Influenza aviaria: in aumento i casi negli uccelli selvatici, cresce l’attenzione anche verso i mammiferi

Dopo gli eventi di spillover in visoni allevati cresce l’attenzione delle autorità sanitarie verso mutazioni del virus H5N1 che potrebbero favorirne il passaggio ai mammiferi e all’uomo.

L’evoluzione della situazione dell’influenza aviaria a livello globale negli ultimi mesi ha sollevato una certa preoccupazione fra la comunità scientifica internazionale. Dopo i casi confermati di trasmissione del virus H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) dagli uccelli in alcune specie di mammiferi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (Woah) hanno invitato tutti i paesi ad innalzare il livello di allerta sull’arrivo di una nuova pandemia di influenza nella popolazione umana sostenuta da un virus di origine aviare.

Secondo i dati epidemiologici del Centro di referenza nazionale ed europeo per l’influenza aviaria presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), in Italia la circolazione del virus H5N1 fra gli uccelli selvatici è in aumento, con il rischio che questi possano trasmettere il virus agli allevamenti avicoli. Il ministero della Salute ha diramato pochi giorni fa una nota, indirizzata a tutti i Servizi veterinari regionali e agli Istituti Zooprofilattici italiani, in cui ravvisa la necessità di rafforzare la sorveglianza dei volatili selvatici e l’applicazione delle misure di biosicurezza negli allevamenti avicoli.

“La diffusione del ceppo H5N1 HPAI fra gli uccelli selvatici è in aumento, in Italia come nel resto del mondo – dichiara Calogero Terregino, direttore del Centro di referenza per l’influenza aviaria – Nel nostro paese, i casi di H5N1 HPAI nell’avifauna interessano principalmente Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia. Il ministero della Salute ha evidenziato come tale situazione costituisca un rischio costante per gli allevamenti di volatili domestici, considerato che alcune zone ad elevata densità avicola coincidono con le aree dove attualmente si rilevano casi di HPAI nei selvatici. Come Centro di referenza stiamo monitorando l’evoluzione dell’epidemia su tutto il territorio nazionale con estrema attenzione, per evitare che si verifichi una situazione come nell’inverno 2021-2022.”

La situazione in Italia

Negli uccelli selvatici a partire da settembre 2022 sono stati ufficialmente confermati 79 casi di positività fra gabbiani (19), alzavole (13), germani (10) e in altri esemplari di rapaci e anatidi. Molti altri casi sospetti nei gabbiani sono in corso di conferma presso l’IZSVe. Il persistere di casi nei selvatici evidenzia la continua circolazione di H5N1 sul territorio italiano in linea con quanto sta avvenendo in altri paesi europei ed extra europei in cui si registra un aumento di casi anche nel pollame e nei mammiferi selvatici, e in cui sono stati segnalati anche sporadici casi in mammiferi domestici.

Negli uccelli domestici la situazione è più favorevole, dopo la drammatica ondata epidemica di H5N1 HPAI che ha investito prevalentemente il nordest nell’inverno 2021-2022, con 317 focolai negli allevamenti. L’ultimo focolaio nel pollame risale infatti al 23 dicembre 2022, portando a 30 il numero dei casi confermati da settembre 2022. I focolai sono stati riscontrati principalmente in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.

“La situazione negli allevamenti è migliorata rispetto a un anno fa – afferma il dott. Terregino – grazie anche all’intenso lavoro portato avanti dal ministero della Salute in collaborazione con le Regioni e le Asl coinvolte, il Centro di referenza nazionale per l’influenza aviaria e i rappresentanti del mondo produttivo. La collaborazione fra le parti ha permesso di affrontare e migliorare le principali criticità riscontrate, rafforzando in particolare la sorveglianza negli uccelli selvatici e rendendo più efficaci le strategie di prevenzione e la gestione dei focolai negli allevamenti.”

Il rischio di trasmissione nei mammiferi

In Italia non sono stati registrati casi tra i mammiferi, tuttavia sono previste attività di monitoraggio anche in queste specie, in particolare nelle aree umide frequentate da uccelli selvatici potenzialmente infetti.

Il virus H5N1, come molti altri i virus respiratori, è molto plastico e il suo tasso di mutazione genetica è piuttosto elevato. Alcuni ceppi del virus H5N1 (clade 2.3.4.4b) attualmente circolanti fra gli uccelli hanno mostrato mutazioni considerate segni di adattamento ai mammiferi. Alcuni animali, come i visoni, potrebbero consentire il riassortimento genetico di diversi virus influenzali, da cui possono emergere varianti virali più pericolose per gli animali e l’uomo. Sono attualmente in corso presso i laboratori del Centro di referenza per l’influenza aviaria dell’IZSVe studi per approfondire le caratteristiche genetiche e biologiche del ceppo identificato nei visoni in Spagna.

