Primo monitoraggio nazionale sul lupo in Italia, i risultati

Sono stati pubblicati i risultati del primo monitoraggio nazionale sul lupo in Italia, coordinato dall’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale ISPRA, su mandato del Ministero della Transizione Ecologica MiTE per comprendere quanti e dove sono i lupi in Italia

Il lavoro è stato svolto tra il 2018 e il 2022, con una raccolta dati realizzata tra Ottobre 2020 – Aprile 2021 che ha permesso di stimare l’abbondanza (intesa come numero di individui, N) e la distribuzione (area minima occupata nella regione alpina e la area stimata nella zona peninsulare) della specie.

Le stime dell’abbondanza della specie per le regioni alpine e per le regioni dell’Italia peninsulare sono state prodotte in maniera indipendente con i medesimi modelli statistici. I due valori risultanti e i rispettivi intervalli sono stati integrati, ottenendo una stima della consistenza complessiva a livello nazionale.

La stima della popolazione del lupo a scala nazionale è risultata pertanto pari a 3.307 individui (forchetta 2.945 – 3.608).

La stima della distribuzione del lupo in Italia viene fornita in due mappe distinte ottenute da una base metodologica comune. Nelle regioni alpine sono state campionate il 100% delle celle di presunta presenza della specie ottenendo una mappa di distribuzione minima. Nelle regioni peninsulari, tenuto conto della maggiore estensione dell’areale di presunta presenza della specie, sono state selezionate per la raccolta dei dati il 35% delle celle identificate idonee. Per estrapolare i risultati verso il restante 65% di celle, si sono utilizzati modelli statistici ottenendo una mappa di probabilità di presenza.

Sulla base dei dati raccolti, il range minimo di presenza del lupo nelle regioni alpine nel 2020-2021, considerando l’anno biologico della specie (1° maggio 2020 – 30 aprile 2021), è stato stimato di 41.600 km2. Nelle regioni peninsulari, l’estensione complessiva della distribuzione è risultata pari a 108.534 km2 (forchetta = 103.200 – 114.000 km2). Il lupo occupa quindi una larga parte del paese e nelle regioni peninsulari ha colonizzato la quasi totalità degli ambienti idonei.

Dalle analisi genetiche condotte sui campioni raccolti nell’area peninsulare sono stati identificati geneticamente 513 individui di lupo. Il 72,7 % non ha mostrato ai marcatori molecolari analizzati alcun segno genetico di ibridazione recente o antica con il cane domestico, l’11,7 % mostrava segni di ibridazione recente con il cane domestico, il 15,6 % hanno mostrato segni di più antica ibridazione (re-incrocio con il cane domestico avvenuto oltre approssimativamente tre generazioni nel passato). Occorre sottolineare che i valori dei tassi di ibridazione antica o recente ottenuti da questa indagine e dalle analisi molecolari non rappresentano una stima formale del fenomeno, né a livello nazionale né locale, e che sarebbero necessarie ulteriori indagini per poter valutare il tasso di ibridazione della popolazione italiana di lupi.

I risultati ottenuti dal monitoraggio rappresentano una base di conoscenza per indirizzare le scelte gestionali e permettere di valutare il raggiungimento degli obiettivi di conservazione, assicurando il mantenimento, a livello nazionale, di uno status di conservazione favorevole della specie e al contempo mitigando i conflitti che il lupo causa. L’adozione di protocolli standardizzati a scala nazionale sotto il coordinamento dell’ISPRA ha permesso di superare la disomogeneità delle strategie di monitoraggio effettuate a scala locale negli anni passati, dovuta alla frammentazione amministrativa e all’assenza di un coordinamento tra enti e istituti locali, disomogeneità ritenuta una delle principali minacce per la conservazione della specie.

Risultati di sintesi del monitoraggio

Relazioni ufficiali:

 




One Health, al via accordo Oie-Iss per rafforzare la ricerca sulla salute del mondo

L’Istituto Superiore di Sanità è sempre più impegnato nella tutela della salute pubblica secondo un approccio ‘One Health’, che coniuga cioè le esigenze dell’uomo ma anche del mondo animale e degli ecosistemi. A questo scopo è stato firmato a Parigi un ‘memorandum of understanding’ tra l’Iss e l’Oie, l’Organizzazione Mondiale della Sanità animale. Il memorandum, che integra quello già siglato nel 2018, durerà cinque anni, ed è stato firmato dalla direttrice generale dell’Oie Monique Eloit e dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro.

