Quanto possono sopravvivere i coronavirus sulle superfici?

coronavirusSARS-CoV-2, il coronavirus responsabile della COVID-19, può sopravvivere sulle superfici fino a 28 giorni, più di tutti gli altri coronavirus. La sopravvivenza del virus e la sua contagiosità sono inoltre influenzate dalle condizioni ambientali. Lo afferma una revisione sistematica della letteratura condotta dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e pubblicata su Science of the Total Environment.

Il ruolo dei fomiti nella trasmissione di SARS-CoV-2

I fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Ricercatori dell’IZSVe hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura per definire quanto i coronavirus umani (SARS-CoV-2, SARS-CoV-2 e MersCoV) possono sopravvivere sulle superfici di vari fomiti.

COVID-19 è la malattia respiratoria causata da SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia diffusasi in quasi 200 Paesi da fine 2019. SARS-CoV-2 si aggiunge ad altri due coronavirus umani (hCoV) noti già dal 2002 per la loro letalità e capacità di infettare l’uomo: SARS-CoV (Severe Acute Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile dell’epidemia di SARS del 2002-2004, e MersCoV (Middle East Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile della Mers, Sindrome Respiratoria medio-orientale

Come ogni malattia emergente, anche la COVID-19 richiede l’impegno della comunità scientifica per comprenderne i meccanismi di sviluppo e di trasmissione, al fine di adeguare i protocolli diagnostici e terapeutici. Una delle tante domande a cui gli scienziati hanno cercato di trovare nel più breve tempo una risposta è stata la modalità di diffusione di SARS-CoV-2. Mentre è stato ampiamente dimostrato che la principale via di trasmissione del virus sia il contatto diretto con una persona infetta, la sua trasmissione tramite il contatto con superfici contaminate (fomiti) è ritenuta possibile ma non è ancora supportata da solide evidenze scientifiche.

fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Sono esempi di fomiti i vestiti sporchi, gli asciugamani, le lenzuola, i fazzoletti, le medicazioni chirurgiche, gli aghi contaminati. La letteratura ha dimostrato la capacità dei fomiti di trasmettere virus respiratori e patogeni enterici, ma per SARS-CoV-2 il loro ruolo è ancora ampiamente sconosciuto. Proprio in ragione della scarsità di prove disponibili sul ruolo dei fomiti, nel rispetto del principio di precauzione numerose linee guida hanno raccomandato fin dall’inizio della pandemia come misure preventive la pulizia e disinfezione delle superfici, l’uso di guanti e l’igiene delle mani.

Un primo passo per studiare la capacità dei fomiti di traferire SARS-CoV-2 a chi vi entri in contatto è definire quanto il virus possa sopravvivere sulla superficie del fomite, raccogliendo un numero consistente di prove che dimostrino come possibile questo percorso di trasmissione del virus. Inoltre, è necessario analizzare anche la persistenza del virus nell’ambiente, che a sua volta dipende dalle caratteristiche strutturali del virus, da fattori ambientali (temperatura, umidità, esposizione ai raggi UV) e dalle caratteristiche della superficie del fomite.

Lo studio dell’IZSVe
Dallo studio è emerso che banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo. Alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV, così come la luce UV e quella solare.

I ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno svolto una revisione sistematica della letteratura scientifica per definire quanto a lungo SARS-CoV-2 riesca a sopravvivere sulle superfici dei fomiti. La ricerca ha incluso anche gli altri due principali coronavirus umani, MersCoV e SARS-CoV vista la loro pericolosità per la salute pubblica.

La comparazione delle evidenze scientifiche pubblicate in letteratura è stata effettuata su 18 articoli scientifici, selezionati dopo lo screening di 1.436 articoli restituiti dalle banche dati come articoli pertinenti la domanda di ricerca. La sopravvivenza dei coronavirus è stata valutata su differenti materiali: polimeri (plastica, PVC, teflon, guanti monouso, …), metalli (acciaio, alluminio, rame, …), vetro, carta, legno, tessuti (stoffa, camici monouso e in cotone), mascherine, spugne sterili, ceramica, banconote, mosaici e suolo.

