Salmonella e Campylobacter continuano a presentare elevati livelli di resistenza agli antibiotici

AntibioticoresistenzaLa resistenza agli antibiotici nei batteri Salmonella Campylobacter è ancora elevata, si afferma in un rapporto pubblicato oggi dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA).

Nel 2020 la campilobatteriosi è stata la zoonosi maggiormente segnalata nell’UE, oltre che la causa di malattia veicolata da alimenti riferita con maggior frequenza. I batteri Campylobacter isolati nell’uomo e nel pollame continuano a mostrare una resistenza molto alta alla ciprofloxacina, un antibiotico fluorochinolone comunemente usato per trattare alcuni tipi di infezioni batteriche nell’uomo.

Crescenti tendenze di resistenza alla classe di antibiotici fluorochinoloni sono state osservate nell’uomo e nei polli da carne riferiti a Campylobacter jejuni. In Salmonella Enteritidis, il tipo più comune di Salmonella nell’uomo, sono state osservate tendenze crescenti di resistenza alla classe di antibiotici chinoloni/fluorochinoloni. Negli animali la resistenza a tali antibiotici in Campylobacter jejuni e Salmonella Enteritidis è stata in genere compresa tra moderata ed elevata.

Tuttavia, nonostante le tendenze crescenti di resistenza ad alcuni antibiotici, la resistenza simultanea a due antibiotici di importanza primaria rimane bassa per E. coliSalmonella Campylobacter in batteri isolati in esseri umani e animali da produzione alimentare.

Un calo nella resistenza alle tetracicline e all’ampicillina in Salmonella isolata in esseri umani è stato osservato, rispettivamente, in nove e dieci Paesi nel periodo compreso tra il 2016 e il 2020, in maniera particolarmente evidente in Salmonella Typhimurium. Nonostante il calo, la resistenza a tali antibiotici resta ancora alta nei batteri di provenienza sia umana che animale.

Inoltre in più della metà dei Paesi dell’Unione europea è stata osservata una tendenza statisticamente significativa al calo della prevalenza di E. coli produttore di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL) negli animali da produzione alimentare. Si tratta di un dato importante poiché particolari ceppi di Escherichia coli produttore di ESBL sono causa di infezioni gravi nell’uomo.

Resta estremamente rara la resistenza ai carbapenemi in E. coli e Salmonella isolati in animali da produzione alimentare. I carbapenemi sono una classe di antibiotici di ultima istanza e qual-siasi dato che evidenzi resistenza ad essi nei batteri zoonotici è motivo di preoccupazione.

Anche se i risultati e le tendenze sono in linea con i dati riferiti in anni precedenti, la pandemia da COVID-19 ha avuto un impatto sulla quantità dei dati segnalati, in particolare in termini di salute pubblica.

Una pagina interattiva di visualizzazione dati sul sito EFSA mostra i livelli di resistenza nell’uomo, negli animali e negli alimenti, Paese per Paese, nel 2019 e nel 2020.

Dati sulla resistenza agli antibiotici contenuti in cibi e acqua destinati al consumo umano sono invece pubblicati in ECDC’s Surveillance Atlas of Infectious Diseases (alla voce, rispettivamente, campilobatteriosi, salmonellosi e shigellosi).

Fonte: EFSA




IZS Lazio e Toscana propone la creazione di un “Centro Sperimentale per l’Insetticoltura Sostenibile”

Creare un “Centro Sperimentale per l’Insetticoltura Sostenibile” presso la sezione di Viterbo dell’Istitututo Zooprofilattico Lazio e Toscana è la proposta presentata nei giorni scorsi dall’IZS.

La proposta prevede in particolare la creazione di un partenariato sulla base del modello del ‘living lab’, dove il settore della ricerca pubblica incontra quello della ricerca privata e dell’impresa, delle istituzioni locali e dei consumatori, co-progettando lo sviluppo e la validazione delle innovazioni nell’ambito dell’insetticoltura sostenibile e facilitandone il trasferimento dei risultati sul territorio.

L’allevamento di insetti su sottoprodotti di natura organica, come ad esempio gli ‘scarti’ dell’industria agro-alimentare, rappresenta oggi un formidabile strumento per reimmettere nella catena alimentare prezioso materiale spesso destinato alla distruzione. Le proteine ottenute dagli insetti possono infatti essere impiegate per la produzione di mangimi da utilizzare nell’allevamento avicolo, in quello suinicolo e nell’acquacoltura, nel pieno rispetto dell’etologia degli animali.

