Una ricerca dell’IZSPLV sulla salute dei serpenti selvatici premiata al “Game of Research”

L’IZSPLV ha condotto un’indagine nazionale su Ophidiomyces ophiidicola, agente eziologico dell’ofidiomicosi, una patologia emergente che minaccia la biodiversità dei serpenti. in alcune popolazioni di ofidi statunitensi questa patologia è associata ad una aumentata mortalità. Lo studio ha analizzato centinaia di campioni tra recenti e storici, provenienti da quasi tutte le regioni italiane, rilevando il patogeno in cinque specie diverse. I dati ottenuti sottolineano sia la diffusione attuale sia la presenza storica di questa micosi in Italia, evidenziando la necessità di un monitoraggio standardizzato e di strategie di conservazione mirate.

I risultati del lavoro sono stati presentati nel corso della quarta edizione del Game of Research una giornata di condivisione e divulgazione scientifica dedicata alle Scienze Veterinarie, che è stata ospitata dal Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università degli Studi di Torino.

Il contributo proposto dall’IZSPLV Ophidiomyces ophiidicola and Ophidiomycosis: occurrence and distribution in free-ranging Italian snakes since the mid-20th century, è stato presentato da Matteo Riccardo Di Nicola e Pierluigi Acutis ed è stato premiato quale seconda migliore tra le “presentazioni orali”.

Questo riconoscimento conferma il valore della ricerca e l’impegno da parte dell’IZSPLV nella tutela dell’erpetofauna selvatica, che contribuisce alla diffusione di una maggiore consapevolezza sulle patologie emergenti che minacciano gli ecosistemi.

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Fonte: IZS Piemonte Liguria Valle d’Aosta




Un quarto degli animali d’acqua dolce a rischio estinzione

Inquinamento, dighe, agricoltura intensiva, specie invasive. E così rischiamo di perdere la bellezza di 23mila specie che vivono negli ecosistemi d’acqua dolce, quasi un quarto del totale. Sarebbe un duro colpo alla biodiversità: a lanciare l’allarme è un gruppo di scienziati della International Union for Conservation of Nature (Iucn), un’organizzazione non governativa internazionale con sede in Svizzera, in uno studio appena pubblicato sulle pagine della rivista Nature. Gli autori auspicano che i risultati del loro lavoro spronino e aiutino i decisori a intraprendere al più presto tutte le azioni necessarie a preservare la biodiversità delle acque dolci e scongiurare il pericolo di estinzione delle specie a rischio.

“Gli ecosistemi di acqua dolce”, scrivono i ricercatori nello studio, “sono ricchissimi di biodiversità e rappresentano un mezzo di sussistenza e di sviluppo economico per molte popolazioni umane, e sono attualmente sottoposti a uno stress molto elevato”. La maggior parte delle valutazioni finora compiute sulle specie a rischio di estinzione, però, non si erano concentrate su quelle che vivevano nelle acque dolci, e ciò ha parzialmente condizionato le politiche di conservazione.

“Finora, le politiche ambientali e le definizioni delle priorità di conservazione sono state stabilite soprattutto sulla base dei dati relativi ai tetrapodi terrestri. Abbiamo le prove che questi dati non sono sufficienti a rappresentare le esigenze delle specie di acqua dolce né a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati in fatto di biodiversità”. Tutelare questa biodiversità è particolarmente importante: le acque dolci ospitano, infatti, oltre il 10% di tutte le specie viventi conosciute, e molte di esse svolgono un ruolo fondamentale per il ciclo dei nutrienti, per il controllo delle inondazioni e per la mitigazione dei cambiamenti climatici.

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Fonte: repubblica.it




ISS – Influenza aviaria, cosa sapere

issChe cos’è l’influenza aviaria? Perché se ne parla?
Con il termine influenza aviaria si definisce una infezione virale che si verifica principalmente negli uccelli. In particolare, gli uccelli selvatici, soprattutto acquatici, sono il veicolo principale di diffusione di questi virus, che poi possono essere trasmessi, ad esempio, agli animali da allevamento, provocando danni economici ingenti, e, sporadicamente, all’uomo. I virus aviari hanno una grande capacità di mutare e, recentemente, alcuni di questi ceppi virali sono stati trasmessi anche ai mammiferi, tra cui bovini, e animali da compagnia, in particolare gatti.