Dalla revisione sistematica emerge che a temperatura ambiente SARS-CoV-2 può sopravvivere fino a 28 giorni su vetro, acciaio, polimeri plastici (banconote in polimero e vinile) e banconote di carta, e fino a 7 giorni sulle mascherine chirurgiche. 28 giorni è il periodo di sopravvivenza più lungo dimostrato in laboratorio: SARS-CoV è il coronavirus che ha mostrato un tempo di sopravvivenza maggiore dopo SARS-CoV-2, sopravvivendo fino a 14 giorni su superfici di vetro. Per quanto riguarda invece la contaminazione umana tramite fomite, ovvero la capacità dei fomiti di trasmettere l’infezione, banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo.

Anche le condizioni ambientali influenzano la capacità di sopravvivenza del virus sui fomiti: alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV e riducono la sopravvivenza di SARS-CoV-2, mentre basse temperature e poca umidità ne aumentano le chance a prescindere dalla tipologia di superficie colonizzata dal virus. Anche la luce UV e quella solare possono ridurre la vita dei coronavirus sulle superfici: soprattutto durante la stagione estiva è molto improbabile che superfici esposte al sole (in particolare quelle in acciaio inossidabile) riescano a trasmettere il virus, suggerendo la possibile maggior contagiosità di fomiti non esposti al sole.

Verso un approccio armonizzato
Comprendere la durata dei coronavirus sulle superfici può migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Lo studio IZSVe è un contributo alla comprensione dei coronavirus umani, in particolar modo di SARS-CoV-2 nell’ecosistema uomo-ambiente-animale: le evidenze raccolte possono essere impiegate, in particolar modo dai gestori del rischio, per migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Nel corso di questi due anni di pandemia, la comunità scientifica ha lavorato molto allo studio della sopravvivenza di SARS-CoV-2 sulle superfici e alla loro capacità infettante: nuovi studi sperimentali o revisioni sistematiche più recenti potrebbero smentire o aggiornare le evidenze raggiunte qui presentate. Nonostante ciò, il lavoro condotto dall’IZSVe evidenzia alcuni limiti nella letteratura finora disponibile, che possono essere spunto per la ricerca futura su questo specifico tema.

Innanzitutto gli studi finora pubblicati sono difficilmente comparabili tra di loro: sussistono differenze notevoli nella metodologia impiegata nelle singole prove sperimentali, motivo per cui i ricercatori IZSVe non hanno potuto dimostrare un legame tra tempo di sopravvivenza del virus e caratteristiche della superficie contaminata, suggerendo di lavorare alla definizione di un protocollo di riferimento per la conduzione delle prove di sopravvivenza del virus.

Inoltre i risultati ottenuti dalla revisione sistematica si riferiscono a studi di laboratorio,condotti in un contesto sperimentale, motivo per cui potrebbero non restituire l’effettiva capacità di resistenza di SARS-CoV-2: sarà importante quindi condurre studi sempre più aderenti alle reali condizioni di diffusione del virus nell’ambiente.

Fonte: IZS Venezie

 




La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

Ci sono atleti e atleti. Alcuni sono fenomeni veri, campioni straordinari che per talento e lavorando tenacemente raggiungono risultati prodigiosi. Ce ne sono altri che non avendo le stesse doti e meno voglia di sacrificarsi, ma pur di affermarsi, fanno uso di sostanze che accrescono slealmente le loro prestazioni.
La pratica in questione si chiama “doping”.
È un’azione fraudolenta che non è utilizzata soltanto in ambito sportivo. Già, perché se ne fa uso anche negli allevamenti degli animali da reddito.
La somministrazione di farmaci non autorizzati o l’utilizzo di sostanze farmacologiche permesse ma somministrate a bassi dosaggi e per periodi prolungati hanno effetti dopanti sugli animali.
L’uso di questi prodotti può provocare danni e lasciare conseguenze ai consumatori.
L’assunzione di carne con residui di molecole non autorizzate, infatti, può essere pericolosa per l’essere umano, soprattutto per i soggetti con delle pregresse patologie.
Svelare la loro presenza, dunque, è indispensabile per proteggere la salute dei cittadini.
Per poter fronteggiare questa piaga il CIBA – Centro di Referenza Nazionale per le Indagini Biologiche sugli Anabolizzanti Animali -, che ha sede presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università degli studi di Torino, ha applicato un programma di apprendimento automatico Weka (Waikato Environment for Knowledge Analysis) per svelare l’uso illecito di cortisonici per il “doping animale”.
È stato sviluppato un modello predittivo in grado di individuare i vitelli dopati con cortisonici, che sono i principi attivi di più largo utilizzo per “ingrassare” in modo fraudolento i bovini.
Sono sostanze che di fatto sono anche responsabili di enormi effetti collaterali per l’uomo, tra cui l’aumento della pressione sanguigna, l’iperglicemia e l’immunosoppressione.
Il modello generato da Weka è in grado di classificare correttamente il 95% degli animali testati sulla base dei valori di cinque biomarcatori sierici (cortisolo, inibina, capacità antiossidante del siero, osteocalcina, e urea).
La ricerca ha confermato quanto e come l’intelligenza artificiale può essere applicata con eccellenti risultati a salvaguardia della salute dei consumatori e a tutela del benessere animale.