Gli insetti allevati su scarti organici costituiscono inoltre un’interessante fonte per la produzione di ‘molecole tecniche’ (biocarburante, lubrificanti, chitosano, etc) da impiegare nell’industria chimica, meccanica e farmaceutica.

L’insetticoltura sostenibile è, in sintesi, un’interessante opzione per il perseguimento di alcuni importanti obiettivi individuati nelle agende di istituzioni come le Nazioni Unite (Agenda 2030) e la Commissione Europea (‘Farm to Fork’; ‘Climate Neutrality by 2050’).

‘Insieme – dichiara Ugo Della Marta Direttore Generale – è possibile studiare modelli di ‘piccole economie circolari’ locali per l’allevamento di insetti da sottoprodotti/scarti organici. La biomassa d’insetto prodotta attraverso la bioconversione degli scarti organici potrà essere avviata alla trasformazione in mangimi (già autorizzati per alcune specie allevate), alimenti e molecole tecniche, con l’obiettivo di creare nuove opportunità di crescita economica per il territorio e, al contempo, di migliorare la sostenibilità ambientale delle filiere produttive che su questo insistono.

Alla discussione ampia ed articolata, moderata dal direttore sanitario dell’Istituto, Andrea Leto hanno partecipato tutti gli interlocutori, che nelle loro specificità hanno manifestato grande interesse per il progetto condividendo la proposta di stipulare di un accordo quadro che metta insieme gli interessi dei vari enti ed organismi per realizzare congiuntamente attività scientifiche attraverso proposte progettuali, progetti di ricerca, corsi di formazione, attivazione e promozione di nuove iniziative basate sulla compartecipazione in relazione ad aree tematiche di interesse comune.

La realizzazione di un progetto con tali caratteristiche rappresenta una esperienza unica nel panorama nazionale, in un settore in forte espansione e dal sicuro impatto ai fini della sostenibilità ambientale.

Fonte: Comunicato IZS Lazio e Toscana




Resistenza antimicrobica, il monitoraggio della rete SNPA a supporto delle strategie One health

La resistenza antimicrobica rappresenta una delle principali problematiche sanitarie e di salute pubblica, una minaccia per la salute e lo sviluppo globale.

Anche in considerazione dell’imminente  approvazione del nuovo Piano nazionale  per il contrasto alla resistenza antimicrobica  2022-2025, nell’articolo “Il monitoraggio a supporto delle strategie “One health”” pubblicato sul numero 1/2022 di Ecoscienza, la rivista di Arpae Emilia-Romagna, Giuseppe Bortone – direttore generale Arpae Emilia-Romagna,  propone, in un ottica One Health, il potenziamento delle reti di monitoraggio del Snpa – Sistema Nazionale Protezione Ambiente per individuare le azioni di contenimento e prevenzione dello smaltimento di sostanze antibiotiche nell’ambiente.




ISS. Zanzare in Italia: raccolta, identificazione e conservazione delle specie più comuni

Negli ultimi anni l’Italia è stata colpita da eventi epidemici riconducibili a malattie trasmesse da zanzare, quali West Nile, chikungunya e dengue. Per migliorare la preparedness e le capacità di rispondere a queste minacce è importante in un paese identificare ruoli, responsabilità e attività da implementare, ottimizzando risorse umane ed economiche.

Da qui l’esigenza di dotarsi di personale formato, in grado di riconoscere i rischi legati alle zanzare, avviare sistemi di sorveglianza entomologica, organizzare strategie di contrasto e, quando necessario, applicare misure di emergenza.

L’Istituto Superiore di sanità ha realizzato quindi una guida, uno strumento pratico non solo per conoscere biologia e distribuzione delle zanzare più comuni o di maggiore interesse sanitario, ma anche che permettesse di identificarle facilmente.

Attraverso un approccio rigoroso, ma semplificato, si è privilegiata la scelta di caratteri morfologici stabili e chiaramente osservabili. A supporto dell’opera, vengono fornite utili chiavi dicotomiche, con disegni schematici esplicativi.

