Una tecnica per individuare il miele adulterato

L’Ente italiano di Normazione (UNI) ha da poco pubblicato la norma UNI 11972:2025 Miele, che  fornisce un metodo analitico basato sulla tecnica spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR) in alta risoluzione per identificare marker specifici di tre adulteranti saccaridici maggiormente utilizzati per diluire il miele: inulina, zucchero invertito e sciroppo di mais/malto. La pubblicazione della norma segna un importante traguardo per il riconoscimento ufficiale delle tecniche NMR in campo giuridico.

A mettere a punto la tecnica per questo specifico ambito, il Gruppo di lavoro “GL 23-autenticità degli alimenti” istituito nell’ambito dell’accordo di collaborazione attivo tra Cnr e UNI, che prevede – tra le altre cose- la partecipazione di ricercatori dell’Ente ad attività di normazione tecnica. Project Leader del Gruppo, è Roberto Consonni dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr di Milano (Cnr-Scitec), che spiega: “Il miele, come altri prodotti alimentari di pregio, rappresenta un target per l’adulterazione al fine di ottenere maggiori profitti; inoltre, in questi ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, le quantità di miele risultano fortemente ridotte. Analisi internazionali – come un recente “technical report” del JRC – hanno fornito segnali allarmanti, affermando che quasi la metà del miele importato in Europa da differenti nazioni europee ed extraeuropee non è conforme alla direttiva europea 2001/110/EC, che definisce gli standard qualitativi minimi per il miele per uso alimentare: è, cioè, da considerarsi adulterato”.

L’adulterazione più diffusa consiste nella diluizione di miele autentico con sciroppi saccaridici di diversa origine vegetale a basso costo, con composizione complessa e di difficile identificazione.

Oggi, grazie alla tecnica NMR, è possibile identificare e quantificare selettivamente dei segnali specifici per ogni tipo di adulterante saccaridico considerato nello studio. In pratica si osservano dei marker specifici presenti in concentrazioni elevate nei campioni di miele adulterati artificialmente.

“La tecnica è stata testata su tre varietà botaniche di miele, in particolare miele di castagno, millefiori ed acacia con i tre adulteranti saccaridici. Presso il laboratorio NMR di Cnr-Scitec è stato messo a punto un protocollo analitico per la preparazione dei campioni, l’acquisizione dei dati NMR ed il processing dei dati ottenuti dalle misure eseguite. Questo protocollo, che ha testato l’adulterazione dei campioni di miele autentico con ciascuno dei tre adulteranti in percentuali dal 10% al 30% in peso  è stato condiviso con diversi laboratori nazionali di enti di ricerca diversi, che hanno analizzato gli stessi campioni e validato il metodo.

Il Gruppo di lavoro ha coinvolto, oltre a studiosi del Cnr-Scitec, anche colleghi e colleghe di altri Istituti Cnr – l’Istituto di chimica biomolecolare (Cnr-Icb) e l’Istituto per i sistemi biologici (Cnr-Isb)- e di altre istituzioni quali la Fondazione Edmund Mach, l’Università degli Studi di Milano,  l’Università di Parma, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università di Modena e Reggio Emilia e l’Università di Padova.

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Fonte: CNR




Dengue e cambiamenti climatici

Un recente articolo pubblicato dal BMJ della giornalista freelance Kamala Thiagarajan offre un’analisi approfondita dell’impatto della dengue a livello globale, evidenziando il 2024 come un anno critico per questa malattia, aggravato dal record di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1).  La dengue, trasmessa dalle zanzare Aedes aegypti e Aedes albopictus, è una crescente minaccia sanitaria globale. Nel 2024 sono stati registrati oltre 12 milioni di casi e 8.000 decessi in 86 paesi (2). Un incremento che riflette l’intreccio tra cambiamento climatico, urbanizzazione e disuguaglianze socioeconomiche. Partendo dall’articolo di Thiagarajan, presentiamo un’analisi generale dell’impatto del clima sulla diffusione della dengue, come di altre malattie trasmesse da vettori, l’efficacia delle politiche di prevenzione e trattamento, e le implicazioni economiche e politiche che influenzano la gestione di queste minacce sanitarie nell’era del cambiamento climatico.