Grazie all’accordo, che si inserisce nelle attività promosse durante la presidenza italiana del G20, sarà rafforzata la collaborazione nei diversi ambiti di studio dell’Oie, dall’’epidemic intelligence’ sulle malattie, alle sfide legate alle nuove tipologie di allevamenti in espansione all’integrazione dei servizi ambientali e veterinari nei progetti One Health, anche al fine di ridurre il rischio di pandemie




Riscaldamento globale, virus e aerosol

Come possiamo pensare di vivere sani in un mondo malato?“: l’arguta domanda che Papa Francesco si pone e ci pone in piena pandemia da Covid-19 ci ricorda che la nostra vita è strettamente interconnessa con quella di tutti gli altri esseri viventi. Dalla stessa si evincerebbe, al contempo, un accorato invito affinché la Comunità Scientifica operi quanto più possibile in maniera multidisciplinare, in ossequio al principio della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Il 2021 è stato, perlappunto, il più caldo degli ultimi 140 anni, all’interno di un’allarmante sequenza in cui dal 2015 in avanti si sono succeduti i sette anni più torridi che si siano mai registrati sul nostro pianeta durante il succitato arco cronologico.

E’ quantomai opportuno sottolineare, in proposito, la naturale propensione degli agenti patogeni più resistenti a sfruttare il progressivamente ingravescente riscaldamento globale per aumentare la propria diffusione e, con essa, le occasioni di contagio intraspecifico ed interspecifico. E’ questo il caso del virus della peste suina africana (agente non zoonosico) e di quello del vaiolo delle scimmie (agente zoonosico), ben noti da tempo a noi Medici Veterinari e recentemente balzati agli onori della cronaca. Si tratta, in particolare, di due DNA-virus che, pur nelle notevoli differenze che caratterizzano gli stessi e le infezioni da essi sostenute, condividono tuttavia un’elevata resistenza ambientale, cosi’ come nei riguardi dell’inattivazione chimico-fisica.

In un siffatto contesto, la possibilità che i venti, le correnti ed altri fenomeni atmosferici possano veicolare per più o meno lunghe distanze aerosol alberganti al proprio interno le due anzidette, così come altre noxae biologiche dotate di elevata resistenza ambientale e nei confronti di molti agenti chimico-fisici, dovrebbe esser tenuta in debita considerazione.

Ciò potrebbe costituire, infatti, un valido ausilio ai fini del riconoscimento delle fonti d’infezione ove le stesse non risultassero prontamente e/o precisamente identificabili, come giustappunto accaduto in alcuni focolai di peste suina africana tra i cinghiali, così come in alcuni recenti casi umani d’infezione da “monkey poxvirus” (vaiolo delle scimmie).

Absit iniuria verbis, ma senza alcuna vis polemica mi sia consentito, in chiosa a questo breve articolo, di esprimere unitamente al mio pregresso disappunto nei confronti della mancata cooptazione dei miei Colleghi Veterinari in seno all’oramai (e purtroppo!) defunto CTS, tutto il mio stupore derivante dalla pressoché totale assenza dei Medici Veterinari – fatte salve alcune eccezioni di natura prettamente istituzionale – dalla scena e dalla narrazione mass-mediatica.

Quanto sopra a dispetto dell’inconfutabile fatto che le “materie del contendere” siano rappresentate da una problematica di esclusiva rilevanza in ambito di sanità animale (peste suina africana) e da un’infezione a carattere zoonosico, vale a dire trasmissibile dagli animali all’uomo (vaiolo delle scimmie)!

Errare humanum est perseverare autem diabolicum!

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




I sonar militari minacciano la vita in mare!

E’ pubblicata sulla prestigiosa rivista londinese “Veterinary Record”  la Letter to the Editor dal titolo “Impact of naval sonar systems on sealife mortality“, a firma di GiovanniDi Guardo, gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, insieme al Professor Antonio Fernández, Full Professor of Veterinary Pathologic Anatomy, Institute of Animal Health, University of Las Palmas de Gran Canaria, Arucas, Las Palmas, Gran Canaria, Canary Islands, Spain e al Dr Paul D Jepson, Honorary Senior Scientist, Institute of Animal Health, University of Las Palmas de Gran Canaria, Arucas, Las Palmas, Gran Canaria, Canary Islands, Spain.