Negli ultimi mesi si è parlato molto dei virus aviari, soprattutto per i diversi focolai che si stanno verificando negli USA, che coinvolgono in particolare gli allevamenti di bovini da latte, con centinaia di casi negli animali e alcune decine di contagi nell’uomo, generalmente con sintomatologia lieve, associata per lo più a congiuntivite e talvolta a sintomi che coinvolgono le vie respiratorie superiori (qui la pagina del CDC con gli ultimi aggiornamenti sul tema). Lo scorso 6 gennaio il CDC statunitense ha segnalato il primo decesso in una persona ricoverata per influenza aviaria in Luisiana.
Al momento in Italia non si segnalano infezioni in allevamenti di bovini, mentre, come accade ormai da diversi anni, ci sono stati focolai in allevamenti di volatili analogamente ad altri paesi europei (qui i bollettini periodici dell’ECDC).

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Fonte: ISS




L’afta epizootica torna in Germania dopo oltre tre decenni di assenza

L’Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (WOAH) ha diffuso l’informazione circa la notifica da parte della Germania di un focolaio di afta epizootica (FMD) nel Brandeburgo, nel nord della Germania. Questo è il primo caso di FMD nel paese dal 1988, come riportato ufficialmente dal Ministro dell’Agricoltura.

Il laboratorio di riferimento nazionale, Friedrich-Loeffler-Institut (FLI), ha identificato il sierotipo O del virus FMD in tre bufali d’acqua nel distretto di Märkisch-Oderland. Questi bufali, infettati dalla FMD, sono successivamente deceduti. Le autorità locali stanno collaborando con specialisti per indagare sull’origine del focolaio. Come parte della risposta, tutti i 14 bufali dell’allevamento colpito sono stati abbattuti e distrutti. I servizi veterinari competenti del Ministero e le autorità veterinarie locali hanno adottato tutte le misure necessarie per contenere la malattia.

Il virus FMD non rappresenta un rischio per gli esseri umani.

Sebbene i virus FMD siano comunemente presenti in Medio Oriente e in Asia, l’origine precisa e la via d’ingresso in Germania rimangono al momento sconosciute.

La banca antigeni tedesca per la FMD, istituita specificamente per emergenze come questo focolaio, contiene vaccini adeguati contro il virus. Una volta attivata dai Länder, la banca può rapidamente produrre i vaccini necessari.

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Fonte: IZS Teramo




C’è una formula per capire se la specie invasiva avrà successo

Una formula per prevedere se una specie invasiva riuscirà a stabilirsi in un nuovo ecosistema. È il frutto di uno studio guidato dal Massachusetts Institute of Technology (MIT) e pubblicato su Nature Ecology and Evolution. incentrato sulla determinazione del successo o meno di un’invasione da parte di una nuova specie.

Nelle comunità naturali, gli ecologi hanno ipotizzato che più un ecosistema è diversificato, più resisterà a un’invasione, perché la maggior parte delle nicchie ecologiche sarà già occupata e poche risorse saranno rimaste per un invasore. Tuttavia, sia nei sistemi naturali che in quelli sperimentali, gli scienziati hanno osservato che questo non è sempre vero: mentre alcune popolazioni altamente diversificate sono resistenti all’invasione, altre popolazioni altamente diversificate hanno maggiori probabilità di essere invase.

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Fonte: repubblica.it




Ragno violino. Questionario sulla conoscenza della specie e delle sue problematiche sanitarie

Le numerose segnalazioni da parte dei cittadini, relative a presunti o effettivi avvistamenti del ragno violino, hanno spinto l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana (IZSLT) a indagare attraverso un questionario strutturato la conoscenza di questa specie e delle sue problematiche sanitarie diffusa tra la popolazione.