Fonte: IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta




Le microplastiche non sono tutte uguali

microplasticheUno studio del Cnr-Irsa ha rilevato che, in acqua, i batteri che crescono sulle microparticelle derivate dagli pneumatici sono più pericolosi per l’ambiente rispetto a quelli che si sviluppano sui frammenti delle bottiglie di plastica, che invece potrebbero porre problemi per la salute dell’uomo. La ricerca è pubblicata su Journal of Hazardous Materials

Plastiche e microplastiche sono riconosciute come un inquinante emergente con effetti nefasti sulla salute dell’ambiente, dell’uomo e degli animali acquatici. Uno studio dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr-Irsa) ha dimostrato come microplastiche diverse possano causare un impatto differente sulle comunità batteriche in acqua. La ricerca è stata pubblicata su Journal of Hazardous Materials.

“In un sistema che replica un fiume o un lago italiano abbiamo comparato le comunità batteriche che crescono sul polietilene tereftalato (Pet) ricavato da una bottiglia di bibita, molto abbondante in acqua, con quelle che si sviluppano su particelle di pneumatico usato, quasi sconosciute a causa del fatto che tendono a non galleggiare e ad affondare molto lentamente”, spiega Gianluca Corno del Cnr-Irsa. “Abbiamo quindi dimostrato che la prima offre rifugio a batteri patogeni umani che possono causare rischio immediato per la salute umana, senza però favorirne una crescita immediata. Le particelle di pneumatico, grazie al rilascio costante di materia organica e nutrienti, favoriscono invece la crescita abnorme di batteri cosiddetti opportunisti che, pur non causando un rischio diretto per l’uomo, causano una perdita di qualità ambientale, di biodiversità microbica, e un conseguente depauperamento dei servizi ecosistemici offerti”.

Generalmente le comunità batteriche che crescono sulle microplastiche come biofilm sono studiate senza approfondirne le differenze legate al tipo di plastica su cui proliferano, ma come un unico comparto, la cosiddetta plastisfera. “Questo risultato ci pone, per la prima volta, di fronte alla necessità di riconsiderare i metodi di analisi dell’inquinamento da microplastiche e di tenere in conto le particelle di pneumatico, che possono avere un impatto decisivo sulla qualità degli ecosistemi acquatici in nazioni come l’Italia dove i fiumi sono particolarmente esposti a questo tipo di inquinamento”, conclude Corno.

La ricerca è stata finanziata nell’ambito del progetto AENEAS da AXA Research Fund. 

Fonte: CNR




Il CTS chiude i battenti, cui prodest?

