Vespa velutina di nuovo in Veneto

vespa velutinaUna nuova segnalazione di Vespa velutina in Veneto è arrivata qualche giorno fa al sito Stopvelutina, proveniente dalla provincia di Venezia, in località Malcontenta, frazione di Mira (mappa in alto), mentre si alimentava su filari d’uva.

Un sopralluogo prontamente effettuato dal dr Franco Mutinelli, direttore del Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVE), e dal dr Mattia Gambalunga dell’Associazione Patavina Apicoltori in Padova, ha confermato la presenza di esemplari ancora in volo presso i filari e in un vicino apiario.

Nel corso del sopralluogo sono stati catturati davanti agli alveari alcuni esemplari adulti di velutina, mentre all’interno di tre trappole posizionate vicino all’apiario erano presenti esemplari di Vespa crabro e molti altri insetti non identificabili in avanzato stato di decomposizione.

In un primo sopralluogo nell’area circostante non è stato possibile individuare alcun nido, ma ulteriori controlli sono previsti per la prossima settimana.

Vespa velutina era già stata segnalata in Veneto nell’autunno 2016 a Bergantino, in provincia di Rovigo, lungo il fiume Po, con il ritrovamento di numerosi esemplari adulti presso un apiario e, pochi mesi dopo, di un nido. La primavera successiva una regina era stata catturata in  provincia di Mantova, sull’altra sponda del fiume a pochi chilometri da Bergantino. Tuttavia negli anni successivi non sono stati fatti ulteriori ritrovamenti, nonostante la fitta rete di sorveglianza attivata dall’IZSVE e dalle Associazioni apistiche regionali. Non si ipotizza pertanto un legame tra i due focolai, ma piuttosto una nuova importazione, forse dovuta a trasporto attivo.

La nuova presenza di Vespa velutina è stata immediatamente notificata dall’IZSVE alle Associazioni, con richiesta di posizionare le trappole presso gli apiari e di controllarle periodicamente, per consentire un precoce rilievo di eventuali altri esemplari focolai. Secondo alcune persone presenti sul luogo, la presenza di velutina risalirebbe a circa un mese fa. A tal proposito si rammenta l’importanza di una pronta segnalazione, per consentire un intervento in tempi utili.

Fonte: stopvetulina.it




Arbovirosi in Italia: i dati al 31 ottobre 2022

artropodiSono stati pubblicati sul sito EpiCentro (ISS)  i nuovi rapporti del sistema di sorveglianza nazionale integrata delle arbovirosi relativi al periodo 1 gennaio – 31 ottobre 2022. Durante questi mesi il sistema di sorveglianza nazionale segnala: 40 casi confermati di infezione neuro-invasiva – TBE; nessun caso confermato di Chikungunya; 114 casi confermati di Dengue; 100 casi confermati di Toscana Virus; 1 caso confermato di Zika Virus.

Per maggiori informazioni consulta la pagina dedicata ai bollettini periodici della sorveglianza nazionale sulle arbovirosi.

Fonte: ISS




Ema, in Italia antibiotici in allevamento -51% in 10 anni

Le vendite annuali di antibiotici negli allevamenti italiani si sono più che dimezzate in dieci anni, ma restano tra le più alte in Europa.

Sono i dati del rapporto dell’Agenzia europea del farmaco (Ema) sul consumo di antimicrobici veterinari nell’Ue/See. Dal 2011 al 2020 le vendite sono calate del 43% nei 31 Paesi coperti dal rapporto, in Italia è stata osservata una diminuzione del 51%.

Se si considerano le tonnellate di principio attivo, nel 2020 l’Italia era il terzo Paese per vendite dopo Spagna e Polonia. In rapporto alla popolazione animale negli allevamenti, la Penisola era seconda dopo la Polonia.