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Prima segnalazione in Europa di Circovirus suino di tipo 2e

Una collaborazione tra il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova ha portato alla prima segnalazione di Circovirus suino di tipo 2e (PCV-2e) in Europa. Questa variante del virus, identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto, finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La scoperta è stata quindi pubblicata nella rivista scientifica internazionale The Veterinary Journal.

Il Laboratorio patologia e benessere della specie suina dell’IZSVe e il Dipartimento di medicina animale, produzioni e salute dell’Università di Padova hanno rilevato per la prima volta la presenza di Circovirus suino di tipo 2e (PCV2-e) in Europa. Questa variante del virus – che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD) – finora era stata rilevata solo in Asia e Nord America. La variante è stata identificata in campioni prelevati da un allevamento veneto.

Il Circovirus suino di tipo 2 (PCV-2) è un agente patogeno diffuso in tutto il mondo che può determinare nei suini diverse condizioni cliniche che rientrano nel quadro denominato Porcine Circovirus Disease (PCVD), causando gravi perdite economiche per gli allevatori del settore. Ad oggi la circolazione di PCV-2 in allevamento determina prevalentemente forme subcliniche, che non dovrebbero comunque essere trascurate in quanto associate a una diminuzione della produttività degli animali.

PCV-2 è un virus a DNA circolare a filamento singolo, con un genoma di circa 1.7 kb. Attualmente sono riconosciuti 8 genotipi (PCV-2a-h), di cui solo tre (PCV-2a, -2b, -2d) hanno dimostrato di avere una distribuzione a livello mondiale, mentre gli altri sono stati segnalati occasionalmente. L’elevata variabilità del virus ha spinto a mettere in discussione l’efficacia dei vaccini in uso verso le varianti più recenti, e aumentato l’interesse di veterinari e allevatori per l’identificazione del genotipo virale circolante in azienda.

Il rilevamento di PCV-2e da parte dei ricercatori della sezione di Pordenone dell’IZSVe e dell’Università di Padova nasce proprio dalla richiesta di genotipizzare alcuni virus isolati da campioni prelevati in un allevamento suinicolo del Veneto. I suini controllati non presentavano sintomi suggestivi di PCVD e il ritrovamento è stato accidentale, ma ciò non significa che il virus sia innocuo per gli animali. Bisogna tenere infatti in considerazione che PCV-2e è il più diverso tra i genotipi di PCV-2 e presenta un fenotipo distinto, al punto che già in passato sono stati espressi dubbi sull’efficacia dei vaccini disponibili contro questa variante.

A questo aspetto si aggiunge l’identificazione di stipiti virali appartenenti al più comune genotipo PCV-2d in campioni prelevati dallo stesso allevamento, effettuata in seguito ad ulteriori approfondimenti diagnostici. Ciò ha confermato la contemporanea diffusione nell’allevamento di due genotipi: un fattore che può non solo aggravare la sintomatologia negli animali, ma anche rendere possibili fenomeni di ricombinazione in caso di coinfezione, favorendo ulteriormente l’incremento della variabilità di PCV-2.

Di conseguenza, anche se l’assenza di sintomatologia clinica è un aspetto favorevole, non bisogna abbassare la guardia dato che la PCVD è caratterizzata da una patogenesi multifattoriale. Per questo i ricercatori raccomandano di alzare la soglia di attenzione nella sorveglianza sulla possibile circolazione del genotipo PCV-2e in Italia e in Europa, non potendo escludere una sua più vasta diffusione.

Leggi l’articolo scientifico su The Veterinary Journal »

Fonte: IZS Venezie




OMS, FAO, OIE: monitoraggio dell’infezione da SARS CoV 2 nella fauna selvatica e prevenzione della formazione di serbatoi animali

OIE OMS FAOL’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e l’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE) hanno diffuso una dichiarazione congiunta sulla priorità del monitoraggio dell’infezione da SARS CoV 2 nella fauna selvatica e sulla prevenzione della formazione di serbatoi animali.

“Mentre entriamo nel terzo anno di pandemia, SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, si sta diffondendo intensamente tra le persone a livello globale. Ci sono molti fattori che alimentano la trasmissione. Uno di questi è l’emergere di varianti VOC altamente trasmissibili, l’ultima è Omicron. Il virus continua ad evolversi e il rischio della comparsa di varianti nel futuro è elevato.