Il questionario è anonimo e composto da 29 domande, articolate in 5 sezioni:

  • dati socio-demografici
  • conoscenze sul ragno violino
  • problematiche sanitarie legate alla specie
  • misure preventive e strategie di controllo
  • consapevolezza e gestione del rischio

L’obiettivo dell’iniziativa è anche quello di contenere l’allarmismo, fornendo informazioni scientificamente fondate per permettere di comprendere meglio i rischi e le modalità di prevenzione che il contatto con il ragno violino può comportare. Al termine del questionario è possibile infatti consultare e scaricare una brochure informativa sul ragno violino predisposta da esperti di IZSLT in collaborazione con Salute Lazio.

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Fonte: IZS Venezie




Zoonosi e nuove patologie si battono con sorveglianza e informazioni condivise

I sistemi di sorveglianza sono necessari per controllare la diffusione delle malattie emergenti, tra cui le nuove zoonosi, per poter intervenire precocemente. “La situazione attuale, però, nonostante tutti gli sforzi non è ancora sufficiente e la dimostrazione è rappresentata dagli eventi che, negli ultimi anni, hanno colpito duramente anche in Italia”, spiega Gaddo Francesco Vicenzoni, già direttore della struttura complessa territoriale di Verona e Vicenza dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe).

Importante, sottolinea, mantenere viva la memoria di quanto accaduto e stabilire una modalità di sorveglianza davvero efficiente al fine di ridurre i rischi pandemici, gli eventuali spillover, e la comparsa e trasmissione di nuove malattie negli animali per intervenire precocemente.

Su Covid-19 si poteva agire prima

“Pensiamo alla pandemia Covid-19 che ha mietuto molte vittime a partire da marzo 2020. Ora sappiamo che un bambino di 4 anni ricoverato in un ospedale milanese a novembre 2019 con tosse, rinite e iniziale diagnosi sospetta di morbillo in realtà era stato colpito dal virus Sars-CoV-2 come emerso successivamente dall’analisi dei campioni biologici prelevati (Amendola A et al. Emerg Infect diseases, 2021). Tre mesi in anticipo rispetto al primo caso autoctono ufficiale segnalato il 20 febbraio 2020 e un mese prima dell’alert rilasciato dalle autorità cinesi.

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Fonte: aboutpharma.com




Africa: genetica zanzare spiega perchè virus Zika poco diffuso

C’entrano anche le zanzare se in Africa le epidemie del virus Zika sono rare. Un equilibrio che tuttavia potrebbe essee alterato dai cambiamenti climatici. Uno studio dell’High Meadows Environmental Institute (HMEI) presso la Princeton University, l’Institut Pasteur e della University of California, San Diego (US), pubblicato su The Lancet Planetary Health, dimostrerebbe che i bassi tassi correlati alla diffusione del virus Zika, responsabile di difetti alla nascita e di devastanti epidemie nelle Americhe dal 2015 al 2016, possa dipendere dalla composizione genetica delle zanzare autoctone africane. “Esistono due specie di zanzara che diffondono Zika”, dichiara Jamie Caldwell, Associate Research Scholar presso l’HMEI, “ciascuna con tipiche preferenze alimentari e capacità di trasmissione della malattia. Questa differenza genetica potrebbe spiegare perché Zika ha ampiamente risparmiato l’Africa, continente in cui il virus è stato originariamente scoperto, nonostante la presenza di grandi popolazioni di zanzare e le condizioni climatiche favorevoli alla loro attività”. In particolare la forma specializzata umana preferisce pungere gli esseri umani ed ha tendenza a vivere in aree urbane densamente popolate.