Nel 2019, l’Italia si è dotata di un sistema di tracciabilità digitale dei medicinali veterinari con dati anche a livello di allevamenti, che è un “passo importante verso lo sviluppo di un adeguato programma di gestione antimicrobica”, scrive Ema. I dati, sottolinea l’agenzia Ue, “mostrano progressi verso il raggiungimento degli obiettivi” del Piano nazionale contro la resistenza agli antibiotici, adottato nel 2017.

Fonte: Ansa




L’Oms a caccia di nuovi patogeni

L’Organizzazione ha convocato gli esperti per compilare un elenco aggiornato di agenti patogeni prioritari che possono causare future epidemie o pandemie. 

L’ Oms sta convocando oltre 300 scienziati che prenderanno in considerazione le prove su oltre 25 famiglie di virus e batteri, oltre alla “Malattia X”, che indica un agente patogeno sconosciuto che potrebbe causare una grave epidemia internazionale. Il processo è iniziato venerdì e guiderà gli investimenti globali e la ricerca e lo sviluppo (R&S), in particolare nei vaccini, nei test e nei trattamenti. L’elenco dei patogeni prioritari è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 e comprende COVID-19, malattia da virus Ebola , febbre di Lassa, sindrome respiratoria mediorientale (MERS), sindrome respiratoria acuta grave (SARS), febbre della Rift Valley, Zika e “Malattia X”. “Prendere di mira i patogeni prioritari e le famiglie di virus per la ricerca e lo sviluppo di contromisure è essenziale per una risposta rapida ed efficace a epidemie e pandemie “, ha affermato Michael Ryan, direttore esecutivo del programma per le emergenze sanitarie dell’Oms. “Senza significativi investimenti in ricerca e sviluppo prima della pandemia di Covid-19 , non sarebbe stato possibile sviluppare vaccini sicuri ed efficaci in tempi record”, ha aggiunto.

Gli esperti consiglieranno un elenco di agenti patogeni prioritari che necessitano di ulteriori ricerche e investimenti.  Il processo includerà sia criteri scientifici che di salute pubblica, nonché criteri relativi all’impatto socioeconomico, all’accesso e all’equità. Saranno sviluppate tabelle di marcia di R&S per quei patogeni identificati come prioritari, delineando le lacune di conoscenza e le aree di ricerca. Saranno inoltre compiuti sforzi per mappare, compilare e facilitare le sperimentazioni cliniche per sviluppare vaccini, trattamenti e test diagnostici. L’elenco rivisto dovrebbe essere pubblicato all’inizio del 2023.

Fonte: panoramasanita.it




Sicurezza delle nanotecnologie nell’alimentazione, l’Iss capofila nello studio di metodi alternativi alla sperimentazione animale

nanotecnologieAll’Istituto 1,2 milioni di euro per la ricerca in nanotossicologia con le New Approach Methodologies (NAM)

Le nanotecnologie sono utilizzate negli ambiti più diversi, inclusa la nutrizione umana, e trovano crescente applicazione nella produzione agroalimentare. Per utilizzarle in modo sicuro serve una comprensione profonda della loro interazione con l’organismo e a questo scopo possono essere impiegati una serie di metodi alternativi alla sperimentazione animale. Per far progredire questi metodi e promuovere il loro utilizzo nella valutazione del rischio l’Efsa, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, ha assegnato un finanziamento di 5,3 milioni di euro al consorzio costituito per iniziativa dell’Iss comprendente prestigiose istituzioni internazionali in risposta alla call NAMS4NANO.

Le New Approach Methodologies (NAM) sono il vasto insieme di approcci metodologici alternativi alla sperimentazione animale comprendenti organismi diversi da mammiferi (ad esempio embrioni di pesce), colture cellulari, modelli in silico basati sulle tecnologie informatiche, tecnologie omiche. Se adeguatamente sviluppato, l’uso integrato delle diverse NAM può fornire informazioni scientificamente valide in modo più rapido ed efficiente rispetto agli studi su animali. Progredire nell’uso delle NAM per comprendere gli effetti dei nanomateriali e i meccanismi associati quale problema emergente della valutazione del rischio tossicologico in sicurezza alimentare, questo l’obiettivo del progetto che si articola in 3 lotti, uno dei quali coordinato dall’Iss. Il finanziamento globale dell’Iss è pari a 1,2 milioni di euro.