Esattamente 20 anni fa, nell’Arcipelago delle Isole Canarie, si verificò uno spiaggiamento di massa di Zifidi, cetacei capaci di immergersi fino a 2.000 metri di profondità. Tale evento occorse in stretta connessione spazio-temporale con un’esercitazione della marina militare statunitense, durante la quale era stato fatto ricorso all’utilizzo di dispositivi sonar. L’equipe del Professor Antonio Fernández fu in grado di dimostrare, di lì a breve, il ruolo delle onde rilasciate dai sonar nel determinismo del succitato evento, dal cui studio emerse che una “sindrome embolica gassoso-lipidica” – condizione patologica simile alla “malattia da decompressione” dei sommozzatori – aveva interessato gli Zifidi spiaggiatisi in massa alle Isole Canarie.

Destano fondati motivi di preoccupazione, al riguardo, le esercitazioni militari recentemente condotte in acque mediterranee, così come quelle in corso di svolgimento e/o programmate nelle acque norvegesi ed asiatiche, che risulterebbero accomunate fra loro dall’impiego di dispositivi sonar.

Riferiscono il Prof. Antonio Fernández, il Dr Paul D. Jepson ed il Professor Giovanni Di Guardo i quali concludono:

Stiamo parlando, infatti, di specie e popolazioni animali oltremodo vulnerabili e sempre più minacciate per mano dell’uomo, che vivono all’interno di sempre più fragili e perturbati ecosistemi marini.




Di Guardo: dovremmo vaccinare gli animali domestici e selvatici sensibili nei confronti di SARS-CoV-2

E’ stato recentemente pubblicato sulla prestigiosa Rivista Veterinary Record il contributo del Prof. Giovanni Di Guardo, gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo, dal titolo ‘We should be vaccinating domestic and wild animal species against Covid-19’, incentrato sull’opportunità di vaccinare nei confronti di SARS-CoV-2 le specie animali domestiche e selvatiche suscettibili all’infezione virale.

Questa pandemia ci ha insegnato che la salute umana, animale e ambientale sono reciprocamente e inestricabilmente collegate tra loro. Tenendo conto della potenziale trasmissione zoonotica di SARS-CoV-2, ritengo che la vaccinazione delle specie animali sensibili al virus – soprattutto di quelle allevate intensivamente come il visone, così come di quelle particolarmente suscettibili nei confronti dell’infezione virale come il cervo a coda bianca (Odocoileus virginianus) – sia fondamentale per limitare lo sviluppo di varianti di SARS CoV-2 oltremodo diffusive (quali la Omicron) e/o patogene (quali la Delta). Un tale programma richiederebbe un solido approccio One Health.

Scrive  di Guardo nel contributo integrale (qui in inglese)




Quanto possono sopravvivere i coronavirus sulle superfici?

coronavirusSARS-CoV-2, il coronavirus responsabile della COVID-19, può sopravvivere sulle superfici fino a 28 giorni, più di tutti gli altri coronavirus. La sopravvivenza del virus e la sua contagiosità sono inoltre influenzate dalle condizioni ambientali. Lo afferma una revisione sistematica della letteratura condotta dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) e pubblicata su Science of the Total Environment.

Il ruolo dei fomiti nella trasmissione di SARS-CoV-2

I fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Ricercatori dell’IZSVe hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura per definire quanto i coronavirus umani (SARS-CoV-2, SARS-CoV-2 e MersCoV) possono sopravvivere sulle superfici di vari fomiti.

