solo negli ultimi anni il West Nile Virus (WNV) è entrato nel vocabolario comune, destando interesse presso l’opinione pubblica e una crescente preoccupazione da parte delle autorità sanitarie.

Al centro delle dinamiche di diffusione del virus ci sono uccelli e zanzare: gli uccelli infetti vengono punti dalle zanzare che a loro volta si infettano e possono trasmettere nuovamente il virus ad altri uccelli. Le zanzare che si nutrono del sangue anche di esseri umani, cavalli e altri mammiferi, possono trasmettere il virus anche a loro. Tuttavia esseri umani, equidi e altri mammiferi sono ospiti accidentali “a fondo cieco”, ovvero non sviluppando concentrazioni elevate di virus nel sangue non possono quindi trasmetterlo ad altre zanzare.

Nella maggior parte dei casi l’infezione nell’uomo è asintomatica. I casi sintomatici si presentano per lo più con manifestazioni leggere riconducibili a una comune influenza, mentre le forme più gravi possono coinvolgere il sistema nervoso in particolare negli anziani o in coloro che hanno un sistema immunitario compromesso.

In qualità di Centro di Referenza Nazionale per le malattie esotiche degli animali e di Laboratorio di Referenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale per la West Nile da anni monitoriamo e studiamo il virus costantemente – esordisce il DG dell’IZS di Teramo Nicola D’Alterio – “La situazione non deve destare allarmismi, tuttavia i dati del 2023, in calo rispetto al 2022, ci dicono che in Italia sono stati confermati 332 casi di infezione da West Nile virus nell’uomo, di cui 190 con coinvolgimento neurologico. Tra i casi confermati sono stati notificati 27 decessi, tutti nelle regioni del nord Italia. Questi numeri ci obbligano a tenera alta la guardia”.

Come ricercatori il nostro compito è comprendere le modalità di trasmissione dell’infezione in modo da pianificare interventi preventivi – conclude D’Alterio  “la prevenzione è un’arma fondamentale perché non esiste un vaccino per proteggere l’uomo dal virus: ad esempio bisogna evitare il più possibile le punture di zanzara tramite l’uso di repellenti cutanei, insetticidi ad uso domestico e soggiornare in ambienti riparati da zanzariere”.

Recentemente sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Nature Communications sul virus West Nile i risultati di uno studio condotto dall’IZS di Teramo, in collaborazione con l’Università di Trento, la Fondazione Edmund Mach e l’Istituto Pasteur di Dakar in Senegal. Lo studio ha esplorato le modalità di diffusione del WNV, scoprendo percorsi complessi e inaspettati che legano Africa ed Europa. I ricercatori hanno utilizzato tecniche avanzate di analisi genetica e filogeografica ricostruendo così la dinamica evolutiva dei vari ceppi del virus West Nile nel tempo e nello spazio. La combinazione dei due metodi ha permesso di tracciare le rotte di diffusione del virus, fornendo dettagli sulle sue origini e sulla modalità con cui si è diffuso nel corso del tempo. In particolare la ricerca si è concentrata sui due principali lineage del virus, L1 e L2, che hanno percorsi e storie evolutive diversi.

In proposito la ricercatrice Giulia Mencattelli, prima autrice dello studio, fa notare che è interessante quanto scoperto in relazione al lineage 1: “Esiste un vero e proprio ‘corridoio’ tra Senegal, Marocco e i Paesi europei del Mediterraneo occidentale come Portogallo, Spagna, Francia e Italia, ma secondo le nostre analisi non è un corridoio a senso unico: avvengono anche incursioni che vanno dall’Europa all’Africa”.

Il responsabile del Laboratorio di Sanità Pubblica dell’IZS di Teramo, Giovanni Savini, coordinatore del gruppo di ricerca, specifica riguardo alle diverse dinamiche evolutive dei due lineages: “Dai risultati ottenuti sembra che L1 si diffonda più efficientemente di L2 sebbene infettino le stesse specie di uccelli e utilizzino gli stessi vettori. La diversa suscettibilità degli uccelli all’infezione rappresenta solo uno dei possibili fattori che hanno determinato queste differenze, sappiamo infatti ancora poco del ruolo delle zanzare come vettori e della loro recettività all’infezione. Questi sono tutti aspetti del ciclo vitale del virus ancora poco conosciuti e che intendiamo esplorare”.

Proprio l’integrazione dei dati genetici virali con informazioni relative ai movimenti degli uccelli migratori e alla suscettibilità all’infezione delle varie specie potrà portare a una comprensione più profonda di come il virus si diffonde, con l’obiettivo di prevedere e quindi mitigare l’impatto delle future epidemie, costituendo un modello di studio anche per altri virus emergenti.