Quella del 31 Marzo 2022 rappresenta per il nostro Paese un’altra data destinata a passare alla Storia.
Insieme alla fine dello stato di emergenza legato alla pandemia da SARS-CoV-2, che ha sin qui mietuto 6.200.000 di vittime su scala globale (160.000 delle quali in Italia), chiude infatti i battenti il “Comitato Tecnico-Scientifico”, popolarmente noto con l’acronimo “CTS”, a soli due anni dalla sua istituzione!
Da medico veterinario e da docente universitario che ha dedicato 35 anni della sua vita professionale allo studio delle malattie infettive animali ed umane, ritengo che questa sia una decisione tutt’altro che razionale e lungimirante.
Infatti, mentre il virus responsabile della Covid-19 continua a diffondersi nel mondo tramite le sue contagiosissime varianti “omicron” (si consideri, a titolo puramente esemplificativo, quanto sta avvenendo in Cina e a Hong Kong con la variante “omicron 2”, alias “BA.2”), andrebbe sottolineato a chiare lettere che le “malattie infettive emergenti” originerebbero, nel 70% e più dei casi, da uno o piu’ serbatoi animali. E numerosi sarebbero, altresi’, gli elementi indiziari a supporto di un’origine naturale dello stesso betacoronavirus SARS-CoV-2.
Per non dire, poi, dei numerosi “salti di specie” che tale virus ha compiuto dall’uomo agli animali (cd “spillover”), per ritornare successivamente all’uomo stesso (cd “spillback”), magari in forma mutata, come avvenuto più di un anno fa con la variante “cluster 5” negli allevamenti intensivi di visoni olandesi e danesi e, assai di recente, con un’infezione sostenuta da un ceppo di SARS-CoV-2 “altamente divergente”, acquisita in Canada da un individuo a seguito del contatto e/o della manipolazione di un esemplare di cervo a coda bianca (Odocoileus virginianus) infetto.
Come la drammatica pandemia da SARS-CoV-2 – tuttora in corso – testimonia in maniera quantomai chiara ed eloquente, la salute di uomo, animali ed ambiente compone una triade i cui elementi appaiono reciprocamente e indissolubilmente interconnessi fra loro, un concetto efficacemente riassunto, quest’ultimo, dall’espressione “One Health”.
Ne deriva che, in un siffatto contesto, non soltanto sarebbe stato opportuno assicurare la necessaria continuità operativa al CTS, ma sarebbe stata ulteriore “cosa buona e giusta” dotarlo di adeguate competenze medico-veterinarie, cosa a tutt’oggi non ancora avvenuta.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum!

 

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Antibiotici nelle uova: un metodo innovativo per il monitoraggio su vasta scala

uovaMetodiche di ultima generazione per individuare rapidamente più di 70 molecole diverse: un contributo prezioso per le aziende e gli Organismi di sorveglianza

Un metodo “multiclasse” che grazie alla combinazione di cromatografia liquida e spettrometria di massa ad alta risoluzione riesce a individuare con una sola analisi 73 molecole ad azione antibiotica. È il sistema sviluppato dall’Istituto Zooprofilattico di Teramo ed applicato per la ricerca di residui di antibiotici nelle uova.

La metodica, al centro di un lavoro scientifico pubblicato sulla rivista Separations, è stata sviluppata dal  Reparto di Bromatologia e residui dell’IZSAM e implementata su uova destinate al commercio. Duecento campioni, prelevati nell’arco del triennio 2018-2021 in 119 allevamenti distribuiti in quasi tutte le regioni Italiane, isole comprese, hanno permesso di validarne l’efficacia, oltre a fornire una accurata valutazione della situazione nel nostro Paese.

“Il metodo da noi messo a punto – dice il dottor Giorgio Saluti, Dirigente Chimico presso il reparto di Bromatologia e residui, primo autore del lavoro scientifico – è in grado di coprire la stragrande maggioranza delle sostanze normalmente usate negli allevamenti. Lo scopo è di aumentare l’efficienza, la rapidità e la completezza delle analisi che possono essere portate avanti, e i dati raccolti in questa fase di implementazione della metodologia ci permettono di dire che la situazione italiana è rassicurante e rientra ampiamente nei parametri stabiliti a livello comunitario”

L’utilizzo di antibiotici nell’allevamento di animali vede un’attenzione crescente sia da parte delle autorità sanitarie che dei singoli cittadini, soprattutto per quanto riguarda il possibile sviluppo di batteri antibiotico-resistenti. Il fenomeno è considerato molto preoccupante a livello mondiale perché può ridurre l’efficacia di una delle principali armi a disposizione della medicina per combattere le infezioni batteriche negli esseri umani. L’Europa ha infatti stabilito dei limiti di concentrazione massimi per i residui di antibiotici negli alimenti di origine animale, quindi anche nelle uova.