Abbiamo proposto un sistema di qualifica per facilitare l’uso delle NAM in ambito regolatorio  – afferma Francesco Cubadda (Dipartimento di Sicurezza alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria), capofila dell’Iss e coordinatore del lotto 3 – e 10 casi studio. I primi cinque ambiscono a dimostrare come le NAM siano in grado di gettare luce su aspetti specifici dei materiali sulla nanoscala e come dall’integrazione dei dati così prodotti con le evidenze esistenti (studi animali o sull’essere umano) si possa condurre una valutazione del rischio completa. Gli altri cinque casi studio hanno un contenuto più metodologico: ambiscono a sviluppare strumenti e metodi per affrontare gli aspetti ‘nanospecifici’ nelle diverse fasi della valutazione del rischio.

Come richiesto dall’EFSA, i casi studio si incentrano sia su nanomateriali sia su materiali convenzionali con una frazione sulla nanoscala, tutti con stretta attinenza all’impiego nella filiera agroalimentare. Gli ambiti presi in considerazione sono le fonti di nutrienti presenti, ad esempio, negli integratori, i novel foods, gli additivi alimentari, gli additivi per l’alimentazione animale, i materiali a contatto con gli alimenti e i pesticidi. I casi studio saranno utilizzati dall’EFSA per aggiornare le linee guida dell’Autorità sulla valutazione del rischio di materiali integralmente o parzialmente sulla nanoscala impiegati nella produzione di alimenti.

Per saperne di più https://www.efsa.europa.eu/it/art36grants/article36/gpefsamese202201-nams4nano-integration-new-approach-methodologies-results

Fonte: ISS




Di Guardo fra i migliori scienziati italiani segnalati dalla Stanford University

Giovanni Di GuardoLa Rivista scientifica internazionale “Pathogens” ha appena reso noto che 70 dei 450 Membri del proprio Comitato Editoriale sono stati inclusi nella classifica degli “World’s Top 2% Scientists”.

La classifica in oggetto, che di anno in anno viene elaborata – a far tempo dal 1960 – dalla prestigiosa Università statunitense di Stanford, si compone di due distinte sezioni, la prima dedicata al “prestigio ed al merito scientifico permanenti”, la seconda al “prestigio ed al merito scientifico nel solo anno di riferimento”.

Per quanto specificamente attiene a quest’ultima, sono ben 11 le Scienziate e gli Scienziati italiani che fanno parte dell’elenco anzidetto, fra cui il Prof. Giovanni Di Guardo – già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo.

Si tratta di un quantomai prestigioso riconoscimento che ancora una volta onora la Comunità Scientifica del nostro Paese, la quale come risulta ben noto si colloca all’ottavo posto nel mondo per la qualità della propria produzione scientifica.

E tanto più encomiabile, meritorio e rimarchevole appare tutto ciò allorquando si pensi che il nostro Paese continua insensatamente e pervicacemente ad investire una quota del PIL ben al di sotto di quella spesa dalla media dei Paesi dell’Unione Europea nel finanziamento pubblico della ricerca.




Spillover e Spillback, andata e ritorno dei patogeni dall’uomo agli animali

In questi anni abbiamo sentito parlare parecchio di spillover, che letteralmente identifica un “salto di specie” ma che più spesso viene inteso come passaggio di un patogeno dagli animali all’uomo. Tale meccanismo può essere alla base  di malattie nuove o emergenti o vere e proprie epidemie/pandemie, come nel caso dell’influenza e probabilmente del SARS_CoV-2.