Al contrario, la forma ancestrale africana che domina in Africa, è “generalista” e si nutre sia di esseri umani che di animali e proprio la dieta mista ridurrebbe le possibilità che una zanzara infettiva punga un essere umano. Inoltre, la forma ancestrale africana è meno efficace nell’acquisire e trasmettere Zika rispetto alle quelle specializzate umane, costituendo una barriera naturale alla diffusione del virus nel continente africano. Sebbene entrambe le forme di zanzare vivano in Africa, la diversità delle popolazioni di zanzare spiegherebbe la variazione del carico di Zika in Africa, o quale altra ipotesi il contenimento epidemico sul territorio potrebbe dipendere dalla temperatura locale: l’Africa subsahariana ha il clima ideale per la trasmissione del virus Zika, mentre aree con temperature troppo calde o fredde potrebbero limitare la diffusione del virus. Il clima è infatti considerato un “trigger”, cioè un fattore stimolante importante, anche per la distribuzione di altre malattie correlate alle stesse specie di zanzare, come la dengue e la febbre gialla, e in grado di influenzare molti aspetti della trasmissione virale, come la frequenza con cui le zanzare pungono o la velocità con cui si sviluppano in adulti che prediligono gli esseri umani.

La creazione di modelli per studiare gli effetti genetici sulle preferenze di puntura delle zanzare e sulla capacità di diffondere il virus, così come per comprendere il ruolo della temperatura nell’influenzare lo sviluppo, la sopravvivenza e la capacità di trasmissione delle zanzare, ha permesso ai ricercatori di rilevare l’importanza della componente genetica della popolazione di zanzare con un ruolo di maggior peso rispetto al clima. Ciò avrebbe permesso di correlare la proporzione di zanzare specializzate umane in diverse popolazioni in Africa al carico del virus Zika.

Poiché il clima gioca comunque un ruolo importante nel processo di trasmissione, le attuali variazioni climatiche, come anche la rapida urbanizzazione, potrebbero rendere le città africane più vulnerabili alle epidemie del virus Zika nel prossimo futuro. I ricercatori hanno stimato che su un totale di 59 città africane considerate, con una densità di popolazione superiore a 1 milione, 23 città, pari al 39%, rispondano alle condizioni favorenti per la diffusione di un’epidemia di Zika. Se le attuali proiezioni sul clima e sulla crescita della popolazione e gli effetti previsti sulle zanzare si rivelassero accurati, altre 22 città diventeranno luoghi adatti alla contaminazione di Zika, portando a 76% le città africane più popolose. “La nostra ricerca sottolinea l’urgente necessità di sistemi di sorveglianza delle zanzare, soprattutto nelle città con popolazioni in rapida crescita dove anche il cambiamento climatico potrebbe alterare le dinamiche della malattia e sulla diffusione globale di Zika in modi inaspettati “, ha concluso il Noah Rose, coautore dello studio e professore associato presso l’Università della California, San Diego.

 

Fonte: AGI




Malattia X da causa X in Congo, la storia si ripete!

La “nuova” malattia insorta nella Repubblica Democratica del Congo, già messa a dura prova dall’epidemia di “Monkeypox”, avrebbe sin qui provocato almeno 450 casi e oltre 30 decessi, soprattutto fra i bambini al di sotto dei 5 anni.

A dispetto della recentissima notizia relativa alla presenza di una “coinfezione” da Plasmodium falciparum/vivax/malariae – agenti della malaria, malattia endemica nel Continente Africano – nell’80% dei pazienti colpiti dalla “nuova” malattia congolese, fattispecie quest’ultima che renderebbe oltremodo di plausibile e giustificata la frequente coesistenza di quadri anemici negli stessi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e le più importanti Istituzioni planetarie coinvolte nella lotta, nel controllo e nella profilassi delle malattie infettive (quali i prestigiosi “Centers for Disease Control and Prevention”/CDC di Atlanta, negli USA) brancolano ancora nel buio.

A tal proposito, infatti, andrebbe parimenti sottolineato che i succitati quadri anemici si rinvenirebbero comunemente associati ad altre manifestazioni cliniche comprendenti tosse, disturbi respiratori, cefalea ed ipertermia febbrile, elementi dai quali trarrebbe sostegno l’ipotesi di un coinvolgimento di uno o più patogeni respiratori, ai quali potrebbe essere altresì ascritto il ruolo di agente/agenti primario/primari.