Sebbene la pandemia di COVID-19 sia sostenuta dalla trasmissione da uomo a uomo, è noto che il virus SARS-CoV-2 infetta anche le specie animali. Le attuali conoscenze indicano che la fauna selvatica non svolge un ruolo significativo nella diffusione di SARS-CoV-2 negli esseri umani, ma la diffusione nelle popolazioni animali può influire sula salute di queste popolazioni e può facilitare l’emergere di nuove varianti del virus.

Oltre agli animali domestici, sono stati infettati da SARS-CoV-2 anche animali selvatici – in libertà, in cattività o d’allevamento – come grandi felini, visoni, furetti, cervi dalla coda bianca nordamericani e grandi scimmie. Ad oggi, visoni d’allevamento e criceti da compagnia hanno dimostrato di essere in grado di infettare gli esseri umani con il virus SARS-CoV-2, mentre è allo studio un potenziale caso di trasmissione tra un cervo dalla coda bianca e un essere umano.

L’introduzione di SARS-CoV-2 nella fauna selvatica potrebbe portare alla formazione di animali serbatoio. Ad esempio, è emerso che circa un terzo dei cervi dalla coda bianca selvatici negli Stati Uniti d’America è stato infettato da SARS-CoV-2, inizialmente tramite vari eventi di trasmissione uomo-cervo. I lineage rilevati nei cervi dalla coda bianca stanno circolando anche nelle popolazioni umane vicine. È stato dimostrato che i cervi dalla coda bianca diffondono il virus e lo trasmettono tra loro.

La FAO, l’OIE e l’OMS chiedono a tutti i paesi di adottare misure per ridurre il rischio di trasmissione di SARS-CoV-2 tra uomo e fauna selvatica, con l’obiettivo di ridurre il rischio di comparsa di varianti e di proteggere sia l’uomo che la fauna selvatica. Esortiamo le autorità ad adottare le normative pertinenti e a diffondere le raccomandazioni precedentemente rilasciate da FAO, OIE e OMS alle persone che lavorano a stretto contatto o manipolano la fauna selvatica, inclusi cacciatori e macellai, e al pubblico.

Il personale che lavora a stretto contatto con la fauna selvatica dovrebbe essere formato per mettere in atto misure che riducano il rischio di trasmissione tra persone e tra persone e animali, utilizzando i consigli dell’OMS su come proteggersi e prevenire la diffusione del COVID-19 e le Linee guida OIE e FAO sull’uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI) e delle buone pratiche igieniche relative agli animali, comprese le buone pratiche igieniche per cacciatori e macellai.

Le prove attuali suggeriscono che gli esseri umani non vengono infettati dal virus SARS-CoV-2 mangiando carne. Tuttavia, i cacciatori non dovrebbero rintracciare gli animali che sembrano malati o raccogliere quelli che vengono trovati morti. Appropriate tecniche di macellazione e preparazione degli alimenti, comprese appropriate pratiche igieniche, possono limitare la trasmissione di coronavirus, incluso SARS-CoV-2, e altri agenti patogeni zoonotici.

FAO, OIE e OMS sottolineano che il pubblico dovrebbe essere educato al contatto con la fauna selvatica. Alcuni animali selvatici possono avvicinarsi agli insediamenti umani e alle aree residenziali. Come precauzione generale, le persone non dovrebbero avvicinarsi o nutrire animali selvatici o toccare o mangiare coloro che sono malati o trovati morti (comprese le vittime di incidenti stradali). Dovrebbero invece contattare le autorità locali per la fauna selvatica o professionisti della salute della fauna selvatica.

È anche fondamentale smaltire in sicurezza il cibo non consumato, le mascherine, i tessuti e qualsiasi altro rifiuto umano per evitare di attirare la fauna selvatica, in particolare nelle aree urbane e, se possibile, tenere gli animali domestici lontani dalla fauna selvatica e dai loro escrementi.

Esortiamo inoltre i servizi nazionali per la salute degli animali e dell’uomo dei paesi ad adottare le seguenti misure:

– Incoraggiare la collaborazione tra i servizi veterinari nazionali e le autorità nazionali per la fauna selvatica, la cui partnership è fondamentale per promuovere la salute degli animali e salvaguardare la salute umana e ambientale.