La sorveglianza genetica consente non solo di identificare correttamente il virus ma anche di studiarne le mutazioni. Gli studi finora condotti dall’IZSVe indicano un’evoluzione solo parziale del virus che, per il momento, non è in grado di causare un contagio inter-umano. Non si può escludere però che il virus in futuro possa acquisire caratteristiche tali da renderlo trasmissibile da uomo a uomo. Una delle armi più efficaci per individuare tempestivamente questa eventualità è la condivisione delle sequenze genetiche fra i membri della comunità scientifica, in modo da seguire l’evoluzione del virus nel tempo e nello spazio e capire se si verificano mutazioni che favoriscono la replicazione nei mammiferi.

I rischi per l’uomo

Sebbene colpisca principalmente il pollame e gli uccelli selvatici, l’influenza aviaria può anche se solo occasionalmente essere trasmessa ai mammiferi, compreso l’uomo. Dalla sua comparsa nel 1996 in un allevamento di oche in Cina, il virus H5N1 ha provocato casi di infezione anche tra gli esseri umani in diversi Paesi del mondo, ma con una frequenza sporadica e in particolari condizioni. Ad oggi non sono stati rilevati casi di trasmissione inter-umana del virus H5N1.

I virus aviari non sono in grado di contagiare con facilità l’uomo, nella maggior parte dei casi le infezioni da H5N1 sono avvenute in persone a stretto contatto con volatili infetti in aree molto povere, in condizioni di forte pro­miscuità e scarsa igiene, senza un’opportuna consapevolezza della presenza del­la malattia e dei rischi ad essa associati. Esistono categorie professionali più esposte al rischio, come allevatori avicoli, veterinari, macellatori, trasportatori. Per questi soggetti, che potrebbero venire in contatto più frequentemente con uccelli infetti o morti di influenza aviaria, è previsto un monitoraggio sanitario in caso di epidemia ed è raccomandabile la vaccinazione contro l’influenza umana, come misura per prevenire fenomeni di ricombinazione genetica tra il virus stagionale umano e il virus dell’influenza aviaria.

Fonte: IZS Venezie




LRRC15, un nuovo determinante di suscettibilità/resistenza a SARS-CoV-2

Giovanni Di GuardoRisale a pochi giorni fa, ad opera di un team di ricercatori australiani dell’Università di Sydney, la notizia relativa all’identificazione di un ulteriore recettore nei confronti di SARS-CoV-2 – il famigerato betacoronavirus responsabile della drammatica pandemia da COVID-19 -, localizzato in ambito polmonare nonché a livello delle prime vie aeree e di altri distretti tissutali dell’ospite, ivi compresa la cute.

La molecola in questione, la cui esistenza e’ stata resa nota attraverso un articolo pubblicato sulla prestigiosa Rivista “PLoS Biology”, è denominata “leucine-rich repeat containing protein 15” (LRRC15) e farebbe il paio con il recettore ACE-2, la ben nota porta attraverso cui SARS-CoV-2 sarebbe in grado di penetrare alll’interno delle nostre cellule, così come di quelle delle numerose specie animali naturalmente e/o sperimentalmente suscettibili nei confronti dell’infezione.

Ciononostante, a dispetto di un’elevata affinita’ di legame del virus con entrambi i recettori sopra citati, la pregressa interazione di SARS-CoV-2 con la molecola LRRC15 inibirebbe il successivo legame dello stesso con ACE-2, sequestrando per così dire il virus ed impedendone di fatto l’ingresso nelle cellule ospiti. Inoltre, in concomitanza con la diffusione dell’infezione in ambito polmonare, si assisterebbe ad una contestuale, accresciuta espressione del recettore LRRC15, che ostacolerebbe pertanto l’ulteriore colonizzazione del parenchima e, di conseguenza, il progressivo sviluppo della reazione sclero-fibrotica che frequentemente accompagna l’evoluzione in senso cronico dell’infezione.

Ne deriva che LRRC15 costituirebbe un fondamentale determinante di suscettibilità/resistenza nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, caratterizzandosi in tal modo come una molecola attraverso i cui livelli di espressione in ambito sia polmonare sia delle prime vie aeree, oltre che dei vari distretti tissutali dell’ospite esprimenti la stessa, passerebbe la differente gravità dei quadri clinico-patologici associati alla COVID-19.

Ai livelli di espressione della molecola LRRC15, congiuntamente al grado di omologia del recettore virale ACE-2 (e, possibilmente, anche della “neuropilina-1”), potrebbe infine risultare correlata la maggiore o minore suscettibilità delle diverse specie animali nei confronti dell’infezione naturale e/o sperimentalmente indotta da SARS-CoV-2, nell’imprescindibile ottica della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Giovanni Di Guardo

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 




Influenza aviaria H5N1/HPAI in un allevamento di visoni in Spagna

I ricercatori del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), in collaborazione con i colleghi del Laboratorio di referenza nazionale per l’influenza aviaria spagnolo di Madrid (Spagna) e le autorità sanitarie spagnole, hanno identificato un virus influenzale aviario H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) in un allevamento di visoni da pelliccia nel nord ovest della Spagna. I risultati delle indagini epidemiologiche, cliniche e genetiche sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Eurosurveillance.