Mutatis mutandis, ben prima che il virus responsabile dell’AIDS (Human Immunodeficiency Virus/HIV) venisse contemporaneamente e definitivamente identificato da Luc Montagnier (in Francia) e da Robert Gallo (in USA) nel lontano 1983, i sospetti iniziali si erano indirizzati, per oltre due anni, su Pneumocystis carinii (successivamente ribattezzato P. jirovecii), un protozoo di frequente riscontro nei pazienti affetti da AIDS e che “col senno di poi” avrebbe rappresentato la “punta dell’iceberg” dell’infezione da HIV, costituendo al tempo stesso uno degli svariati agenti opportunisti responsabili di infezioni secondarie in tali individui.

In effetti, si potrebbero citare molteplici esempi di infezioni secondarie sostenute da protozoi sia in persone che in animali primariamente infetti ad opera di agenti immunodeprimenti/immunodepressivi, virali e non, quali Toxoplasma gondii sempre in pazienti con AIDS nonché in cani affetti da cimurro (malattia causata da “Canine Distemper Virus”/CDV, un Morbillivirus) e in delfini con infezione da “Cetacean Morbillivirus” (CeMV, un altro Morbillivirus).

E, poiché di agenti protozoari anche nel caso di Plasmodium falciparum, P. vivax e P. malariae si tratta, l’ipotesi di un coinvolgimento secondario degli stessi nell’eziologia della misteriosa malattia congolese potrebbe risultare plausibile, tanto più in ragione del fatto che i disturbi respiratori osservati nei bambini affetti da siffatta “sindrome X” non rientrerebbero fra i reperti clinico-sintomatologici tipici della malaria.

Se poi andiamo a scavare, neppure più di tanto, nell’affascinante storia delle malattie infettive, fatto salvo il succitato eloquente esempio dell’AIDS, ci accorgiamo che l’identificazione di SARS-CoV, il betacoronavirus responsabile della SARS – malattia riconosciuta per la prima volta nel 2002 dal medico italiano Carlo Urbani, poi deceduto a causa della stessa – è stata preceduta dall’attribuzione, ad opera di ricercatori cinesi, di una responsabilità causale non gia’ ad un agente virale, ma bensi’ a batteri del genere Chlamydia.

Nel mondo animale poi, tanto per citare un ulteriore, eloquente esempio, prima che si addivenisse alla scoperta di una serie di nuovi membri del genere Morbillivirus quali responsabili di devastanti epidemie fra i mammiferi marini (Pinnipedi e Cetacei), la cui salute e conservazione appaiono sempre più minacciate per mano dell’uomo, altri agenti erano stati indiziati quali noxae causali, primo fra tutti Herpesvirus, rivelatosi in seguito un patogeno frequentemente coinvolto in infezioni secondarie. Illuminanti esempi di questo tipo non mancano neppure tra gli ospiti animali invertebrati, come chiaramente ci mostrano i ripetuti episodi di mortalità collettiva che in anni recenti hanno interessato le popolazioni di nacchere (Pinna nobilis) in più aree del Mediterraneo. Si tratta del più grande mollusco bivalve lamellibranco presente nella regione, i cui eventi di mortalità collettiva erano stati ricondotti all’azione di un protozoo (Haplosporidium pinnae) e di batteri (Mycobacterium sherrisii, Vibrio mediterranei) prima che si addivenisse a definirne l’eziologia primaria, ascrivibile ad un piccolo virus a RNA facente parte dell’ordine Picornavirales, rispetto al quale il parassita e i due batteri anzidetti andrebbero considerati come agenti opportunisti d’irruzione secondaria.

Alla luce di quanto sopra, verrebbe da dire che la “malattia X” recentemente identificata in Congo non rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui l’identificazione certa di qualsivoglia agente causale di qualsivoglia nuova malattia infettiva (e non) sia anticipata, giocoforza, da “errori” grazie ai quali l’accertamento della responsabilità eziologica primaria emergera’ a tempo debito e a coronamento degli sforzi profusi dalla Comunità Scientifica, in una sana ottica di collaborazione intersettoriale e multidisciplinare e, nondimeno, nel segno della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Historia Magistra Vitae!