COVID-19 è la malattia respiratoria causata da SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia diffusasi in quasi 200 Paesi da fine 2019. SARS-CoV-2 si aggiunge ad altri due coronavirus umani (hCoV) noti già dal 2002 per la loro letalità e capacità di infettare l’uomo: SARS-CoV (Severe Acute Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile dell’epidemia di SARS del 2002-2004, e MersCoV (Middle East Respiratory Syndrome coronavirus), responsabile della Mers, Sindrome Respiratoria medio-orientale

Come ogni malattia emergente, anche la COVID-19 richiede l’impegno della comunità scientifica per comprenderne i meccanismi di sviluppo e di trasmissione, al fine di adeguare i protocolli diagnostici e terapeutici. Una delle tante domande a cui gli scienziati hanno cercato di trovare nel più breve tempo una risposta è stata la modalità di diffusione di SARS-CoV-2. Mentre è stato ampiamente dimostrato che la principale via di trasmissione del virus sia il contatto diretto con una persona infetta, la sua trasmissione tramite il contatto con superfici contaminate (fomiti) è ritenuta possibile ma non è ancora supportata da solide evidenze scientifiche.

fomiti sono oggetti inanimati o superfici porose/non porose che, se contaminati o esposti a microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. Sono esempi di fomiti i vestiti sporchi, gli asciugamani, le lenzuola, i fazzoletti, le medicazioni chirurgiche, gli aghi contaminati. La letteratura ha dimostrato la capacità dei fomiti di trasmettere virus respiratori e patogeni enterici, ma per SARS-CoV-2 il loro ruolo è ancora ampiamente sconosciuto. Proprio in ragione della scarsità di prove disponibili sul ruolo dei fomiti, nel rispetto del principio di precauzione numerose linee guida hanno raccomandato fin dall’inizio della pandemia come misure preventive la pulizia e disinfezione delle superfici, l’uso di guanti e l’igiene delle mani.

Un primo passo per studiare la capacità dei fomiti di traferire SARS-CoV-2 a chi vi entri in contatto è definire quanto il virus possa sopravvivere sulla superficie del fomite, raccogliendo un numero consistente di prove che dimostrino come possibile questo percorso di trasmissione del virus. Inoltre, è necessario analizzare anche la persistenza del virus nell’ambiente, che a sua volta dipende dalle caratteristiche strutturali del virus, da fattori ambientali (temperatura, umidità, esposizione ai raggi UV) e dalle caratteristiche della superficie del fomite.

Lo studio dell’IZSVe
Dallo studio è emerso che banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo. Alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV, così come la luce UV e quella solare.

I ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) hanno svolto una revisione sistematica della letteratura scientifica per definire quanto a lungo SARS-CoV-2 riesca a sopravvivere sulle superfici dei fomiti. La ricerca ha incluso anche gli altri due principali coronavirus umani, MersCoV e SARS-CoV vista la loro pericolosità per la salute pubblica.

La comparazione delle evidenze scientifiche pubblicate in letteratura è stata effettuata su 18 articoli scientifici, selezionati dopo lo screening di 1.436 articoli restituiti dalle banche dati come articoli pertinenti la domanda di ricerca. La sopravvivenza dei coronavirus è stata valutata su differenti materiali: polimeri (plastica, PVC, teflon, guanti monouso, …), metalli (acciaio, alluminio, rame, …), vetro, carta, legno, tessuti (stoffa, camici monouso e in cotone), mascherine, spugne sterili, ceramica, banconote, mosaici e suolo.

Dalla revisione sistematica emerge che a temperatura ambiente SARS-CoV-2 può sopravvivere fino a 28 giorni su vetro, acciaio, polimeri plastici (banconote in polimero e vinile) e banconote di carta, e fino a 7 giorni sulle mascherine chirurgiche. 28 giorni è il periodo di sopravvivenza più lungo dimostrato in laboratorio: SARS-CoV è il coronavirus che ha mostrato un tempo di sopravvivenza maggiore dopo SARS-CoV-2, sopravvivendo fino a 14 giorni su superfici di vetro. Per quanto riguarda invece la contaminazione umana tramite fomite, ovvero la capacità dei fomiti di trasmettere l’infezione, banconote (in polimero e in carta), vetro e acciaio potrebbero trasmettere il virus fino a un massimo di 21 giorni, periodo in cui la carica virale di SARS-CoV-2 è risultata essere pericolosa per l’uomo.

Anche le condizioni ambientali influenzano la capacità di sopravvivenza del virus sui fomiti: alte temperature combinate a un elevato tasso di umidità favoriscono l’inattivazione di SARS-CoV e riducono la sopravvivenza di SARS-CoV-2, mentre basse temperature e poca umidità ne aumentano le chance a prescindere dalla tipologia di superficie colonizzata dal virus. Anche la luce UV e quella solare possono ridurre la vita dei coronavirus sulle superfici: soprattutto durante la stagione estiva è molto improbabile che superfici esposte al sole (in particolare quelle in acciaio inossidabile) riescano a trasmettere il virus, suggerendo la possibile maggior contagiosità di fomiti non esposti al sole.