Si parla meno frequentemente, ma non è meno importante in ottica One Health, del fenomeno dello  “spillback” che identifica il processo inverso ovvero il “salto” del patogeno dall’uomo agli animali, talvolta a specie molto diverse da quelle che erano serbatoio o ospite occasionale/spillover del patogeno stesso. Lo spillback può determinare la comparsa e la stabilizzazione di un patogeno negli animali in un territorio dove prima non era presente, ed  essere causa di malattia in specie animali che loro volta possono diventare fonte di infezione per l’uomo.

Il meccanismo è meno complicato di quanto sembra se pensiamo al virus del vaiolo della scimmia, (monkeypox) che è sempre stato localizzato in Africa e in poche altre regioni, nelle quali è passato dalla scimmia ed altre specie di roditori che fungevano da serbatoio all’uomo, avendo però ben poche occasioni di passare in altre specie animali, anche domestiche.

Tuttavia, da quando il monkeypox virus si è diffuso tra gli umani in nuove aree più densamente popolate, come gli Stati Uniti e l’Europa, è sorto il problema della possibile infezione anche di nuove specie animali “domestiche” a contatto con esseri umani infetti (cani, roditori, lagomorfi etc.) e quindi anche del potenziale passaggio nelle specie selvatiche.

La mancanza di controllo e monitoraggio dei fenomeni di spillback può essere facilmente causa della costituzione di nuovi serbatoi animali di virus e della persistenza della malattia nelle nuove aree “conquistate”.

Per questo l’Organizzazione Mondiale della Salute animale (WOAH) ha prodotto una linea guida per indirizzare a conoscere e limitare il rischio di spillback dall’uomo agli animali selvatici, ai pet e ad altri animali.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Covid: possibilità di trovare antenato del virus “quasi nulle”

coronavirusLe chance di rintracciare l’antenato di Covid-19 sono ormai quasi nulle. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione a cui giunge un approfondimento pubblicato sulla rivista Nature, in cui si ripercorrono gli sforzi effettuati dalla ricerca per ricostruire le origini della pandemia. Stando alle conoscenze attuali, spiegano i virologi, SARS-CoV-2 potrebbe aver condiviso un antenato con i coronavirus dei pipistrelli più recentemente di quanto precedentemente ipotizzato. Individuare le origini dell’agente patogeno, però, è molto più complesso di quanto si possa immaginare. I virus possono infatti scambiare tra loro frammenti di RNA, attraverso un processo chiamato ricombinazione. In un’analisi presentata durante il World One Health Congress a Singapore, gli scienziati hanno confrontato frammenti di genomi di coronavirus per cercare di individuare le origini di Covid-19. L’indagine suggerisce che alcune sezioni di coronavirus di pipistrello e SARS-CoV-2 condividevano un antenato comune nel 2016, appena tre anni prima dell’inizio della pandemia. Questo lavoro, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, restringe l’arco di tempo intercorso tra l’antenato di SARS-CoV-2 originato nei pipistrelli e l’agente patogeno che ha provocato l’emergenza sanitaria globale. I risultati, tuttavia, non contribuiscono alla spiegazione puntuale di come e quando sia avvenuto il salto.