I ricercatori del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria (presso l’IZSVe), in collaborazione con i colleghi del Laboratorio di referenza nazionale per l’influenza aviaria spagnolo di Madrid (Spagna) e le autorità sanitarie spagnole, hanno identificato un virus influenzale aviario H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) in un allevamento di visoni da pelliccia nel nord ovest della Spagna.

I fatti risalgono ad ottobre 2022 quando a seguito di un aumento improvviso della mortalità registrato in un allevamento di visoni, alcuni campioni prelevati da animali sintomatici sono stati inviati ai laboratori spagnoli per gli accertamenti analitici. Le analisi hanno permesso di rilevare la presenza del virus H5N1/HPAI.

Al momento è ignoto il meccanismo di introduzione e diffusione del virus in azienda. Tuttavia, considerate le mortalità riscontrate nei volatili selvatici marini nelle settimane precedenti nella stessa regione, causate dal virus H5N1/HPAI, i ricercatori ipotizzano che il virus sia stato introdotto dagli uccelli selvatici. Restano da approfondire i meccanismi di diffusione del virus in azienda e le modalità di trasmissione tra i visoni. Ulteriori studi sono in corso per caratterizzare la virulenza e la trasmissibilità del virus.

Le analisi genetiche hanno consentito di stabilire che il virus appartiene ad un gruppo virale ben conosciuto, responsabile della grave epidemia di influenza aviaria in atto da oltre due anni nei volatili domestici e selvatici in Europa e nel mondo. Sebbene il virus identificato nei visoni si distingua dai ceppi finora descritti nei volatili europei per alcune mutazioni presenti nel suo genoma, si sottolinea che nessuna delle mutazioni rilevate è fra quelle note per rendere un virus H5N1/HPAI trasmissibile efficacemente da uomo a uomo. Gli autori hanno inoltre evidenziato che nessun caso di infezione è stato riscontrato dalle indagini diagnostiche specifiche effettuate dalle autorità sanitarie spagnole negli operatori dell’azienda potenzialmente esposti.

La suscettibilità dei visoni all’infezione con i virus influenzali tipo A umani ed aviari è già stata documentata in diversi studi precedenti. Tuttavia, il caso descritto ricorda l’importanza di implementare adeguati piani di sorveglianza per i virus influenzali in questo settore produttivo e l’assoluta necessità di rafforzare le misure di biosicurezza per prevenire il contatto con i volatili selvatici ed evitare il verificarsi di eventi di trasmissione di virus influenzali dal visone all’uomo e viceversa.

“Questo evento ci ricorda che il virus influenzale aviario ad alta patogenicità H5N1 non è un problema solo dei volatili – sottolinea Isabella Monne, veterinario del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria presso l’IZSVe e coautrice dello studio – È in atto un’emergenza epidemica globale, senza precedenti, che non sconvolge solo la produzione avicola ma che sta colpendo gravemente molte specie di volatili selvatici e sporadicamente anche di mammiferi selvatici, minacciando gravemente la biodiversità del nostro pianeta. La continua circolazione del virus nella popolazione selvatica e le mortalità massive causate dal diffondersi dell’infezione in alcune specie rischia di sbilanciare ulteriormente gli ecosistemi con conseguenze ignote anche sulle dinamiche evolutive del virus. Anche questa emergenza va affrontata con un approccio One Health, globale e multidisciplinare, con la massima attenzione e prontezza, come abbiamo cominciato a capire grazie alla lezione della pandemia da Covid-19. Un virus influenzale capace di causare lo spillover nei mammiferi va fermato prima di diventare un problema per la sanità pubblica”.

Fonte: IZS Venezie




Nuovo virus dei suini sbarca in Europa

In data 11/01/2023, nel Regno Unito è stato confermato l’isolamento di Seneca Valley Virus (SVV) in 5 suini che presentavano lesioni vescicolari, identificate nel corso del 2022. L’introduzione di questo virus, segnalato per la prima volta in Europa, pone le basi per lo sviluppo di un’attività di monitoraggio e diagnosi. La sua rilevanza risiede nella possibilità di essere indagato nella diagnosi differenziale nei confronti di afta, malattia vescicolare del suino e stomatite vescicolare. Tale aspetto riveste un’importanza strategica per l’IZSLER nel controllo delle malattie vescicolari. SVV appartiene alla famiglia dei Picornaviridae ed è originario del Nord America. Il primo isolamento risale al 2002 come risultato di una contaminazione accidentale di una linea cellulare, ma studi retrospettivi hanno dimostrato la sua circolazione negli USA fin dagli anni ’80.