– Promuovere il monitoraggio della fauna selvatica e incoraggiare il campionamento di animali selvatici noti per essere potenzialmente suscettibili a SARS-CoV-2.

– Condividere tutti i dati sul sequenziamento genetico provenienti dagli studi sulla sorveglianza degli animali attraverso le banche dati pubbliche disponibili.

– Segnalare casi animali confermati di SARS-CoV-2 all’OIE tramite il sistema mondiale di informazione sulla salute degli animali (OIE-WAHIS).

– Creare con attenzione i messaggi su SARS-CoV-2 negli animali in modo che percezioni pubbliche imprecise non influiscano negativamente sugli sforzi per la conservazione degli animali. Nessun animale trovato infetto da SARS-CoV-2 dovrebbe essere abbandonato, rifiutato o ucciso senza fornire una giustificazione basata su una valutazione del rischio specifica per paese o evento.

Come misura di emergenza, sospendere la vendita nei mercati alimentari di mammiferi selvatici vivi catturati.

Le nostre organizzazioni sottolineano l’importanza del monitoraggio dell’infezione da SARS-CoV-2 nelle popolazioni di mammiferi selvatici, riportando i risultati ai servizi veterinari nazionali (che segnalano i risultati all’OIE) e condividendo i dati di sequenziamento genomico su database pubblicamente disponibili. I paesi dovrebbero anche adottare precauzioni per ridurre il rischio di formazione di serbatoi animali e la potenziale accelerazione dell’evoluzione del virus in nuovi ospiti, che potrebbero portare all’emergere di nuove varianti del virus. Tali misure preserveranno la salute della preziosa fauna selvatica così come degli esseri umani.

Invitiamo i governi e gli altri soggetti interessati a portare i contenuti di questa dichiarazione congiunta all’attenzione delle autorità competenti e di tutte le parti interessate”.

Traduzione a cura della segreteria SIMeVeP




Crisi umanitaria e CoViD-19 in Ucraina

L’immane catastrofe umanitaria vissuta dall’Ucraina e dal suo fiero popolo per via della scellerata invasione perpetrata dal folle leader russo Vladimir Putin andrebbe letta e narrata tenendo in debito conto anche la pandemia da SARS-CoV-2, il famigerato betacoronavirus responsabile della CoViD-19.

A tal proposito, le oltre 100.000 morti provocate in due anni dal virus in quel Paese fanno il paio con un esiguo tasso di vaccinazione anti-SARS-CoV-2 della popolazione ucraina, che si attesterebbe intorno al 35%.

La verosimile conseguenza di tutto cio’ sara’ un consistente aumento dei casi d’infezione da SARS-CoV-2, tanto piu’ a motivo dei frequenti e prolungati assembramenti di quella martoriata popolazione (spesso in assenza di adeguati dispositivi di protezione individuale) nei bunker piuttosto che nei sotterranei della metropolitana e degli ospedali, nonche’ nelle stazioni ferroviarie, assembramenti resi inevitabili dagli incessanti quanto drammatici bombardamenti non solo di obiettivi militari, ma anche civili da parte delle forze armate russe.

In un siffatto scenario, che a dire il vero sembra esser rimasto “un po’ in disparte” nella narrazione dell’immane tragedia umanitaria vissuta dalla gente ucraina, l’emergenza e la successiva diffusione di nuove varianti di SARS-CoV-2 dotate di elevata trasmissibilita’ (vedi “omicron”) o, peggio ancora, di marcata patogenicita’ (vedi “delta”) appare un’evenienza probabile oltre che biologicamente plausibile ed, in quanto tale, una sorta di “dramma nella catastrofe”!

Giovanni Di Guardo, gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria all’Universita’ di Teramo.




Encefalite da zecche: primo caso diagnosticato in un capriolo

Ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno diagnosticato il primo caso di encefalite da zecca (TBE, Tick Borne Encephalitis) in un capriolo, in provincia di Belluno, area in cui la malattia è endemica. Finora non erano mai stati segnalati casi clinici di virus TBE nei cervidi. Questo caso, oltre all’interesse in termini di diagnosi differenziale, riporta l’attenzione sull’importanza della sorveglianza epidemiologica delle zoonosi in un ambiente in costante trasformazione. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Viruses.