La diffusione globale della dengue: dati e tendenze

Negli ultimi decenni, le malattie trasmesse da zanzare hanno registrato un aumento significativo, spinto da cambiamenti climatici, urbanizzazione e mobilità umana. Il Lancet Countdown on Health and Climate Change del 2023 (3) evidenzia che il cambiamento climatico ha aumentato del 30% la diffusione della dengue negli ultimi vent’anni, con implicazioni simili per altre malattie come Zika, Chikungunya e malaria. Secondo il BMJ,  le Americhe hanno visto un incremento allarmante dei casi di dengue: 9,7 milioni di infezioni nel 2024, oltre il doppio rispetto ai 4,6 milioni del 2023 (Fig. 1). Dal 1990, i casi di dengue sono raddoppiati ogni decennio, mettendo a rischio quasi la metà della popolazione mondiale. Confrontando i decenni 1951-1960 e il 2013-2022, il tasso di riproduzione base (R0) della dengue è aumentato del 28% per Aedes aegypti e del 27% per Aedes albopictus, con un allungamento della stagione di trasmissione dal 13% al 15%. Questo aumento preoccupante si riflette anche nelle proiezioni future che, sempre nelle Americhe, indicano che entro il 2039 la malattia potrebbe interessare il 97% dei comuni in Brasile e il 91% in Messico, coinvolgendo grandi città densamente popolate come Città del Messico e Porto Alegre. Anche in Asia la situazione è allarmante, in India, che rappresenterebbe un terzo del carico globale di dengue, modelli epidemiologici stimerebbero 33 milioni di casi clinicamente evidenti ogni anno (4). Tuttavia, il governo ha riportato ufficialmente solo 157.325 casi dal 2019, segnalando una drammatica sottostima che complica, tra le altre cose, la pianificazione sanitaria.

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Fonte: saluteinternazionale.info




Comprendere il disagio degli animali

In quanto problema ampiamente riconosciuto che ne compromette il benessere, il disagio degli animali viene spesso menzionato nella ricerca, nella legislazione e nelle linee guida etiche; ciononostante, il modo in cui viene definito in questi documenti è vago e incoerente, il che ne rende difficile la quantificazione e complica l’allineamento degli standard etici in ambito di ricerca. Inoltre, fa sì che sia difficile valutare oggettivamente il benessere animale. Per contribuire a colmare queste lacune, il progetto PIGWEB, finanziato dall’UE, hapubblicato un documento programmatico a sostegno dell’impiego di una definizione standardizzata di disagio degli animali in diverse specie, contesti e discipline.

Definire il disagio animale

L’identificazione del disagio è un passo fondamentale per soddisfare la crescente domanda di una produzione zootecnica più sostenibile, nonché orientata al benessere. Utilizzando il maiale domestico come modello, i ricercatori attivi in PIGWEB hanno effettuato un’analisi concettuale per giungere alla seguente definizione di disagio animale: «stato affettivo negativo di breve o lunga durata caratterizzato da componenti fisiche, fisiologiche e/o mentali, indotto da stimoli interni o esterni e di entità da lieve a grave, che può verificarsi insieme ad altri stati affettivi negativi e che porta a evitare o a cercare di alleviare la fonte del malessere». Il team ha analizzato un totale di 118 documenti rilevanti pubblicati in inglese che definivano e/o misuravano il disagio in suini e altre tipologie di animali. Descritta in dettaglio in uno studio pubblicato sulla rivista «Livestock Science», l’analisi ha rivelato che il disagio degli animali presenta tre campi di ramificazione, ovvero di tipo fisico e sensoriale causato da ferite, lesioni, rumori forti, temperature estreme e odori forti; di tipo fisiologico provocato da squilibri metabolici, infezioni e carenze nutritive; e infine di tipo mentale come ansia, paura, frustrazione o noia.

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Fonte: Commissione Europea




Il pesce palla argenteo arriva nell’Adriatico del Nord: attenzione al suo veleno!

Un pesce palla argenteo è stato pescato nella baia di Medulin, nel sud dell’Istria, segnando una nuova e preoccupante tappa nella diffusione di questa specie aliena nel Mediterraneo. La cattura dell’esemplare, effettuata da un pescatore sportivo a maggio 2024, è diventata di pubblico dominio solo nel marzo 2025, quando uno studio dell’Università di Pola con l’Istituto oceanografico di Spalato, pubblicato sulla rivista Acta Ichthyologica et Piscatoria ne ha confermato l’identificazione: “Lagocephalus sceleratus”.