Fonte: IZS Abruzzo e Molise




Giornata mondiale delle malattie tropicali neglette

Unirsi e ad agire per affrontare le disuguaglianze che causano le malattie tropicali trascurate (NTD) e a fare investimenti coraggiosi e sostenibili per liberare circa 1,62 miliardi di persone, nelle comunità più vulnerabili del mondo, da un circolo vizioso di malattie e povertà”.

Questo l’invito dell’Oms ai leader dei Governi e alle comunità lanciato in occasione della Giornata mondiale delle malattie tropicali neglette 2024. Un gruppo di malattie prevenibili e curabili che colpiscono circa 1,65 miliardi di persone in tutto il mondo,

Lo scopo della Giornata è quindi quello di elevare il profilo delle malattie tropicali trascurate e di raccogliere sostegno per il loro controllo, eliminazione ed eradicazione, in linea con gli obiettivi programmatici stabiliti nella road map NTD 2021-2030 e gli impegni della Dichiarazione di Kigali

Dalla Dengue e chikungunya alla Leishmaniosi e alla Malattia di Chagas fino alla lebbra, sono solo alcune delle malattie tropicali neglette ricordate dall’Oms.

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Fonte: quotidianosanita.it




Un nuovo approccio diagnostico per la Brucellosi canina

La brucellosi canina, una malattia infettiva causata dal batterio Brucella canis , rappresenta una crescente preoccupazione, non solo per gli amanti dei cani e per il mondo degli allevamenti di questi animali, ma potenzialmente anche per la salute umana. Individuare rapidamente i casi e verificare l’evoluzione delle infezioni diventa così un passo cruciale per conoscere meglio la patologia e il microrganismo che ne è responsabile.

La diagnosi certa di brucellosi canina si ha solo con l’isolamento del batterio (il cosidetto “gold standard”) nel sangue dell’animale che si sospetta sia infettato. Ma individuare direttamente il microrganismo significa utilizzare tecniche batteriologiche e molecolari piuttosto complesse, che richiedono tempo e che sono poco adatte quando si ha a che fare con una popolazione numerosa di cani, come ad esempio un allevamento. Esistono anche metodi indiretti, i cosiddetti sierologici, che mirano ad individuare gli anticorpi contro il batterio nel sangue dell’animale. Un team di ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZS-TE) ha ora condotto uno studio che punta a rendere più rapida ed efficiente la diagnosi di questa malattia, che da molto tempo rappresenta una vera sfida per i veterinari e gli operatori della salute animale in genere, sviluppando un protocollo diagnostico che prevede la combinazione di tre test sierologici.

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Fonte: IZS Teramo




Aerosol microbici, opportuno includerli nelle indagini epidemiologiche!

Anche il 2023 non ha smentito la triste fama dell’ottennio (2015-2022) che l’ha  preceduto, caratterizzandosi giustappunto come il più caldo degli ultimi 140 anni (Witze, 2024)!

Tra i numerosi fattori che sono alla base di un siffatto, allarmante fenomeno le aumentate concentrazioni di gas serra (anidride carbonica e metano, in primis) nell’atmosfera giocano senza alcun dubbio un ruolo di primaria importanza, atteso che mai prima d’ora erano stati registrati livelli così alti di CO2 (Witze, 2024).

Di pari passo con l’innalzamento delle temperature medie globali stiamo assistendo ad un progressivo, preoccupante incremento di eventi meteo-climatici estremi, rispetto ai quali siccità ed alluvioni (come quelle verificatesi lo scorso anno in Emilia-Romagna ed in Toscana) rappresentano due facce della stessa medaglia.

Dell’innalzamento delle temperature medie globali potrebbero plausibilmente approfittare una serie di microorganismi patogeni, virali e non, notoriamente dotati di un’elevata resistenza ambientale, nel cui novero andrebbero senz’altro inclusi i due DNA-virus del vaiolo delle scimmie (Monkeypox Virus, Mpx) – già classificato ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità come un agente responsabile di una “emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” (“public health emergency of international concern“, PHEIC) (Rheinbaben et al, 2007) – e della peste suina africana, che nel recente passato ha provocato e sta tuttora determinando ingentissimi danni agli allevamenti ed all’industria suinicola di molti Paesi (Mazur-Panasiuk et al., 2019), nonché i prioni – responsabili dell’encefalopatia spongiforme bovina, alias “morbo della mucca pazza”, l’unica malattia prionica a carattere zoonosico, cioè trasmissibile dagli animali all’uomo (Di Guardo, 2015) – e numerosi batteri sporigeni, quali Bacillus anthracis, Clostridium tetani e C. botulinum.