“L’interesse verso la presenza di residui di antibiotici negli alimenti in genere – commenta Giampiero Scortichini, Responsabile del reparto di Bromatologia e residui – è molto elevato perché il loro consumo può portare alla comparsa di allergie oltre che a fenomeni di antibiotico-resistenza. Stiamo osservando, a livello europeo, un generale declino nel loro impiego, un segnale certamente positivo. La metodica sviluppata dall’IZSAM, grazie alla rapidità di esecuzione e all’elevato numero di sostanze che è in grado di individuare, rappresenta un contributo rivolto sia alle aziende produttrici, in una visione di supporto ai loro processi di produzione, sia alle istituzioni, per una sorveglianza sempre più attenta e accurata”.

 Fonte: IZS Teramo



Salmonella e Campylobacter continuano a presentare elevati livelli di resistenza agli antibiotici

AntibioticoresistenzaLa resistenza agli antibiotici nei batteri Salmonella Campylobacter è ancora elevata, si afferma in un rapporto pubblicato oggi dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

Nel 2020 la campilobatteriosi è stata la zoonosi maggiormente segnalata nell’UE, oltre che la causa di malattia veicolata da alimenti riferita con maggior frequenza. I batteri Campylobacter isolati nell’uomo e nel pollame continuano a mostrare una resistenza molto alta alla ciprofloxacina, un antibiotico fluorochinolone comunemente usato per trattare alcuni tipi di infezioni batteriche nell’uomo.

Crescenti tendenze di resistenza alla classe di antibiotici fluorochinoloni sono state osservate nell’uomo e nei polli da carne riferiti a Campylobacter jejuni. In Salmonella Enteritidis, il tipo più comune di Salmonella nell’uomo, sono state osservate tendenze crescenti di resistenza alla classe di antibiotici chinoloni/fluorochinoloni. Negli animali la resistenza a tali antibiotici in Campylobacter jejuni e Salmonella Enteritidis è stata in genere compresa tra moderata ed elevata.

Tuttavia, nonostante le tendenze crescenti di resistenza ad alcuni antibiotici, la resistenza simultanea a due antibiotici di importanza primaria rimane bassa per E. coliSalmonella Campylobacter in batteri isolati in esseri umani e animali da produzione alimentare.

Un calo nella resistenza alle tetracicline e all’ampicillina in Salmonella isolata in esseri umani è stato osservato, rispettivamente, in nove e dieci Paesi nel periodo compreso tra il 2016 e il 2020, in maniera particolarmente evidente in Salmonella Typhimurium. Nonostante il calo, la resistenza a tali antibiotici resta ancora alta nei batteri di provenienza sia umana che animale.

Inoltre in più della metà dei Paesi dell’Unione europea è stata osservata una tendenza statisticamente significativa al calo della prevalenza di E. coli produttore di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL) negli animali da produzione alimentare. Si tratta di un dato importante poiché particolari ceppi di Escherichia coli produttore di ESBL sono causa di infezioni gravi nell’uomo.

Resta estremamente rara la resistenza ai carbapenemi in E. coli e Salmonella isolati in animali da produzione alimentare. I carbapenemi sono una classe di antibiotici di ultima istanza e qual-siasi dato che evidenzi resistenza ad essi nei batteri zoonotici è motivo di preoccupazione.

Anche se i risultati e le tendenze sono in linea con i dati riferiti in anni precedenti, la pandemia da COVID-19 ha avuto un impatto sulla quantità dei dati segnalati, in particolare in termini di salute pubblica.

Una pagina interattiva di visualizzazione dati sul sito EFSA mostra i livelli di resistenza nell’uomo, negli animali e negli alimenti, Paese per Paese, nel 2019 e nel 2020.

Dati sulla resistenza agli antibiotici contenuti in cibi e acqua destinati al consumo umano sono invece pubblicati in ECDC’s Surveillance Atlas of Infectious Diseases (alla voce, rispettivamente, campilobatteriosi, salmonellosi e shigellosi).