Verso un approccio armonizzato
Comprendere la durata dei coronavirus sulle superfici può migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Lo studio IZSVe è un contributo alla comprensione dei coronavirus umani, in particolar modo di SARS-CoV-2 nell’ecosistema uomo-ambiente-animale: le evidenze raccolte possono essere impiegate, in particolar modo dai gestori del rischio, per migliorare le misure di prevenzione e renderle sempre più corrispondenti all’effettiva potenzialità del singolo fomite di fungere da fonte del virus. Questo potrebbe contribuire per esempio a ridurre l’utilizzo indiscriminato di disinfettanti e detergenti, che ha un impatto negativo sull’ambiente.

Nel corso di questi due anni di pandemia, la comunità scientifica ha lavorato molto allo studio della sopravvivenza di SARS-CoV-2 sulle superfici e alla loro capacità infettante: nuovi studi sperimentali o revisioni sistematiche più recenti potrebbero smentire o aggiornare le evidenze raggiunte qui presentate. Nonostante ciò, il lavoro condotto dall’IZSVe evidenzia alcuni limiti nella letteratura finora disponibile, che possono essere spunto per la ricerca futura su questo specifico tema.

Innanzitutto gli studi finora pubblicati sono difficilmente comparabili tra di loro: sussistono differenze notevoli nella metodologia impiegata nelle singole prove sperimentali, motivo per cui i ricercatori IZSVe non hanno potuto dimostrare un legame tra tempo di sopravvivenza del virus e caratteristiche della superficie contaminata, suggerendo di lavorare alla definizione di un protocollo di riferimento per la conduzione delle prove di sopravvivenza del virus.

Inoltre i risultati ottenuti dalla revisione sistematica si riferiscono a studi di laboratorio,condotti in un contesto sperimentale, motivo per cui potrebbero non restituire l’effettiva capacità di resistenza di SARS-CoV-2: sarà importante quindi condurre studi sempre più aderenti alle reali condizioni di diffusione del virus nell’ambiente.

Fonte: IZS Venezie

 




La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

La lotta al doping animale: il contributo dell’intelligenza artificiale

Ci sono atleti e atleti. Alcuni sono fenomeni veri, campioni straordinari che per talento e lavorando tenacemente raggiungono risultati prodigiosi. Ce ne sono altri che non avendo le stesse doti e meno voglia di sacrificarsi, ma pur di affermarsi, fanno uso di sostanze che accrescono slealmente le loro prestazioni.
La pratica in questione si chiama “doping”.
È un’azione fraudolenta che non è utilizzata soltanto in ambito sportivo. Già, perché se ne fa uso anche negli allevamenti degli animali da reddito.
La somministrazione di farmaci non autorizzati o l’utilizzo di sostanze farmacologiche permesse ma somministrate a bassi dosaggi e per periodi prolungati hanno effetti dopanti sugli animali.
L’uso di questi prodotti può provocare danni e lasciare conseguenze ai consumatori.
L’assunzione di carne con residui di molecole non autorizzate, infatti, può essere pericolosa per l’essere umano, soprattutto per i soggetti con delle pregresse patologie.
Svelare la loro presenza, dunque, è indispensabile per proteggere la salute dei cittadini.
Per poter fronteggiare questa piaga il CIBA – Centro di Referenza Nazionale per le Indagini Biologiche sugli Anabolizzanti Animali -, che ha sede presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università degli studi di Torino, ha applicato un programma di apprendimento automatico Weka (Waikato Environment for Knowledge Analysis) per svelare l’uso illecito di cortisonici per il “doping animale”.
È stato sviluppato un modello predittivo in grado di individuare i vitelli dopati con cortisonici, che sono i principi attivi di più largo utilizzo per “ingrassare” in modo fraudolento i bovini.
Sono sostanze che di fatto sono anche responsabili di enormi effetti collaterali per l’uomo, tra cui l’aumento della pressione sanguigna, l’iperglicemia e l’immunosoppressione.
Il modello generato da Weka è in grado di classificare correttamente il 95% degli animali testati sulla base dei valori di cinque biomarcatori sierici (cortisolo, inibina, capacità antiossidante del siero, osteocalcina, e urea).
La ricerca ha confermato quanto e come l’intelligenza artificiale può essere applicata con eccellenti risultati a salvaguardia della salute dei consumatori e a tutela del benessere animale.