 Si tratta del primo avvistamento di pesce palla argenteo nel nord dell’Adriatico e il più settentrionale mai registrato in tutto il bacino mediterraneo. La sua cattura rappresenta un campanello d’allarme per biologi marini, pescatori e autorità sanitarie, dato che si tratta di un pesce altamente tossico per l’uomo e dannoso per l’ecosistema marino.

Una minaccia per la salute pubblica

Il “Lagocephalus sceleratus” è un pesce appartenente alla famiglia dei Tetraodontidae, originario dell’Oceano Indiano e del Pacifico. La sua caratteristica principale, oltre all’aspetto inconfondibile con “guance argentate” e un becco simile a quello di un pappagallo, è la presenza di una neurotossina mortale: la tetrodotossina. Questa sostanza, mille volte più potente del cianuro, può causare paralisi respiratoria e arresto cardiaco, ed è termostabile, cioè resistente alla cottura. In passato, le autorità sanitarie hanno registrato casi mortali in Egitto e in Italia, con episodi documentati negli anni ’70 e ’80. In Giappone, dove alcune specie di pesce palla vengono consumate come prelibatezze (fugu), esistono regolamenti severissimi per la preparazione, ma in Europa la commercializzazione è vietata dal Regolamento CE n. 853/2004.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




IZSVe inaugura la sezione di Belluno: presidio di ecopatologia e sicurezza alimentare a servizio della sanità pubblica

Giovedì 17 aprile è stata inaugurata la sezione territoriale di Belluno dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe). Alla cerimonia, oltre alla Direttrice generale dell’IZSVe Antonia Ricci, erano presenti l’Assessore alla Sanità, Servizi sociali e programmazione socio-sanitaria della Regione del Veneto Manuela Lanzarin, il Sindaco di Belluno Oscar De Pellegrin, il Presidente IX Commissione Industria, commercio, turismo, agricoltura e produzione agroalimentare al Senato Sen. Luca De Carlo e il Direttore generale di ARPA Veneto Loris Tomiato.

La sezione di Belluno, parte della SCT2 – Treviso, Belluno e Venezia, è impegnata in diverse attività legate alla sanità pubblica veterinaria. Si occupa della sorveglianza sanitaria della fauna selvatica, fornisce consulenza al Servizio sanitario nazionale, a istituzioni e associazioni, e promuove attività di informazione e formazione rivolte alla popolazione, ad associazioni e operatori del settore. Svolge inoltre attività di ricerca scientifica su malattie trasmissibili dagli animali selvatici all’uomo e studio dei fattori ambientali che ne influenzano la diffusione. Al suo interno è ospitato il Centro specialistico fauna selvatica, coordinato dal dott. Carlo Citterio. Nel 2024 i laboratori hanno eseguito 7.737 analisi nell’ambito della sanità animale.

“Le sezioni territoriali rappresentano un presidio sanitario fondamentale, radicato nel contesto locale ma con uno sguardo attento alle dinamiche globali, che va tutelato e valorizzato” ha dichiarato la Dg Antonia Ricci. “Grazie alla loro specializzazione tecnico-scientifica, le sezioni dell’IZSVe riescono ad interpretare in profondità i bisogni specifici del territorio e, allo stesso tempo, a rispondere in modo efficace alle sfide sanitarie globali. Pur essendo geograficamente decentrato, il territorio bellunese, per le sue caratteristiche ambientali e produttive, riveste un ruolo chiave per alcune tematiche di sanità pubblica, come le malattie trasmesse da zecche, la tutela della fauna selvatica e la sicurezza alimentare delle produzioni lattiero-casearie di malga. Grazie alle collaborazioni con diverse realtà a livello locale, nazionale e internazionale, la sezione di Belluno è oggi un punto di riferimento per le istituzioni e la comunità scientifica.”

“Questa nuova sezione territoriale dell’Istituto zooprofilattico – sottolinea l’assessore Manuela Lanzarin si delinea già come un importante presidio per un territorio complesso e particolare. È inserita, infatti, in un’ampia zona montana della nostra regione contrassegnata da ampi spazi con una presenza massiccia di fauna selvatica ma anche da aree antropizzate e produttive con una diffusa presenza di bestiame da allevamento soprattutto in funzione di un’affermata vocazione alla produzione lattiero-casearia. Un simile presidio di sanità pubblica, quindi, è fondamentale; un ulteriore tassello della collaborazione che vede sempre complementari la sanità regionale e l’IZSVe, anche in un’ottica di approccio ‘One Health’, in cui sono strettamente connesse la salute umana, quella animale e quella dell’ecosistema. Esprimo, quindi, a nome della Regione grande soddisfazione per questo ulteriore traguardo raggiunto”.