“Le possibilità di trovare un antenato diretto di Covid-19 sono quasi nulle – afferma Edward Holmes, virologo evoluzionista presso l’Università di Sydney – l’agente patogeno che ha raggiunto l’umanità nel 2019 potrebbe essere stato il frutto di una serie di ricombinazioni e mutazioni. È ormai praticamente impossibile ricostruire le origini della pandemia”. Dall’inizio della diffusione di Covid-19, moltissimi esperti hanno sequenziato i genomi dei coronavirus dei pipistrelli, esaminando campioni di tessuti conservati nella speranza di individuare l’antenato di SARS-CoV-2, ma tutti gli sforzi si sono rivelati poco proficui. Alcuni hanno anche ipotizzato che il virus sia sfuggito dal Wuhan Institute of Virology, ma questa teoria non è stata convalidata da evidenze scientifiche. Finora sono stati isolati più di una dozzina di virus strettamente correlati al SARS-CoV-2 da pipistrelli e pangolini. Questo approccio ha portato all’individuazione di due parenti stretti dell’agente patogeno: un virus di pipistrello trovato in Laos chiamato BANAL-52, il cui genoma è identico al 96,8 per cento a quello di SARS-CoV-2, e un virus chiamato RaTG13, trovato nello Yunnan, nella Cina meridionale, che condivide il 96,1 per cento del proprio genoma con il responsabile della pandemia. “Per tradurre in arco temporale queste differenze – afferma Spyros Lytras, dell’Università di Glasgow – abbiamo confrontato 18 virus di pipistrello e pangolino strettamente correlati a SARS-CoV-2 e li abbiamo uniti in 27 segmenti, ognuno dei quali ha una storia evolutiva diversa”. Per ogni tratto, i ricercatori hanno utilizzato un sottoinsieme più ampio di 167 virus correlati per stimare quanto recentemente SARS-CoV-2 abbia condiviso un antenato comune con il virus considerato. L’analisi ha rivelato che alcuni segmenti condividevano un antenato comune con SARS-CoV-2 solo pochi anni fa, con i frammenti più giovani associati a tessuti di pipistrelli campionati nello Yunnan e nel Laos. “Alcuni frammenti esaminati – conclude Lytras – erano piuttosto corti, il che rende le stime meno affidabili. Questo approccio è stato molto interessante, e potrebbe averci avvicinato un po’ alla risoluzione del mistero sulle origini di Covid-19, che però potrebbero essere troppo complesse da ricostruire”.

Fonte: AGI




Il batterio Listeria Monocytogenes individuato per la prima volta in una tartaruga marina

Un passo in avanti fondamentale per capire il ruolo di questo microrganismo patogeno nell’ecosistema marino

 Una tartaruga spiaggiata recuperata sulle coste abruzzesi, morta dopo pochi giorni, ha rappresentato il punto di partenza per una ricerca che ha portato all’isolamento di Listeria monocytogenes . Si tratta della prima volta nella quale questo microrganismo viene individuato in un rettile marino, aprendo la strada a nuove ricerche per capire meglio la sua diffusione nell’ambiente.

Lo studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e pubblicato sulla rivista scientifica Animals , ha preso in esame una tartaruga della specie Caretta caretta, la più diffusa nel Mediterraneo. L’animale, trovato su una spiaggia del comune di Ortona, in Abruzzo, era stato raccolto dal Centro Studi Cetacei ONLUS e trasferito al Centro di Recupero e Riabilitazione Tartarughe Marine di Pescara. Le sue già gravi condizioni lo avevano portato a morte nel giro di sei giorni.

A questo punto sono iniziate le indagini da parte dei laboratori dell’IZS, dove la carcassa era stata trasferita. Con un risultato piuttosto sorprendente: la tartaruga era affetta da listeriosi, infezione che ne aveva causato la morte. Potenziale responsabile di contaminazione alimentare e, seppur raramente, causa di infezioni anche gravi negli esseri umani, l’attenzione verso questo batterio deve essere sempre mantenuta alta.

Listeria monocytogenes – dice Ludovica Di Renzo, prima autrice del lavoro scientifico – è largamente diffusa, sia nel suolo che nelle acque dolci. Inoltre il batterio è anche capace di sopravvivere per settimane nell’ambiente marino. Questo rilevamento in un rettile come la Caretta caretta, animale che consideriamo uno dei migliori indicatori della salute dei mari, ci apre prospettive nuove per capire meglio la diffusione di Listeria monocytognes e le sue capacità di adattamento. Siamo stati in grado di studiare la tartaruga entro pochissimo tempo dalla morte, un risultato che è reso possibile grazie all’esistenza in Abruzzo della Rete Regionale Spiaggiamenti e del Centro Studi Cetacei”.