Fonte: IZS Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta




Le microplastiche non sono tutte uguali

microplasticheUno studio del Cnr-Irsa ha rilevato che, in acqua, i batteri che crescono sulle microparticelle derivate dagli pneumatici sono più pericolosi per l’ambiente rispetto a quelli che si sviluppano sui frammenti delle bottiglie di plastica, che invece potrebbero porre problemi per la salute dell’uomo. La ricerca è pubblicata su Journal of Hazardous Materials

Plastiche e microplastiche sono riconosciute come un inquinante emergente con effetti nefasti sulla salute dell’ambiente, dell’uomo e degli animali acquatici. Uno studio dell’Istituto di ricerca sulle acque del Consiglio nazionale delle ricerche di Verbania (Cnr-Irsa) ha dimostrato come microplastiche diverse possano causare un impatto differente sulle comunità batteriche in acqua. La ricerca è stata pubblicata su Journal of Hazardous Materials.

“In un sistema che replica un fiume o un lago italiano abbiamo comparato le comunità batteriche che crescono sul polietilene tereftalato (Pet) ricavato da una bottiglia di bibita, molto abbondante in acqua, con quelle che si sviluppano su particelle di pneumatico usato, quasi sconosciute a causa del fatto che tendono a non galleggiare e ad affondare molto lentamente”, spiega Gianluca Corno del Cnr-Irsa. “Abbiamo quindi dimostrato che la prima offre rifugio a batteri patogeni umani che possono causare rischio immediato per la salute umana, senza però favorirne una crescita immediata. Le particelle di pneumatico, grazie al rilascio costante di materia organica e nutrienti, favoriscono invece la crescita abnorme di batteri cosiddetti opportunisti che, pur non causando un rischio diretto per l’uomo, causano una perdita di qualità ambientale, di biodiversità microbica, e un conseguente depauperamento dei servizi ecosistemici offerti”.

Generalmente le comunità batteriche che crescono sulle microplastiche come biofilm sono studiate senza approfondirne le differenze legate al tipo di plastica su cui proliferano, ma come un unico comparto, la cosiddetta plastisfera. “Questo risultato ci pone, per la prima volta, di fronte alla necessità di riconsiderare i metodi di analisi dell’inquinamento da microplastiche e di tenere in conto le particelle di pneumatico, che possono avere un impatto decisivo sulla qualità degli ecosistemi acquatici in nazioni come l’Italia dove i fiumi sono particolarmente esposti a questo tipo di inquinamento”, conclude Corno.

La ricerca è stata finanziata nell’ambito del progetto AENEAS da AXA Research Fund. 

Fonte: CNR




Il CTS chiude i battenti, cui prodest?

Quella del 31 Marzo 2022 rappresenta per il nostro Paese un’altra data destinata a passare alla Storia.
Insieme alla fine dello stato di emergenza legato alla pandemia da SARS-CoV-2, che ha sin qui mietuto 6.200.000 di vittime su scala globale (160.000 delle quali in Italia), chiude infatti i battenti il “Comitato Tecnico-Scientifico”, popolarmente noto con l’acronimo “CTS”, a soli due anni dalla sua istituzione!
Da medico veterinario e da docente universitario che ha dedicato 35 anni della sua vita professionale allo studio delle malattie infettive animali ed umane, ritengo che questa sia una decisione tutt’altro che razionale e lungimirante.
Infatti, mentre il virus responsabile della Covid-19 continua a diffondersi nel mondo tramite le sue contagiosissime varianti “omicron” (si consideri, a titolo puramente esemplificativo, quanto sta avvenendo in Cina e a Hong Kong con la variante “omicron 2”, alias “BA.2”), andrebbe sottolineato a chiare lettere che le “malattie infettive emergenti” originerebbero, nel 70% e più dei casi, da uno o piu’ serbatoi animali. E numerosi sarebbero, altresi’, gli elementi indiziari a supporto di un’origine naturale dello stesso betacoronavirus SARS-CoV-2.
Per non dire, poi, dei numerosi “salti di specie” che tale virus ha compiuto dall’uomo agli animali (cd “spillover”), per ritornare successivamente all’uomo stesso (cd “spillback”), magari in forma mutata, come avvenuto più di un anno fa con la variante “cluster 5” negli allevamenti intensivi di visoni olandesi e danesi e, assai di recente, con un’infezione sostenuta da un ceppo di SARS-CoV-2 “altamente divergente”, acquisita in Canada da un individuo a seguito del contatto e/o della manipolazione di un esemplare di cervo a coda bianca (Odocoileus virginianus) infetto.
Come la drammatica pandemia da SARS-CoV-2 – tuttora in corso – testimonia in maniera quantomai chiara ed eloquente, la salute di uomo, animali ed ambiente compone una triade i cui elementi appaiono reciprocamente e indissolubilmente interconnessi fra loro, un concetto efficacemente riassunto, quest’ultimo, dall’espressione “One Health”.
Ne deriva che, in un siffatto contesto, non soltanto sarebbe stato opportuno assicurare la necessaria continuità operativa al CTS, ma sarebbe stata ulteriore “cosa buona e giusta” dotarlo di adeguate competenze medico-veterinarie, cosa a tutt’oggi non ancora avvenuta.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum!