Di recente è stato siglato un accordo di collaborazione fra IZSVe e Ulss 1 Dolomiti per sviluppare temi di interesse comune in ambito di sanità pubblica e sicurezza alimentare, anche in vista dei Giochi Olimpici Invernali Milano-Cortina 2026. Nello specifico, le attività di sanità pubblica riguardano soprattutto l’approfondimento di conoscenze e aspetti tecnico-scientifici sulle zecche e le malattie trasmesse da questi vettori, nonché la ricognizione di potenziali zoonosi dagli animali selvatici all’uomo. In tema di sicurezza alimentare sono stati avviati due progetti: “Sicurezza olimpica” con l’obiettivo di elevare gli standard igienico-sanitari delle attività di somministrazione e vendita di alimenti al dettaglio; “Malghe 2.0” finalizzato a migliorare la sicurezza dei prodotti lattiero-caseari di malga, soprattutto quelli a latte crudo.

Un altro ambito di particolare rilevanza è rappresentato dalla peste suina africana (PSA) nelle popolazioni di cinghiali. La sezione di Belluno, anche attraverso il Centro specialistico fauna selvatica, già da diversi anni ha notevolmente intensificato le attività di ricerca per il miglioramento della sorveglianza e per la preparedness alla possibile introduzione di questa infezione. Collabora inoltre alla stesura e attuazione dei Piani Regionali di Interventi Urgenti (PRIU) per la gestione della PSA, ed è coinvolto in numerose attività di formazione, informazione e supporto tecnico-scientifico.

Comunicato Stampa




L’alfa e l’omega del trapasso di Francesco

Il primo gesuita ad essere proclamato pontefice, il primo seguace di Pietro a “indossare” il nome del “Poverello di Assisi”, Papa Francesco non finisce di stupirci anche in “sorella morte”, sorprendentemente avvenuta dopo il triduo della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, ma anche nel giorno del Natale di Roma.

Nascita, morte e rinascita, prodigioso incontro di alfa e omega, alias “coincidentia oppositorum”, per dirla con le parole del celebre filosofo Nicola Cusano!

Un grande, straordinario pastore per noi credenti, ma anche per coloro che non credono, un infaticabile messaggero di gioia, di pace e di fratellanza universale, un umile servo sempre e comunque dalla parte degli ultimi, questo è stato – e continuerà ad essere -, con arrotondamento per difetto, il nostro Sommo Pontefice!

Grazie Francesco e che Madre Terra, da Te tanto amata, custodita e difesa, Ti sia lieve!

 

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Acque reflue trattate: un veicolo per la diffusione di Klebsiella Pneumoniae

Gli impianti di depurazione potrebbero agire come centri nevralgici per la diffusione di batteri patogeni resistenti agli antibiotici. È quello che emerge da uno studio nato da una collaborazione tra l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) e il National Biodiversity Future Center (NBFC) di Palermo. I ricercatori hanno infatti rilevato la presenza del batterio Klebsiella pneumoniae in un depuratore urbano del Centro Italia.

Klebsiella pneumoniae è un batterio naturalmente presente nel microbioma umano. Alcuni ceppi causano gravi infezioni respiratorie, urinarie e del sangue, che colpiscono soprattutto individui fragili e spesso in ambienti sanitari, come gli ospedali. Klebsiella pneumoniae è uno dei microrganismi che destano maggiore preoccupazione a livello mondiale per la sua resistenza all’azione di numerosi antibiotici, compresi quelli cosiddetti di ultima istanza, come la colistina.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Pollution”, si è basato sull’analisi di campioni prelevati dalle acque in entrata, dalla vasca di sedimentazione e dalle acque in uscita di un impianto di depurazione urbano. I campioni, raccolti in quattro periodi distinti durante il 2018, hanno mostrato la presenza di 42 ceppi di Klebsiella pneumoniae, in seguito caratterizzati attraverso sequenziamento dell’intero genoma. Numerosi ceppi isolati (47 %) mostravano un fenotipo di multi-resistenza ad almeno tre classi di antibiotici, con alcuni di essi resistenti anche alla colistina. Sono stati inoltre isolati i cloni ST307, ST35, ST45 noti per essere ad alto rischio e in rapida espansione in Italia.