In un siffatto contesto, la possibilità che i venti, le correnti ed altri fattori metereologici possano veicolare i succitati agenti patogeni (ed altri ancora, accomunati agli stessi da un’elevata resistenza nei confronti dell’inattivazione chimico-fisica) a distanza, anche notevole, rispetto al sito in cui uno o più ospiti infetti li avessero eliminati dovrebbe essere tenuta in debita considerazione.

A tal proposito, infatti, numerosi studi condotti nel corso degli ultimi decenni hanno chiaramente dimostrato che gli aerosol originanti dai mari e dagli oceani (“sea spray aerosols“) presentano una composizione ben più complessa di quella immaginata (ovvero salina), dal momento che al proprio interno ospiterebbero un miscuglio di molecole proteiche, enzimi, acidi grassi e zuccheri, oltre ad una flora microbica composta da svariati agenti di natura batterica e virale (Schiffer et al., 2018).

Ne deriva che l’inclusione (anche) degli aerosol tra i fattori di rilevanza eco-epidemiologica nelle indagini finalizzate a chiarire l’origine di focolai di malattie infettive sostenute da agenti dotati di straordinaria resistenza ambientale potrebbe rivelarsi di grande ausilio in tutti quei casi in cui la stessa dovesse apparire indefinita, se non addirittura indecifrabile.

Va da sé, infine, che un siffatto esercizio presuppone una stretta, costante e permanente sinergia fra Medici e Veterinari e, nondimeno, una forte integrazione di competenze e saperi multidisciplinari, in una sana ottica di “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Repetita Iuvant!

Bibliografia

1) Di Guardo G. (2015). Encefalopatie Spongiformi Transmissibili. In: Marcato P.S. Patologia Sistematica Veterinaria, Seconda Edizione, Edagricole-Il Sole 24 Ore, Bologna.
2) Mazur-Panasiuk N., Żmudzki J., Woźniakowski G. African Swine Fever Virus: Persistence in Different Environmental Conditions and the Possibility of its Indirect Transmission (2019). J. Vet. Res. 13;63(3):303-310. doi: 10.2478/jvetres-2019-0058.
3) Rheinbaben F.V. Gebel J., Exner M., Schmidt A. (2007). Environmental resistance, disinfection, and sterilization of poxviruses. In: Mercer A.A., Schmidt A., Weber O. (Eds.) Poxviruses. Birkhäuser Advances in Infectious Diseases. Birkhäuser Basel. https://doi.org/10.1007/978-3-7643-7557-7_19.
4) Schiffer J.M., Mael L.E.,Prather K.A., Amaro R.E., Grassian V.H. (2018). Sea spray aerosol: Where marine biology meets atmospheric chemistry. ACS Central Science 4(12):1617-1623.
5) Witze A. (2024). Earth boiled in 2023: Will it happen again in 2024? Nature https://doi.org/10.1038/d41586-024-00074-z.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 




L’uso del succo di carne per il monitoraggio della malattia di Aujeszky

Un metodo non invasivo per monitorare i livelli di anticorpi nei suini

La malattia di Aujeszky è una malattia virale febbrile dal decorso acuto che colpisce soprattutto i suini. In altri mammiferi si manifesta sotto forma di infezione del sistema nervoso centrale, con esito spesso mortale, mentre i primati e l’uomo non sono sensibili al virus. Il metodo gold standard individuato dalla organizzazione mondiale per la salute animale (WOAH) per la diagnosi della malattia di Aujeszky è l’analisi del siero attraverso il metodo ELISA. L’adattamento dei protocolli sierologici esistenti a nuove matrici come il succo di carne e il fluido orale potrebbe facilitare la sorveglianza sierologica e ridurre i costi di campionamento. In base alla analisi effettuate è stato dimostrato il potenziale utilizzo del succo di carne come fonte alternativa di anticorpi per i test sierologici. Sono ancora necessarie ulteriori indagini per ottimizzare la procedura sierologica per l’analisi del succo di carne nella routine diagnostica, in quanto non garantisce al 100% l’assenza della malattia. Tuttavia, il potenziale impiego di questa matrice biologica potrebbe essere utile per scopi di monitoraggio, in particolare quando i campioni di siero sono difficili da ottenere presso le aziende suinicole.

Fonte: IZS Piemonte Liguria e Valle d’Aosta