Dagli studi condotti sul genoma è risultato che il ceppo di Listeria monocytogenes isolato dall’IZS presenta geni di virulenza, che lo rendono capace di causare infezioni gravi negli animali, e potenzialmente nell’uomo. “Da questo punto di vista – continua la ricercatrice – le nostre osservazioni confermano l’ipotesi che gli ambienti selvatici, compreso quello marino, favoriscano il mantenimento e la diffusione di ceppi potenzialmente virulenti di Listeria monocytogenes. I nostri prossimi passi, ora, riguarderanno studi genomici che potranno darci informazioni preziose sulla distribuzione in natura del patogeno e geni di virulenza ad esso associati.

La presenza di un batterio potenzialmente pericoloso come Listeria monocytogenes in animali marini sottolinea anche un aspetto più ampio, come evidenzia Di Renzo: “Per molti il concetto di ‘One health’, di una salute globale che comprenda uomo, animali e piante, è limitato agli ambienti terrestri. Invece vediamo sempre di più che è arrivato il momento di includere anche il mare nell’idea di questo sistema unico ed integrato”.

Il lavoro scientifico pubblicato su Animals, infine, rappresenta l’occasione di raccomandare a tutti l’adozione di misure di precauzione quando si ha a che fare con animali spiaggiati, spesso oggetto della curiosità di bagnanti, soprattutto bambini. Il potenziale pericolo di infezioni deve infatti sempre essere considerato. “La cautela e l’adozione di buone pratiche nell’approccio a un animale spiaggiato, anche se si tratta di una piccola tartaruga – conclude la ricercatrice – vale non solo per gli specifici operatori impegnati nel recupero, ma anche per tutti i cittadini”.

Fonte: IZS Teramo



David Quammen: un delfino, una focena e due uomini hanno avuto l’influenza aviaria. Un avvertimento per tutti

All’inizio di settembre, gli scienziati dell’Università della Florida hanno confermato che un delfino – la cui carcassa era stata trovata a marzo scorso in un canale, lungo la Costa del Golfo – presentava un tipo di influenza aviaria altamente patogeno. Aveva un’infiammazione cerebrale.

Come dice il nome stesso, il virus dell’influenza aviaria è molto abile nel contagiare gli uccelli, ma talvolta si spinge oltre e prende altre direzioni. Pochi mesi dopo la morte del tursiope, un altro mammifero marino – una focena – è stato trovato spiaggiato e in fin di vita sulla costa occidentale svedese. Poco dopo il ritrovamento, la focena è deceduta, colpita dal medesimo virus. Tra questi due casi, ce n’è stato uno più preoccupante ancora in Colorado: dopo alcune analisi di laboratorio, un uomo è risultato positivo all’influenza aviaria. Era un carcerato impegnato a lavorare in vista della scarcerazione in un impianto di pollame, nel quale doveva procedere all’abbattimento selettivo dei volativi colpiti dal contagio.

Altre analisi hanno messo in discussione il contagio del soggetto, sussistendo il dubbio che il tampone di controllo potesse essere entrato semplicemente in contatto con virus presenti nel suo naso. Tuttavia, quello del carcerato canadese non è stato l’unico caso di essere umano risultato positivo all’influenza aviaria – per la precisione l’H5N1 – l’anno scorso. Intorno al Natale del 2021, anche un britannico di 79 anni, che viveva in contatto stretto con una ventina di anatre di sua proprietà, è risultato positivo al virus dell’influenza aviaria.