“La Klebsiella pneumoniae – dice Alessandra Cornacchia, ricercatrice IZSAM e prima autrice dello studio assieme al ricercatore IRSA Andrea Di Cesare – è tra le principali cause di infezioni in contesti sanitari. Se gli impianti di trattamento delle acque reflue non vengono adeguatamente monitorati possono contribuire alla diffusione di questo pericoloso batterio nell’ambiente e nelle comunità. I monitoraggi, oltre a individuare il problema, forniscono indicazioni fondamentali per guidare le azioni correttive necessarie, come la modifica degli impianti, al fine di ridurre la diffusione del fenomeno”.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Inquinamento da microplastiche: in arrivo un nuovo regolamento Ue

microplastiche È stato raggiunto un accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sulla proposta di regolamentazione avanzata dalla Commissione rispetto al problema dell’inquinamento da microplastiche che si verifica durante le operazioni di trasporto, in particolare via mare.

“Ancora oggi, molti pellet di plastica vengono persi durante le operazioni quotidiane negli impianti di movimentazione o durante il trasporto che finiscono nell’ambiente, anche in mare, a causa di una manipolazione inadeguata da parte degli operatori marittimi e di altri operatori”, si legge in una nota diffusa dalla Commissione. “Le nuove norme dovrebbero ridurre le perdite di pellet di plastica fino al 74%, il che contribuirà a preservare gli ecosistemi e la biodiversità, ridurre i rischi per la salute umana e migliorare la reputazione del settore”.

Al fine di ridurre gli oneri amministrativi per le piccole imprese, la Commissione proposto di limitare gli obblighi di certificazione alle imprese che trattano più di 1.500 tonnellate di pellet di plastica all’anno. Al di sotto di tale soglia sarà richiesta solo un’autodichiarazione. Le imprese più piccole beneficeranno di un’assistenza speciale per conformarsi al nuovo regolamento. Il Parlamento europeo e il Consiglio dovranno ora adottare formalmente il nuovo regolamento prima che possa entrare in vigore, 20 giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Ue.

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Fonte: alimentando.info




Perdite e sprechi alimentari, obiettivi di riduzione nella proposta di direttiva UE

Lotta Spreco Alimentare Il 19 marzo 2025, il Consiglio dell’Unione Europea ha pubblicato il documento 7258/25, che delinea il compromesso finale sulla proposta di riforma della Direttiva Quadro sui Rifiuti 2008/98/CE, con una forte attenzione alla lotta alla perdita e allo spreco di cibo (food loss and waste, FLW).

Questa iniziativa legislativa mira a rafforzare la sostenibilità ambientale e sociale del settore alimentare all’interno dell’UE, basandosi sui principi dell’attuale direttiva quadro sui rifiuti e sostenendo sia il Green Deal europeo che il Piano d’azione per l’economia circolare. Attualmente, questo accordo tra Consiglio e Commissione è una bozza e richiede ulteriori negoziati e l’approvazione del Parlamento europeo attraverso il processo di trilogo.

La presente analisi fornisce uno sguardo approfondito agli elementi chiave di questo testo di compromesso, compresi gli obiettivi nazionali proposti, giuridicamente vincolanti, per la riduzione delle perdite alimentari e dei rifiuti e le strategie per la loro attuazione.

Contesto giuridico e politico

La proposta di riforma della direttiva quadro sui rifiuti mira a “rafforzare e accelerare l’azione dell’Unione e degli Stati membri per garantire la sostenibilità ambientale e sociale dei settori tessile e alimentare”, in quanto gli alimenti sono considerati il settore a più alta intensità di risorse, che causa notevoli esternalità ambientali negative.

Il settore alimentare non è ancora pienamente conforme ai principi fondamentali dell’Unione in materia di gestione dei rifiuti, come delineato nella gerarchia dei rifiuti (ovvero la scala di Lansink), che dà la priorità alla prevenzione delle perdite e dei rifiuti alimentari. Per affrontare questa sfida è necessaria una soluzione sistemica basata su un approccio al ciclo di vita, con particolare attenzione ai prodotti alimentari (considerando 1-2).