SSV infetta i suini provocando fenomeni di zoppia successivi alla formazione di vescicole contemporaneamente presenti anche in tutti gli arti. La rottura delle vescicole può portare alla formazione di ulcere con sanguinamento. Solitamente la malattia è di breve durata, non sembra avere gravi impatti sulla produzione e può decorrere anche in forma subclinica o asintomatica; tuttavia, negli allevamenti infetti sono stati registrati notevoli incrementi della morbilità e mortalità dei suinetti in età neonatale.

Il suino rappresenta l’ospite naturale di tale patogeno, ma è stato dimostrato che alcuni roditori e insetti potrebbero avere un ruolo nella diffusione del virus fungendo da serbatoio e/o da vettore dell’infezione. Non vi sono ad oggi evidenze di possibile coinvolgimento dell’uomo.

Si ipotizza che la contaminazione degli alimenti e dell’ambiente siano essenziali nella trasmissione del virus ma non sono chiari i meccanismi che determinano l’ingresso del virus in un’area indenne. Dal 2014 si è assistito a una notevole diffusione sia in Sud America (Colombia e Brasile) che nel continente asiatico (Cina, Thailandia e Vietnam). I casi riportati in UK rappresentano la prima segnalazione in Europa, ma non è chiaro quale sia stata la via di ingresso.

Il sequenziamento del genoma completo ha evidenziato l’appartenenza a due cluster distinti, che però deriverebbero da un ceppo ancestrale comune identificato negli USA nel 2020.

Alla luce di questo riscontro, data la costante attenzione verso malattie come afta, malattia vescicolare, stomatite vescicolare, Lumpy Skin Disease non presenti nel nostro Paese, è necessario includere tale infezione virale nella diagnostica differenziale. Considerando la difficoltà incontrata nell’indagine epidemiologica legata a questi casi e l’assenza di profilassi vaccinali, è inoltre raccomandabile applicare le corrette pratiche di biosicurezza in allevamento e durante tutte le fasi di produzione.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




L’impatto dell’antibiotico-resistenza in Europa e nel mondo

AntibioticoresistenzaLe malattie infettive sono da lungo tempo considerate una priorità di salute pubblica globale a causa del loro forte impatto in termini di salute sulla popolazione. Prima i vaccini e poi gli antibiotici ne hanno modificato la storia, riducendo notevolmente la circolazione dei patogeni e la mortalità per malattie infettive trasmissibili.

Ad oggi, quasi un secolo dopo la scoperta del primo antibiotico, l’antibiotico-resistenza rappresenta una delle principali minacce alla salute pubblica, e, secondo le stime, potrebbe causare la morte di 10 milioni di persone all’anno entro il 2050. Per questo la sua diffusione è un problema urgente che richiede un intervento globale e un piano d’azione coordinato.

Alcuni studi hanno evidenziato che le infezioni da patogeni resistenti agli antibiotici hanno un notevole impatto per la salute pubblica, espresso come decessi attribuibili e anni di vita aggiustati per la disabilità (Disability Adjusted Life Years -DALY). Questi studi sono utili perché una delle principali sfide per contrastare l’antibiotico-resistenza è comprendere il vero impatto del fenomeno, in particolare nelle regioni del mondo dove la sorveglianza è limitata e i dati sono scarsi.

Avere delle stime sul numero di decessi dovuti alle infezioni da patogeni resistenti agli antibiotici e sulle loro cause è importante perché permette di programmare interventi di prevenzione e controllo, di definire le priorità per vaccini e farmaci in fase di sviluppo, e conseguentemente di ridurre i decessi associati o attribuibili a queste infezioni.

Queste stime non sono sempre disponibili per tutti i patogeni, a volte sono incomplete (es. per S. pneumoniae le stime sono per lo più ristrette ai bambini di età inferiore a 5 anni e alle infezioni causa di polmonite o meningite) e non coprono tutti i paesi o tutte le combinazioni patogeno-antibiotico.

Ad oggi gli studi sulle cause di mortalità dovuta a patogeni batterici comuni sono limitati, mentre esistono studi che riportano stime per agenti patogeni come Mycobacterium tubercolosisPlasmodium spp e HIV.

Un recente studio pubblicato nel 2022 ha stimato la mortalità globale associata a 33 specie batteriche considerando 11 sindromi infettive. Questo studio stima che nel 2019 si sono verificati 13,7 milioni di decessi per infezioni a livello globale, dei quali 7,7 milioni associati alle33 specie batteriche sia sensibili che resistenti agli antibiotici. I risultati mostrano che più della metà dei decessi sono stati causati da cinque principali batteri patogeni quali Staphylococcus aureusEscherichia coliStreptococcus pneumoniaeKlebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa. Questi batteri erano associati al 13,6% di tutti i decessi a livello globale e al 56,2% di tutte le morti per sepsi nel 2019. In particolare, lo S. aureus è stato associato a più di 1 milione di morti.