 

Giovanni Di Guardo
Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Antibiotici nelle uova: un metodo innovativo per il monitoraggio su vasta scala

uovaMetodiche di ultima generazione per individuare rapidamente più di 70 molecole diverse: un contributo prezioso per le aziende e gli Organismi di sorveglianza

Un metodo “multiclasse” che grazie alla combinazione di cromatografia liquida e spettrometria di massa ad alta risoluzione riesce a individuare con una sola analisi 73 molecole ad azione antibiotica. È il sistema sviluppato dall’Istituto Zooprofilattico di Teramo ed applicato per la ricerca di residui di antibiotici nelle uova.

La metodica, al centro di un lavoro scientifico pubblicato sulla rivista Separations, è stata sviluppata dal  Reparto di Bromatologia e residui dell’IZSAM e implementata su uova destinate al commercio. Duecento campioni, prelevati nell’arco del triennio 2018-2021 in 119 allevamenti distribuiti in quasi tutte le regioni Italiane, isole comprese, hanno permesso di validarne l’efficacia, oltre a fornire una accurata valutazione della situazione nel nostro Paese.

“Il metodo da noi messo a punto – dice il dottor Giorgio Saluti, Dirigente Chimico presso il reparto di Bromatologia e residui, primo autore del lavoro scientifico – è in grado di coprire la stragrande maggioranza delle sostanze normalmente usate negli allevamenti. Lo scopo è di aumentare l’efficienza, la rapidità e la completezza delle analisi che possono essere portate avanti, e i dati raccolti in questa fase di implementazione della metodologia ci permettono di dire che la situazione italiana è rassicurante e rientra ampiamente nei parametri stabiliti a livello comunitario”

L’utilizzo di antibiotici nell’allevamento di animali vede un’attenzione crescente sia da parte delle autorità sanitarie che dei singoli cittadini, soprattutto per quanto riguarda il possibile sviluppo di batteri antibiotico-resistenti. Il fenomeno è considerato molto preoccupante a livello mondiale perché può ridurre l’efficacia di una delle principali armi a disposizione della medicina per combattere le infezioni batteriche negli esseri umani. L’Europa ha infatti stabilito dei limiti di concentrazione massimi per i residui di antibiotici negli alimenti di origine animale, quindi anche nelle uova.

“L’interesse verso la presenza di residui di antibiotici negli alimenti in genere – commenta Giampiero Scortichini, Responsabile del reparto di Bromatologia e residui – è molto elevato perché il loro consumo può portare alla comparsa di allergie oltre che a fenomeni di antibiotico-resistenza. Stiamo osservando, a livello europeo, un generale declino nel loro impiego, un segnale certamente positivo. La metodica sviluppata dall’IZSAM, grazie alla rapidità di esecuzione e all’elevato numero di sostanze che è in grado di individuare, rappresenta un contributo rivolto sia alle aziende produttrici, in una visione di supporto ai loro processi di produzione, sia alle istituzioni, per una sorveglianza sempre più attenta e accurata”.

 Fonte: IZS Teramo