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

 




PSA: I veri esperti non si limitano a seguire le raccomandazioni, le anticipano

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato di recente un ampio rapporto scientifico dedicato alla Peste Suina Africana. Il documento analizza i principali fattori di rischio e quelli di prevenzione, offrendo una panoramica sulle misure più efficaci per contenere la malattia. Questo lavoro si basa su un’approfondita revisione della letteratura scientifica e su uno studio caso-controllo specifico, fornendo così una base solida per affrontare il problema.

L’EFSA e la Peste Suina Africana: perché questo rapporto è importante

L’EFSA riveste un ruolo cruciale nella tutela della salute delle piante, degli animali e dei consumatori nell’Unione Europea. La sua importanza non deriva solo dal prestigio istituzionale, ma soprattutto dal rigore scientifico con cui affronta questioni complesse. Quando l’EFSA esprime un parere, lo fa attraverso un’analisi approfondita delle evidenze scientifiche disponibili, avvalendosi di team multidisciplinari composti da esperti di fama internazionale.Iin questo caso il rapporto è stato redatto da un gruppo di undici esperti di diverse nazionalità. Le sue valutazioni non solo guidano le politiche e le normative europee, ma costituiscono anche un punto di riferimento globale per chiunque operi in ambiti legati all’agricoltura, alla sicurezza alimentare e alla gestione ambientale.

La Peste Suina Africana (PSA) rappresenta per l’Italia non una semplice emergenza sanitaria, ma una vera e propria sciagura, capace di colpire il cuore pulsante di uno dei settori più importanti del nostro Paese, ovvero l’agroalimentare. La PSA, inoltre, è una malattia che provoca enormi sofferenze negli animali infetti, con febbre, emorragie interne ed esterne e difficoltà respiratorie ed ha un tasso di mortalità estremamente elevato. Questo virus, spietato nella sua semplicità e devastante nei suoi effetti, non conosce antidoti: non esiste cura e non esiste neppure vaccino. L’unica arma, e purtroppo una delle più difficili da impiegare, è la prevenzione.
Il problema delle misure di profilassi è che sembrano inutili quando funzionano bene, ma la loro importanza diventa evidente quando non vengono applicate. E parlando di prevenzione, abbiamo trovato il nuovo rapporto scientifico degli esperti EFSA particolarmente interessante, in quanto formula precise raccomandazioni su questioni di grande importanza pratica, dalle recinzioni per limitare la diffusione della malattia al possibile utilizzo di vaccini che abbiano un effetto contraccettivo e conseguentemente capaci di ridurre la popolazione dei cinghiali.

Ma vorremmo soffermarci su una questione cruciale e controversa sulla quale EFSA si è espressa, relativa ai fattori di rischio di introduzione della PSA negli allevamenti suinicoli nel corso dell’estate, e che i dati emersi anche negli ultimi mesi indicano chiaramente essere della massima importanza, almeno nell’Italia del Nord: su 40 focolai verificatisi nei suini domestici nel 2023 e nel 2024 in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, 38 sono stati confermati nel periodo compreso tra la fine di luglio e metà settembre. Abbiamo assistito, cioè, ad un picco epidemico stagionale fortissimo, con il 95% dei focolai concentrati in soli due mesi. Un dato che suggerisce che esistano uno o più fattori di rischio specifici alla base della introduzione del virus negli allevamenti in piena estate (si consideri anche che la data di introduzione del virus in un allevamento è in generale precedente alla conferma del focolaio di almeno un paio di settimane, corrispondenti al periodo incubazione e ai tempi necessari alla successiva conferma della malattia: questo significa che i mesi di luglio e agosto sono quelli in cui sussiste in Italia settentrionale il massimo rischio di PSA per gli allevamenti). Fattori di rischio che, evidentemente, non sono presenti o sono comunque molto meno importanti nelle altre stagioni dell’anno.

 

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