Un altro studio, anch’esso pubblicato recentemente (gennaio 2022), descrive un’approfondita analisi dell’impatto sanitario dell’antibiotico-resistenza per 23 patogeni e 88 combinazioni patogeno-antibiotico in 204 paesi, utilizzando specifici modelli statistici anche per le regioni del mondo per le quali non ci sono dati disponibili. È stato stimato che nel 2019, 4,95 milioni di decessi sono stati associati all’AMR, di cui 1,27 milioni di decessi direttamente attribuibili alla resistenza, cioè all’incirca la mortalità per malaria e HIV messi insieme.

Considerando tutte le età, il tasso più elevato di mortalità attribuibile alla resistenza è stato riportato nell’Africa subsahariana occidentale (27,3 decessi per 100.000 abitanti) e il più basso in Australasia (6,5 decessi per 100.000 abitanti). Le infezioni delle vie respiratorie inferiori hanno causato 1,5 milioni di decessi associati alla resistenza nel 2019, rappresentando una delle sindromi infettive più gravi.

Secondo questo studio, sei principali batteri patogeni (E. coliS. aureusK. pneumoniaeS. pneumoniaeP. aeruginosa e A. baumannii) hanno provocato 929.000 decessi attribuibili alla resistenza agli antibiotici e 3,57 milioni di decessi associati alla resistenzavagli antibiotici. In particolare, la combinazione patogeno-antibiotico, S. aureus con resistenza alla meticillina, ha causato più di 100.000 decessi.

I risultati di questo studio indicano che la resistenza dei batteri agli antibiotici è un problema di salute pubblica la cui dimensione è importante almeno quanto le principali malattie infettive, come HIV e malaria, e potenzialmente maggiore.

A livello europeo anche l’ECDC ha pubblicato un rapporto con le stime del numero annuale di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici, del numero di decessi attribuibili, del numero e del tasso di anni di vita aggiustati per disabilità (DALY) e i tassi DALY specifici per gruppo di età.

È stato stimato che tra il 2016 e il 2020, il numero annuo di casi di infezioni da batteri resistenti a determinate classi antibiotiche (dati EARS-Net) nei Paesi dell’UE/SEE variava da 685.433 nel 2016 a 865.767 nel 2019 e 801.517 nel 2020, con un numero annuo di decessi attribuibili che va da 30.730 nel 2016 a 38.710 nel 2019 e 35.813 nel 2020. Se analizzate come DALY, le infezioni hanno portato a un impatto sanitario annuale che va da 909.488 nel 2016 a 1.101.288 nel 2019 e 1.014.799 nel 2020. È stato stimato che il 70,9% dei casi di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici erano infezioni correlate all’assistenza.

Questo dimostra che dal 2016 al 2020 sono state osservate tendenze significativamente in aumento nel numero stimato di infezioni, decessi attribuibili e DALY per 100.000 abitanti a causa dell’antibiotico-resistenza, sebbene i numeri siano leggermente diminuiti dal 2019 al 2020. Il carico maggiore di malattia è stato causato da E. coli resistente alle cefalosporine di terza generazione, seguito da S. aureus resistente alla meticillina e K. pneumoniae resistente alle cefalosporine di terza generazione. Il peso totale specifico per gruppo di età era più alto nei neonati e negli anziani (oltre 65 anni).

Aggiustato per la numerosità della popolazione, il carico complessivo di infezioni da batteri resistenti agli antibiotici è stato stimato essere il più alto in Grecia, Italia e Romania, ognuna con in totale più di 2000 DALY, stimati per 100.000 abitanti, nel periodo 2016-2020.

I cambiamenti nelle stime annuali dell’impatto, riporta l’ECDC, possono essere stati influenzati da cambiamenti nella sorveglianza o da cambiamenti nelle pratiche sanitarie, come nel 2020, quando la pandemia di COVID-19 ha messo sotto pressione tutti i servizi sanitari nei Paesi dell’UE/SEE. Parte della diminuzione nel 2020 può anche essere spiegata dalle misure adottate per controllare la diffusione di COVID-19, compresi i cambiamenti nella prevenzione e nel controllo delle infezioni, e i cambiamenti nella gestione dei pazienti negli ospedali a causa delle diverse pratiche di ricovero durante la pandemia.

Fonte: ISS




Al via bando Riprei per finanziare progetti di ricerca su SARS-CoV-2 e sulle sue varianti

issConoscere meglio Sars-CoV-2, a partire dalla caratterizzazione delle sue varianti e dei meccanismi di diffusione e patogenicità fino all’individuazione di strategie innovative per la diagnosi, la prevenzione e la cura. E’ questo lo spirito del bando per il finanziamento di progetti di ricerca biennali, del valore di 4 milioni di euro (finanziati dal Ministero della Salute attraverso ISS), appena pubblicato nell’ambito del progetto “Rete Italiana per la sorveglianza virologica, il monitoraggio immunologico, la formazione e la ricerca in Preparazione alla gestione delle Emergenze Infettive – R.I.Pr.E.I.”. Al bando possono partecipare ricercatori che operano presso Università, Enti di Ricerca, Enti del Ssn e Sanità militare. Sono previsti finanziamenti sia per progetti pilota, monocentrici, dedicati a idee innovative, che per ricerche più consolidate che riuniscono ricercatori di enti diversi.