Contesto strategico

Il testo ricorda gli impegni assunti dagli Stati membri nell’ambito dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, in particolare l’obiettivo 12.3 SDG, che mira a dimezzare lo spreco alimentare globale pro capite entro il 2030 e a ridurre le perdite alimentari lungo le catene di produzione e di approvvigionamento, comprese quelle post-raccolto. La Commissione ha dato seguito alla Conferenza sul futuro dell’Europa organizzando un gruppo di cittadini (dicembre 2022 – febbraio 2023), che ha suggerito tre azioni chiave:

  • migliorare la cooperazione lungo la catena del valore alimentare;
  • incoraggiare le iniziative delle imprese alimentari
  • promuovere cambiamenti nel comportamento dei consumatori‘ (Considerando 5-6).

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Fonte: foodtimes.eu




Afta epizootica: una scommessa sulla zootecnia in Europa?

muccaL’afta epizootica (Food and Mouth Disease, FMD) è un’infezione virale altamente contagiosa che rappresenta una grave minaccia per la salute del bestiame e la biosicurezza agricola in Europa. I recenti focolai di infezione confermati in Germania, Ungheria e Slovacchia non hanno peraltro trovato, ad avviso di chi scrive, una risposta idonea a contenere il rischio di ulteriore diffusione della malattia.

Gli standard e le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (WOAH, World Animal Health Organisation) prevedono infatti rigorose restrizioni alla movimentazione di animali dalle regioni colpite. Tali restrizioni sono state invece limitate, in Unione Europea, alle sole ‘zone rosse’. Senza neppure prescrivere i test sierologici prima del trasporto degli animali vivi.

Afta epizootica: introduzione

L’afta epizootica (FMD) è causata da un apthovirus della famiglia Picornaviridae, con sette sierotipi immunologicamente distinti (A, O, C, SAT1, SAT2, SAT3 e Asia1) e molteplici sottotipi. Il virus presenta alti tassi di morbilità, potendo infettare il 100% delle popolazioni suscettibili non vaccinate.

Sebbene gli animali adulti raramente soccombano alla malattia, i tassi di mortalità nei giovani possono essere elevati a causa di infezioni secondarie o della mancanza di latte da madri infette (WOAH, World Animal Health Organisation).

Trasmissione della FMD tra animali

L’afta epizootica (FMD) è una delle malattie virali più contagiose che colpiscono gli animali ungulati, in grado di diffondersi rapidamente sia all’interno che tra gli allevamenti. L’agente patogeno viene eliminato in grandi quantità dagli animali infetti attraverso tutte le escrezioni e secrezioni — inclusi saliva, latte, seme, urina e feci — anche prima della comparsa dei segni clinici. La trasmissione avviene attraverso diverse vie:

  • contatto diretto. Esposizione nasale o orale a secrezioni infette, specialmente in aree di pascolo condivise o spazi confinati. La trasmissione materna può avvenire attraverso l’allattamento, dove i giovani animali sono esposti al virus nel latte o attraverso il contatto stretto con madri infette;
  • trasmissione indiretta. Il virus può sopravvivere per giorni o settimane su fomiti come mangimi, acqua, veicoli, attrezzature e indumenti contaminati, specialmente in condizioni fresche e umide (Alexandersen et al., 2003);
  • trasmissione aerea altrettanto significativa, soprattutto nei climi temperati. Il virus può viaggiare fino a 60 km su terra e fino a 300 km sull’acqua in condizioni meteorologiche ottimali (Gloster et al., 2005). I suini, in particolare, agiscono come ‘ospiti amplificatori’ emettendo fino a 1.000 volte più virus per via aerea rispetto ai bovini (Donaldson et al., 2001);
  • prodotti animali. Carne cruda o non lavorata correttamente, latte e midollo osseo possono ospitare virus vitale. Una delle pratiche a più alto rischio è l’alimentazione degli animali con scarti che contengano prodotti da animali infetti (WOAH);
  • vettori, sia meccanici che biologici, contribuiscono alla diffusione del virus. Uccelli, roditori e insetti possono trasferire passivamente il virus della FMD tra località. Nelle regioni endemiche, serbatoi selvatici come il bufalo africano (Syncerus caffer) mantengono il virus in modo asintomatico, complicando gli sforzi di controllo ed eradicazione (Vosloo et al., 2002).

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Fonte: foodtimes.eu