Ricercatori dell’IZSVe hanno diagnosticato il primo caso di encefalite da zecca (TBE) in un capriolo in provincia di Belluno, area in cui la malattia è endemica. Finora non erano mai stati segnalati casi clinici di virus TBE nei cervidi. I ricercatori, con un approccio metagenomico, sono riusciti a sequenziare il genoma virale del caso in questione, confermando una stretta correlazione con il sottotipo europeo del virus.

La TBE, o meningoencefalite primaverile-estiva, è una zoonosi virale acuta del sistema nervoso centrale, trasmessa principalmente attraverso morsi di zecche infette a diversi mammiferi, compreso l’uomo. I vettori della malattia in Europa sono principalmente le zecche Ixodes ricinus. Ad oggi sono noti cinque sottotipi virali, filogeneticamente classificati e caratterizzati per diversa distribuzione geografica e gravità della patologia indotta nell’uomo. In Europa occidentale è prevalente il sottotipo europeo, che presenta un tasso di mortalità inferiore al 2%. I ricercatori, con un approccio metagenomico, sono riusciti a sequenziare il genoma virale del caso in questione, confermando una stretta correlazione con questo sottotipo.

In Italia la presenza del virus è attualmente limitata alla parte nord-orientale. In particolare nella provincia di Belluno, area di provenienza del giovane capriolo, si rilevano circa il 40% di tutti i casi umani di TBE nel nostro paese. L’animale, di un anno d’età, è stato individuato grazie al costante e attento monitoraggio nella zona effettuato dalla Polizia Provinciale, con cui da anni l’IZSVe ha un rapporto di stretta collaborazione. La presenza di gravi sintomi neurologici, in particolare atassia, movimenti barcollanti ed equilibrio precario, tremori muscolari, movimenti ripetitivi della testa, digrignamento dei denti, ipersalivazione e decubito prolungato, ha indotto gli agenti sul campo a considerare prontamente il soggetto per gli accertamenti sanitari.

Il ciclo della TBE dipende da diversi fattori interconnessi tra loro come il clima, la tipologia di territorio e la densità di zecche e degli animali ospite in cui si nutrono. Giocano un ruolo chiave sia gli animali competenti nella trasmissione del virus alle zecche, come i piccoli roditori, sia altri animali come gli ungulati selvatici. Infatti questi ultimi, anche se non competenti nella trasmissione del virus, svolgono un ruolo rilevante nel garantire la sopravvivenza e l’abbondanza delle popolazioni di zecche. Per questo i focolai di TBE hanno una distribuzione irregolare, che va da pochi metri quadrati a diversi chilometri quadrati.

Il caso descritto non è naturalmente da interpretare come un’allerta, in quanto l’area di provenienza era già notoriamente endemica per la malattia, e anche in caso di espansione in un nuovo territorio sarebbe molto più probabile osservare casi prima nell’uomo che negli animali. Questo studio piuttosto, sebbene limitato ad un singolo caso, mette in luce l’importanza della sorveglianza sanitaria sulla fauna e del suo inquadramento nel contesto ecologico, poiché evidenzia per la prima volta la possibilità di un impatto clinico dell’infezione nei ruminanti selvatici.

È importante mantenere alta l’attenzione sulle variazioni imprevedibili nell’epidemiologia delle malattie che possono far aumentare il rischio di infezione per l’uomo.

Fonte: IZS Venezie




Trattamento ad alta pressione: sicurezza degli alimenti senza comprometterne la qualità

logo-efsaIl trattamento degli alimenti ad alta pressione (HPP) è efficace nel distruggere i microrganismi nocivi e non pone maggiori problemi di sicurezza alimentare rispetto ad altri trattamenti. Sono queste due delle conclusioni di un parere scientifico pubblicato dall’EFSA quest’oggi.

Gli esperti dell’EFSA hanno valutato la sicurezza e l’efficacia del processo HPP sugli alimenti e, più specificamente, se possa essere usato per limitare la proliferazione di Listeria monocytogenes negli alimenti pronti al consumo (RTE) e come alternativa alla pastorizzazione termica del latte crudo.