Le aree di ricerca per cui si può chiedere il finanziamento sono la caratterizzazione fenotipica delle varianti di SARS-CoV-2, la messa a punto di modelli di infezione in vitro e in vivo, lo studio dell’interazione virus-ospite e meccanismi di patogenicità e nuovi approcci e strumenti diagnostici, preventivi e terapeutici.  “Questo bando di ricerca è associato al finanziamento che supporta la rete di sequenziamento genomico di SARS-CoV-2, già attiva in Italia da aprile 2021, e l’analisi della risposta immunologica alla vaccinazione con metodiche uniformi sul territorio nazionale – sottolinea Silvio Brusaferro, Presidente ISS – un elemento in più a sottolineare che ricerca e salute pubblica devono sempre viaggiare insieme”.

“L’obiettivo è di creare, in sinergia con altre iniziative come il progetto Inf-Act, Finanziato dal PNRR, una rete di ricerca su Sars-CoV-2 e, in prospettiva, sulle emergenze infettive – commenta Anna Teresa Palamara, che dirige il dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss – , sul modello di quella nata all’epoca per lo studio del virus Hiv che ha sostenuto e fatto crescere tanti ottimi ricercatori in Italia”.

Le domande potranno essere presentate entro 45 giorni dalla pubblicazione del bando attraverso la piattaforma dedicata che sarà attiva nei prossimi giorni.

Fonte: ISS




Un nuovo test per individuare anche nei dromedari la malattia epizootica emorragica

La Malattia Emorragica Epizootica del Cervo (EHD), causata da un virus trasmesso dalla puntura di insetti del genere Culicoides, fu individuata per la prima volta nel 1955 durante un’epidemia che colpì gravemente una specie di cervi caratteristica del Nord America. In questi animali, dai quali ha preso il nome originario, la patologia può assumere caratteristiche molto gravi, fino a portare alla morte in una grande percentuale di casi. Ma gli anni successivi mostrarono come possano esserne colpite anche altre specie di ruminanti, sia selvatiche che domestiche come ovini e bovini. Mentre i primi, pur essendo portatori, non sviluppano segni clinici importanti, i bovini possono ammalarsi, con ripercussioni sulla produzione di latte e in generale sull’intero sistema di allevamento

Attualmente è endemica in Nord America e ha causato diverse epidemie nei ruminanti in Africa, Australia, Medio Oriente e Asia. Nel 2006 sono stati riscontrati focolai in Nord Africa (Tunisia, Algeria e Marocco).

L’elevata presenza della malattia nel bacino del Mediterraneo rende particolarmente urgenti e importanti le strategie di rilevamento del virus responsabile (EDHV). Un contributo in questo senso viene da una ricerca realizzata dal  Reparto Produzione Vaccini Virali e Presidi Diagnostici dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM)

Il lavoro scientifico, pubblicato sulla rivista Journal of Tropical Medicine, è stato anche premiato dalla Società Italiana di Diagnostica di Laboratorio Veterinaria nel corso del suo ventesimo Congresso Nazionale.

I ricercatori hanno prima di tutto riprodotto in laboratorio, con tecniche ricombinanti, una proteina virale specifica del virus della Malattia Emorragica Epizootica, denominata VP7. Tale proteina ricombinate ha rappresentato la base per la realizzazione di un test ELISA (che individua la reazione antigene-anticorpo). “I dromedari – dice Simonetta Ulisse, del reparto Produzione Vaccini Virali e Presidi Diagnostici – non sembrano sviluppare segni clinici di malattia, ma possono infettarsi, e per questo motivo potrebbero giocare un ruolo nella diffusione della EHD. Si è formulata l’ipotesi che i dromedari possano rappresentare delle sentinelle ed essere quindi utili per il monitoraggio della presenza della malattia in un certo territorio”.

Con questi animali si punta l’attenzione sull’Africa, area che può rappresentare una vera e propria porta di ingresso verso l’Europa “Il nostro test – spiega Anna Serroni, del reparto Produzione Vaccini Virali e Presidi Diagnostici – si è dimostrato molto valido non solo nel rilevare la presenza di anticorpi specifici contro il virus dell’EHD nel siero di dromedari, ma anche nel discriminare questo virus rispetto ad altri molto simili, come quello della Bluetongue o quello della peste equina. Questo potrebbe permettere la rapida identificazione della malattia, in modo da aiutare gli interventi di sorveglianza e prevenzione anche in aree attualmente non interessate”.