Fonte: EFSA




IZS Lazio e Toscana propone la creazione di un “Centro Sperimentale per l’Insetticoltura Sostenibile”

Creare un “Centro Sperimentale per l’Insetticoltura Sostenibile” presso la sezione di Viterbo dell’Istitututo Zooprofilattico Lazio e Toscana è la proposta presentata nei giorni scorsi dall’IZS.

La proposta prevede in particolare la creazione di un partenariato sulla base del modello del ‘living lab’, dove il settore della ricerca pubblica incontra quello della ricerca privata e dell’impresa, delle istituzioni locali e dei consumatori, co-progettando lo sviluppo e la validazione delle innovazioni nell’ambito dell’insetticoltura sostenibile e facilitandone il trasferimento dei risultati sul territorio.

L’allevamento di insetti su sottoprodotti di natura organica, come ad esempio gli ‘scarti’ dell’industria agro-alimentare, rappresenta oggi un formidabile strumento per reimmettere nella catena alimentare prezioso materiale spesso destinato alla distruzione. Le proteine ottenute dagli insetti possono infatti essere impiegate per la produzione di mangimi da utilizzare nell’allevamento avicolo, in quello suinicolo e nell’acquacoltura, nel pieno rispetto dell’etologia degli animali.

Gli insetti allevati su scarti organici costituiscono inoltre un’interessante fonte per la produzione di ‘molecole tecniche’ (biocarburante, lubrificanti, chitosano, etc) da impiegare nell’industria chimica, meccanica e farmaceutica.

L’insetticoltura sostenibile è, in sintesi, un’interessante opzione per il perseguimento di alcuni importanti obiettivi individuati nelle agende di istituzioni come le Nazioni Unite (Agenda 2030) e la Commissione Europea (‘Farm to Fork’; ‘Climate Neutrality by 2050’).

‘Insieme – dichiara Ugo Della Marta Direttore Generale – è possibile studiare modelli di ‘piccole economie circolari’ locali per l’allevamento di insetti da sottoprodotti/scarti organici. La biomassa d’insetto prodotta attraverso la bioconversione degli scarti organici potrà essere avviata alla trasformazione in mangimi (già autorizzati per alcune specie allevate), alimenti e molecole tecniche, con l’obiettivo di creare nuove opportunità di crescita economica per il territorio e, al contempo, di migliorare la sostenibilità ambientale delle filiere produttive che su questo insistono.

Alla discussione ampia ed articolata, moderata dal direttore sanitario dell’Istituto, Andrea Leto hanno partecipato tutti gli interlocutori, che nelle loro specificità hanno manifestato grande interesse per il progetto condividendo la proposta di stipulare di un accordo quadro che metta insieme gli interessi dei vari enti ed organismi per realizzare congiuntamente attività scientifiche attraverso proposte progettuali, progetti di ricerca, corsi di formazione, attivazione e promozione di nuove iniziative basate sulla compartecipazione in relazione ad aree tematiche di interesse comune.

La realizzazione di un progetto con tali caratteristiche rappresenta una esperienza unica nel panorama nazionale, in un settore in forte espansione e dal sicuro impatto ai fini della sostenibilità ambientale.

Fonte: Comunicato IZS Lazio e Toscana




Resistenza antimicrobica, il monitoraggio della rete SNPA a supporto delle strategie One health

La resistenza antimicrobica rappresenta una delle principali problematiche sanitarie e di salute pubblica, una minaccia per la salute e lo sviluppo globale.

Anche in considerazione dell’imminente  approvazione del nuovo Piano nazionale  per il contrasto alla resistenza antimicrobica  2022-2025, nell’articolo “Il monitoraggio a supporto delle strategie “One health”” pubblicato sul numero 1/2022 di Ecoscienza, la rivista di Arpae Emilia-Romagna, Giuseppe Bortone – direttore generale Arpae Emilia-Romagna,  propone, in un ottica One Health, il potenziamento delle reti di monitoraggio del Snpa – Sistema Nazionale Protezione Ambiente per individuare le azioni di contenimento e prevenzione dello smaltimento di sostanze antibiotiche nell’ambiente.




ISS. Zanzare in Italia: raccolta, identificazione e conservazione delle specie più comuni

Negli ultimi anni l’Italia è stata colpita da eventi epidemici riconducibili a malattie trasmesse da zanzare, quali West Nile, chikungunya e dengue. Per migliorare la preparedness e le capacità di rispondere a queste minacce è importante in un paese identificare ruoli, responsabilità e attività da implementare, ottimizzando risorse umane ed economiche.