L’HPP è una tecnica di conservazione degli alimenti non termica che elimina i microorganismi responsabili di  malattie o che possono avariare i cibi. Utilizza una pressione intensa per un dato periodo di tempo senza alterare gusto, consistenza, aspetto e valori nutrizionali.

L’HPP può essere usato in diverse fasi della filiera di produzione degli alimenti, di solito su prodotti preconfezionati. Può venire applicato a materie prime come il latte, i succhi di frutta e i frappé, ma anche a prodotti che sono già stati lavorati come la carne cotta affettata e i prodotti alimentari RTE. In quest’ultimo caso riduce in essi la contaminazione proveniente dall’ambiente di produzione, per esempio durante l’affettatura e la manipolazione.

Questo metodo di trasformazione degli alimenti riduce i livelli di Listeria monocytogenes nei prodotti alimentati RTE a base di carne, a determinate combinazioni tempo-pressione specificate nel parere scientifico. In generale più lunga è la durata e l’intensità della pressione, maggior riduzione si ottiene. Si tratta di un risultato importante perché la contaminazione da L. monocytogenes degli alimenti RTE è motivo di preoccupazione per la salute pubblica nell’UE. L’HPP si è rivelato efficace anche nel diminuire i livelli di altri agenti patogeni come Salmonella ed E. coli.

Per il latte crudo gli esperti hanno individuato le combinazioni tempo-pressione che in termini di effetti possono essere considerate equivalenti  alla pastorizzazione termica. Queste variano a seconda dell’agente patogeno in questione.

A livello UE il processo HPP non è disciplinato in modo specifico e la consulenza dell’EFSA fungerà da base per future decisioni dei gestori del rischio in materia.

Fonte: EFSA




L’EFSA valuta ex novo la sicurezza dell’etossichina, un additivo per mangimi

L’EFSA ha valutato nuovamente l’additivo per mangimi etossichina senza poter giungere a conclusioni circa la sua sicurezza per alcuni gruppi di animali, per i consumatori e l’ambiente.

L’etossichina era autorizzata fino al 2017 nell’UE per le sue proprietà antiossidanti come additivo per mangimi destinati a tutte le specie e categorie animali. L’etossichina è usata anche per prevenire la combustione spontanea della farina di pesce durante il trasporto via mare.

La presenza della p-fenetidina, un’impurità che resta nell’additivo dopo il processo produttivo ed è un possibile agente mutageno (cioè può provocare mutazioni nel materiale genetico degli animali e dell’uomo), ha fatto sì che gli esperti del gruppo scientifico dell’EFSA sugli additivi e i prodotti o le sostanze usati nei mangimi non potessero escludere rischi per gli animali con lunga aspettativa di vita né per quelli destinati alla riproduzione. Al contrario l’additivo è considerato sicuro per gli animali allevati per la produzione di carne quali polli, maiali, bovini, conigli e pesci.

A causa della mancanza di dati sulla presenza di p-fenetidina nei tessuti e nei prodotti alimentari di origine animale, gli esperti non hanno potuto trarre conclusioni nemmeno per la salute dei consumatori.

Il gruppo di esperti ha tuttavia evidenziato la necessità di ridurre al minimo l’esposizione degli utenti tramite inalazione a causa della presenza di questa impurità nell’additivo.

Gli esperti non hanno potuto giungere a conclusioni circa la sicurezza dell’etossichina per gli ecosistemi terrestri e acquatici quando l’additivo viene usato negli animali terrestri. Non si può inoltre escludere un rischio di contaminazione tramite la catena alimentare acquatica né un rischio per gli organismi marini esposti ai sedimenti contenenti etossichina usata nelle gabbie per acquacoltura.

La Commissione europea e gli Stati membri, in qualità di gestori del rischio, terranno conto del parere dell’EFSA al momento di riesaminare la sospensiva dell’autorizzazione dell’additivo.

Antecedenti

Nel giugno 2017 la Commissione europea ha sospeso l’autorizzazione dell’etossichina come additivo nei mangimi per tutte le specie animali. La sospensione è seguita a un parere dell’EFSA pubblicato nel 2015, in cui gli esperti dichiaravano di non poter giungere a conclusioni circa la sicurezza dell’additivo a causa di una carenza generale di dati e della presenza di p-fenetidina.

Fonte: EFSA