Fonte: IZS Teramo




Covid-19, ancora una volta la Cina insidia il mondo

coronavirusAlle misure draconiane finalizzate al contenimento della diffusione di SARS-CoV-2 – il famigerato betacoronavirus responsabile della Covid-19 – ha fatto seguito l’adozione, da parte della Cina, di una politica diametralmente opposta.

Ciò si è tradotto in una drammatica escalation dei casi d’infezione, molti dei quali gravi e ad esito fatale soprattutto negli anziani, complice il ridotto tasso di immunizzazione della popolazione ottenuto mediante l’utilizzo di vaccini non particolarmente efficaci.

In questi tre anni di pandemia abbiamo acquisito molte conoscenze sul virus e sui suoi rapporti con noi umani e con gli animali. Sappiamo, infatti, che più il virus replica nelle nostre cellule, più è facile attendersi la comparsa di varianti altamente diffusive quali la omicron o patogene quali la delta. Almeno 30 sarebbero, altresì, le specie domestiche e selvatiche suscettibili all’infezione, alcune delle quali – visone e cervo a coda bianca – sarebbero parimenti capaci di “restituire” il virus all’uomo in forma mutata. Come accade per almeno il 70% degli  agenti responsabili delle malattie infettive emergenti, anche SARS-CoV-2 trarrebbe la propria origine dal mondo animale.

Se ne deduce pertanto che la corretta gestione di questa delicata fase della pandemia, ancora una volta di matrice cinese, richiederebbe un approccio olistico e multidisciplinare, ispirato al principio della One Health, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria 
presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo 




In aumento i casi di influenza aviaria nel pollame e negli uccelli acquatici

I casi di infezione da virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) sono aumentati nel pollame e negli uccelli acquatici dall’estate. E’ quanto si afferma nell’ultimo rapporto curato dall’EFSA, dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie e dal Laboratorio di riferimento dell’UE (EURL).

Mentre il numero di segnalazioni di casi di virus HPAI nelle colonie riproduttive di uccelli marini è calato rispetto al precedente periodo di segnalazione (giugno-settembre 2022), il numero di casi negli uccelli acquatici e nel pollame è invece aumentato. Si sospetta che l’aumento del numero di focolai infettivi  nel pollame a partire dall’estate sia legato alla propagazione del virus tramite uccelli acquatici. Informazioni specifiche sull’andamento dei casi sono disponibili in un prodotto interattivo o dashboard pubblicato quest’oggi dall’EFSA.

L’epidemia di HPAI in corso è la più vasta mai osservata in Europa. Nel primo anno dell’epidemia, da ottobre 2021 a settembre 2022, sono stati notificati in 37 Paesi europei un totale di 2 520 focolai nel pollame, 227 focolai nei volatili in cattività e 3 867 casi nei volatili selvatici. Negli allevamenti interessati dal virus sono stati abbattuti circa 50 milioni di volatili. L’insolita persistenza dell’HPAI nei volatili selvatici e nel pollame per tutta l’estate del 2022 indica che per la prima volta non c’è stata una netta separazione tra la fine del primo anno dell’epidemia e l’inizio della stagione HPAI di quest’anno, iniziata nell’ottobre 2022.

L’ECDC, che ha ugualmente contribuito alla stesura del rapporto, ha concluso che il rischio di infezione per la popolazione umana dell’UE/SEE in genere è basso, e da basso a medio per le persone esposte al virus per motivi professionali.

Dando seguito a una richiesta della Commissione europea, l’EFSA sta valutando la disponibilità di vaccini contro l’HPAI per il pollame oltre che potenziali strategie vaccinali. I risultati di questo studio, a cui contribuiscono anche l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) e l’EURL, saranno disponibile nella seconda metà del 2023.

Atti scientifici di riferimento




Leptospirosi canina, i rischi per i veterinari e il cane come sentinella ambientale

I medici veterinari che lavorano a contatto con i cani non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio. È quanto emerge da una ricerca condotta dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e finanziata dal Ministero della Salute (RC IZSVE 05/17), che non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro.

Tuttavia le strutture di ricovero per cani ad alta densità di soggetti, se non gestite con la dovuta attenzione verso questa infezione, potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Un altro studio dell’IZSVe ha infatti analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italiaidentificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe) descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio.

Una ricerca dell’IZSVe non ha riscontrato presenza di anticorpi contro leptospira in nessuno degli oltre 200 campioni di siero umani analizzati, suddivisi equamente tra campioni prelevati da veterinari e da persone non esposte al contatto con i cani per motivi di lavoro. Ciò indica che i medici veterinari non vengono maggiormente infettati da leptospira rispetto alla popolazione meno esposta professionalmente a questo rischio.