Se questi quattro eventi – un delfino morto, una focena morta, due uomini risultati positivi a un pericoloso virus aviario – non vi appaiono in relazione tra loro e vi sembrano insignificanti, forse dipende dal fatto che non avete sentito parlare di “viral chatter”, espressione coniata vari decenni fa il dottor Donald Burke, esperto ricercatore di malattie infettive ed ex rettore della University of Pittsburgh Graduate School of Public Health, per indicare il momento in cui un virus effettua in modo episodico un salto di specie, passando da animali selvatici a esseri umani e provocando talvolta una piccola catena di contagi. Si tratta di un segnale d’allarme dei focolai, spesso riconosciuto quando ormai è troppo tardi.

L’idea di viral chatter in sostanza allude all’emissione di un breve segnale periodico quando avviene un salto di specie

mi ha detto il dottor Burke undici anni fa.

I virus degli uccelli passano ai mammiferi. I virus dei pipistrelli passano agli uomini. Di solito, questi focolai e contagi occasionali arrivano a un punto morto, il che è un bene. Ma “occasionali” significa anche che uno schema si ripete, il che è male – o quanto meno allarmante. Ciò che questo schema segnala alle persone avvedute come il dottor Burke è che un dato virus “vuole” superare il divario tra ospiti animali ed esseri umani e diffondersi ovunque.

Dire che un virus “vuole” fare qualcosa è antropomorfismo, naturalmente, perché i virus non sono dotati di volontà propria. È soltanto la mera convenienza, e non un’intenzione malvagia, a determinare il loro comportamento. L’antropomorfismo, in ogni caso, può tornare utile. I segnali dell’influenza H5N1 indicano che il virus sta esplorando le sue prospettive tra vari mammiferi. Faremmo bene a ricordare che ciò ci riguarda direttamente da vicino.

Sono due le domande sul “viral chatter” che formulano gli esperti di malattie infettive: stiamo ascoltando con sufficiente attenzione per capire quello che implicano? Siamo pronti ad agire?

Non ogni persona contagiata diventa il paziente zero di un focolaio di considerevoli dimensioni, per non parlare di una pandemia. Tuttavia, quanti più casi si presentano – e tanti più segnali vi sono – tanto più è grande la possibilità che un contagio porti alla catastrofe. Gli esseri umani vivono molto vicini tra loro e sono interconnessi, il che significa che costituiscono una grandissima opportunità per qualsiasi virus in grado di contagiare i mammiferi.

L’H5N1 è soltanto uno di numerosi sottotipi di febbre aviaria passati all’uomo negli ultimi decenni, e le influenze sono soltanto uno dei modi con i quali i virus sono capaci di effettuare il salto tra specie. Ovviamente, i coronavirus sono altro ancora.

Quando nel luglio 2003 terminò l’epidemia originaria di Sars, sembrò che il virus fosse stato sradicato tra gli esseri umani – anche se in natura continuava a esistere. Però, quando dal dicembre 2003 al gennaio 2004 si presentarono quattro nuovi casi tra gli esseri umani, si scoprì che il virus aveva effettuato di nuovo un salto di specie, a quanto pare in un ristorante dove si tenevano in gabbia zibetti delle palme (ospiti intermedi del virus) serviti come pietanza. Ciò portò a due in un solo anno i casi di salto di specie del virus Sars. Quanti altri casi, però, non furono segnalati?

Il virus Nipah, altro esempio, fu individuato tra gli esseri umani in Malesia nel 1998, quando effettuò un primo salto di specie dai pipistrelli, tra i quali è di casa, ai maiali e un secondo salto ancora da questi ai coltivatori di maiali e ai commercianti di carne di maiale. I pipistrelli della frutta che lo ospitano sono molto diffusi un po’ ovunque in Asia meridionale e da allora il virus Nipah ha provocato decine di focolai in Bangladesh e in India orientale. Il suo tasso di letalità arriva ben al 75 per cento ma, per nostra fortuna, non si trasmette facilmente da persona a persona. La prossima volta che si presenterà può darsi che lo faccia… Riuscite a sentire i segnali?