Da qui l’esigenza di dotarsi di personale formato, in grado di riconoscere i rischi legati alle zanzare, avviare sistemi di sorveglianza entomologica, organizzare strategie di contrasto e, quando necessario, applicare misure di emergenza.

L’Istituto Superiore di sanità ha realizzato quindi una guida, uno strumento pratico non solo per conoscere biologia e distribuzione delle zanzare più comuni o di maggiore interesse sanitario, ma anche che permettesse di identificarle facilmente.

Attraverso un approccio rigoroso, ma semplificato, si è privilegiata la scelta di caratteri morfologici stabili e chiaramente osservabili. A supporto dell’opera, vengono fornite utili chiavi dicotomiche, con disegni schematici esplicativi.

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Prima segnalazione in Europa di Circovirus suino di tipo 2e

Una collaborazione tra il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova ha portato alla prima segnalazione di Circovirus suino di tipo 2e (PCV-2e) in Europa. Questa variante del virus, identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto, finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La scoperta è stata quindi pubblicata nella rivista scientifica internazionale The Veterinary Journal.

Il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’IZSVe e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova hanno rilevato per la prima volta la presenza di Circovirus suino di tipo 2e (PCV2-e) in Europa. Questa variante del virus – che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD) – finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La variante è stata identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto.

Il Circovirus suino di tipo 2 (PCV-2) è un agente patogeno diffuso in tutto il mondo che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD), causando gravi perdite economiche per gli allevatori del settore. Ad oggi la circolazione di PCV-2 in allevamento determina prevalentemente forme subcliniche, che non dovrebbero comunque essere trascurate in quanto associate a una diminuzione della produttività degli animali.

PCV-2 è un virus a DNA circolare a filamento singolo, con un genoma di circa 1.7 kb. Attualmente sono riconosciuti 8 genotipi (PCV-2a-h), di cui solo tre (PCV-2a, -2b, -2d) hanno dimostrato di avere una distribuzione a livello mondiale, mentre gli altri sono stati segnalati occasionalmente. L’elevata variabilità del virus ha spinto a mettere in discussione l’efficacia dei vaccini in uso verso le varianti più recenti, e aumentato l’interesse di veterinari e allevatori per l’identificazione del genotipo virale circolante in azienda.

Il rilevamento di PCV-2e da parte dei ricercatori della sezione di Pordenone dell’IZSVe e dell’Università di Padova nasce proprio dalla richiesta di genotipizzare alcuni virus isolati da campioni prelevati in un allevamento suinicolo del Veneto. I suini controllati non presentavano sintomi suggestivi di PCVD e il ritrovamento è stato accidentale, ma ciò non significa che il virus sia innocuo per gli animali. Bisogna tenere infatti in considerazione che PCV-2e è il più diverso tra i genotipi di PCV-2 e presenta un fenotipo distinto, al punto che già in passato sono stati espressi dubbi sull’efficacia dei vaccini disponibili contro questa variante.

A questo aspetto si aggiunge l’identificazione di stipiti virali appartenenti al più comune genotipo PCV-2d in campioni prelevati dallo stesso allevamento, effettuata in seguito ad ulteriori approfondimenti diagnostici. Ciò ha confermato la contemporanea diffusione nell’allevamento di due genotipi: un fattore che può non solo aggravare la sintomatologia negli animali, ma anche rendere possibili fenomeni di ricombinazione in caso di coinfezione, favorendo ulteriormente l’incremento della variabilità di PCV-2.

Di conseguenza, anche se l’assenza di sintomatologia clinica è un aspetto favorevole, non bisogna abbassare la guardia dato che la PCVD è caratterizzata da una patogenesi multifattoriale. Per questo i ricercatori raccomandano di alzare la soglia di attenzione nella sorveglianza sulla possibile circolazione del genotipo PCV-2e in Italia e in Europa, non potendo escludere una sua più vasta diffusione.

Leggi l’articolo scientifico su The Veterinary Journal »

Fonte: IZS Venezie