Entrambe le ricerche, condotta dalla struttura di Diagnostica in sanità animale (SCT3) dell’IZSVe, sono state pubblicate dalla rivista scientifica International Journal of Environmental Research and Public Health (IJERPH). I dati raccolti dimostrano che una percentuale di cani esposti all’infezione, spesso trasmessa e mantenuta nell’ambiente da piccoli roditori, si ammala manifestando una grave sintomatologia; tuttavia i cani rappresentano per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Le infezioni da leptospira nei veterinari
Nella ricerca sull’esposizione dei veterinari al rischio leptospirosi sono stati analizzati 221 campioni di siero umani tramite mediante test di microagglutinazione (MAT) per Leptospira: 112 provenienti da medici veterinari clinici specializzati in animali d’affezione, e 109 provenienti da persone non professionalmente esposte al contatto con questi animali. Tutti i soggetti provenivano dal Nord Italia, un’area geografica ad alta endemicità di leptospirosi canina.

Le analisi non hanno rilevato alcuna reattività ai test effettuati, indicando che nessuno dei soggetti aveva sviluppato anticorpi verso le leptospire circolanti nel nostro territorio. Ciò indica che i veterinari, nonostante la maggiore esposizione al rischio per ragioni professionali, non si infettano in modo significativamente diverso rispetto alla popolazione di riferimento.

Ciò può essere dovuto alla maggiore consapevolezza dei rischi zoonotici da parte dei veterinari, e quindi all’adozione di efficaci misure di prevenzione nella gestione dei pazienti nell’esercizio della professione; ma anche alla scarsa escrezione di Leptospira nei cani sintomatici, sia per durata di escrezione che per quantità di batteri eliminati. Il cane, pertanto, sembra rappresentare più una sentinella ambientale per la presenza di Leptospira piuttosto che un veicolo di diffusione dell’infezione.

Il focolaio di leptospirosi in canile
Le strutture di ricovero per cani potrebbero rappresentare delle nicchie per la diffusione di leptospirosi, e comportare un rischio maggiore per operatori, volontari, veterinari e famiglie adottanti. Uno studio dell’IZSVe ha analizzato un focolaio di leptospirosi in un canile del Nord Italia, identificandone l’origine in un sierogruppo (Sejroe), descritto raramente nel cane e non incluso in alcun vaccino attualmente in commercio. I cani rappresentano tuttavia per l’uomo soprattutto una sentinella della presenza dell’infezione nell’ambiente, più che una minaccia diretta.

Nello studio sul focolaio di leptospirosi in canile i ricercatori hanno analizzato campioni provenienti da 59 cani su un totale di 78 ospitati dalla struttura, in seguito alla segnalazione e alla conferma di positività di 3 cani sintomatici. I campioni sono stati analizzati sia dal punto di vista sierologico tramite MAT, sia attraverso la ricerca diretta del DNA batterico tramite real-time PCR; i campioni risultati positivi alla PCR sono stati inoltre sottoposti a sequenziamento tramite la tecnica Multilocus sequence typing (MLST) presso il Centro di referenza nazionale per la Leptospirosi dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia-Romagna (IZSLER).

Il 50,9% cani esaminati è risultato positivo ad almeno uno dei test effettuati. Il 37,3% cani ha mostrato sieropositività ad almeno una sierovariante appartenente al sierogruppo Sejroe, e le analisi tramite MLST hanno permesso di identificare L. borgpetersenii, sierogruppo Sejroe (ST155) come responsabile dell’epidemia. L’infezione da parte di questo sierogruppo è stata segnalata sporadicamente nei cani in Italia.

Al fine di aumentare la sensibilità dei servizi diagnostici erogati, questi dati hanno indotto l’IZSVe ad includere nel pannello degli antigeni previsti dal MAT due sierovarianti aggiuntive appartenenti al sierogruppo Sejroe (Sejroe e Saxkoebing) oltre ad Hardjo, già prevista nel pannello del MAT condiviso a livello nazionale.

Dallo studio emerge inoltre che la sorveglianza delle infezioni da Leptospira nei canili è sempre raccomandata, anche quando viene correttamente somministrata la profilassi vaccinale: attualmente infatti i vaccini disponibili per Leptospira non sono in grado di proteggere i cani dal sierogruppo Sejroeoltre che da altri sierogruppi circolanti nel territorio.

Dai dati raccolti non è stato possibile determinare con certezza se Leptospira fosse stata introdotta nel canile dall’ingresso di un cane infetto, piuttosto che dal contatto dei cani con altre specie serbatoio diffuse nello stesso ambiente, come ratti o topi. Tuttavia, dato che gli animali risultati positivi erano distribuiti in vari settori del canile e includevano soggetti che non erano mai entrati in contatto tra loro, secondo i ricercatori la circolazione di piccoli roditori infetti rappresenta la modalità più probabile con cui può essersi diffusa l’infezione. Questa ipotesi è sostenuta anche dall’assenza di nuovi casi clinici segnalati dopo l’intervento di derattizzazione effettuato nel canile in seguito all’identificazione del focolaio.

Fonte: IZS Venezie