«Non simulerò di essere un veggente» mi disse il dottor Burke. Previsione, disse, era una parola già molto forte per quello che faceva. «In ogni caso, si può affermare che da quella zona si sentono arrivare segnali, che si tratta di una zona pericolosa e che questi sono i virus di cui dovremmo preoccuparci». Le previsioni informate sulle aree a rischio rendono possibili due aspetti importanti per la prevenzione di una pandemia: la vigilanza nei riguardi dei contagi più inverosimili e dello scoppio imminente di un’epidemia per intervenire per tempo, e una risposta efficace e immediata per contenere i contagi e impedire che si diffondano. La necessità di una seria vigilanza sui virus non è nuova. Subito dopo che fu fondata nel 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità predispose un osservatorio globale sull’influenza e un sistema di intervento (Global Influenza Surveillance and Response System), una rete di laboratori e di centri di coordinamento miranti a individuare e risalire ai ceppi influenzali, registrarne i trend, monitorare gli interventi di politica sanitaria nel mondo. Questo sforzo coinvolge oggi alcune istituzioni di primaria importanza in 124 Stati facenti parte dell’Oms e prevede la condivisione a livello globale delle informazioni genetiche ed epidemiologiche raccolte. Nel 2000, nella preoccupazione crescente di altri virus emergenti, i membri dell’Oms hanno creato qualcosa di più ambizioso ancora, il Global Outbreak Alert and Response Network, ideato per aiutare i Paesi nei quali dovessero presentarsi dei focolai a impedirne la diffusione a livello globale. Da allora, nel corso degli anni, sono state varate molte più iniziative e organizzazioni. Di recente, però, ho parlato di influenza aviaria con cinque illustri ricercatori di varie parti del mondo, chiedendo a ciascuno di essi un parere sulla vigilanza esercitata. Le loro risposte sono state cinque variazioni di “inadeguatezza”.

Uno dei modi migliori per esercitare la vigilanza è sottoporre a esami del sangue e di altri campioni biologici le persone apparentemente sane che vivono in situazioni di rischio, per esempio i coltivatori di pollame o di suini (che possono fungere da intermediari per i virus influenzali) o chi lavora nei mercati dove si vendono animali vivi in gabbia, uccelli e mammiferi le cui deiezioni si spargono ovunque e che respirano l’aria di un medesimo ambiente chiuso. Un altro modo molto efficace per vigilare sullo scoppio di un focolaio è la campionatura preventiva degli animali selvatici con i quali gli esseri umani vengono in contatto, per esempio le prede catturate dai cacciatori, i roditori che infestano gli edifici, le anatre e le oche selvatiche che si mescolano ai loro simili domestici nelle mangiatoie o negli specchi d’acqua all’aperto. In parte, in alcune comunità e situazioni commerciali lo si fa già, ma secondo gli esperti non lo si fa abbastanza.

I motivi dell’inadeguatezza comprendono errori delle organizzazioni, finanziamenti limitati, alcuni aspetti economici dell’industria del pollame, il mercato nero degli animali selvatici e lo scarso impegno da parte dei governi nazionali e locali. Nei Paesi a basso reddito vi è anche penuria di tecnici e di veterinari preparati, come anche una resistenza a condividere le informazioni e i dati e una certa opposizione a controllare i soggetti sani ma a rischio, mentre tra le nazioni più potenti e con buone risorse circolano sospetti reciproci (esacerbati dall’esperienza con la Covid-19).

L’inadeguatezza è deplorevole e pericolosa. Viviamo in un mondo di virus che stanno all’interno di creature cellulari di tutti i tipi: animali, piante, funghi, protozoi, batteri e altri microbi. Centinaia di migliaia di questi virus nei mammiferi e negli uccelli possono contagiare l’uomo, e il contagiato potrebbe essere in grado di trasmettere il virus a un’altra persona, e poi a un’altra e un’altra ancora. Se non sentiamo i segnali è soltanto perché non stiamo ascoltando attentamente.

David Quammen su The New York Times 31 ottobre 2022