Sicurezza delle nanotecnologie nell’alimentazione, l’Iss capofila nello studio di metodi alternativi alla sperimentazione animale

nanotecnologieAll’Istituto 1,2 milioni di euro per la ricerca in nanotossicologia con le New Approach Methodologies (NAM)

Le nanotecnologie sono utilizzate negli ambiti più diversi, inclusa la nutrizione umana, e trovano crescente applicazione nella produzione agroalimentare. Per utilizzarle in modo sicuro serve una comprensione profonda della loro interazione con l’organismo e a questo scopo possono essere impiegati una serie di metodi alternativi alla sperimentazione animale. Per far progredire questi metodi e promuovere il loro utilizzo nella valutazione del rischio l’Efsa, l’Autorità Europea per la sicurezza alimentare, ha assegnato un finanziamento di 5,3 milioni di euro al consorzio costituito per iniziativa dell’Iss comprendente prestigiose istituzioni internazionali in risposta alla call NAMS4NANO.

Le New Approach Methodologies (NAM) sono il vasto insieme di approcci metodologici alternativi alla sperimentazione animale comprendenti organismi diversi da mammiferi (ad esempio embrioni di pesce), colture cellulari, modelli in silico basati sulle tecnologie informatiche, tecnologie omiche. Se adeguatamente sviluppato, l’uso integrato delle diverse NAM può fornire informazioni scientificamente valide in modo più rapido ed efficiente rispetto agli studi su animali. Progredire nell’uso delle NAM per comprendere gli effetti dei nanomateriali e i meccanismi associati quale problema emergente della valutazione del rischio tossicologico in sicurezza alimentare, questo l’obiettivo del progetto che si articola in 3 lotti, uno dei quali coordinato dall’Iss. Il finanziamento globale dell’Iss è pari a 1,2 milioni di euro.

Abbiamo proposto un sistema di qualifica per facilitare l’uso delle NAM in ambito regolatorio  – afferma Francesco Cubadda (Dipartimento di Sicurezza alimentare, Nutrizione e Sanità pubblica veterinaria), capofila dell’Iss e coordinatore del lotto 3 – e 10 casi studio. I primi cinque ambiscono a dimostrare come le NAM siano in grado di gettare luce su aspetti specifici dei materiali sulla nanoscala e come dall’integrazione dei dati così prodotti con le evidenze esistenti (studi animali o sull’essere umano) si possa condurre una valutazione del rischio completa. Gli altri cinque casi studio hanno un contenuto più metodologico: ambiscono a sviluppare strumenti e metodi per affrontare gli aspetti ‘nanospecifici’ nelle diverse fasi della valutazione del rischio.

Come richiesto dall’EFSA, i casi studio si incentrano sia su nanomateriali sia su materiali convenzionali con una frazione sulla nanoscala, tutti con stretta attinenza all’impiego nella filiera agroalimentare. Gli ambiti presi in considerazione sono le fonti di nutrienti presenti, ad esempio, negli integratori, i novel foods, gli additivi alimentari, gli additivi per l’alimentazione animale, i materiali a contatto con gli alimenti e i pesticidi. I casi studio saranno utilizzati dall’EFSA per aggiornare le linee guida dell’Autorità sulla valutazione del rischio di materiali integralmente o parzialmente sulla nanoscala impiegati nella produzione di alimenti.

Per saperne di più https://www.efsa.europa.eu/it/art36grants/article36/gpefsamese202201-nams4nano-integration-new-approach-methodologies-results

Fonte: ISS




Di Guardo fra i migliori scienziati italiani segnalati dalla Stanford University

Giovanni Di GuardoLa Rivista scientifica internazionale “Pathogens” ha appena reso noto che 70 dei 450 Membri del proprio Comitato Editoriale sono stati inclusi nella classifica degli “World’s Top 2% Scientists”.

La classifica in oggetto, che di anno in anno viene elaborata – a far tempo dal 1960 – dalla prestigiosa Università statunitense di Stanford, si compone di due distinte sezioni, la prima dedicata al “prestigio ed al merito scientifico permanenti”, la seconda al “prestigio ed al merito scientifico nel solo anno di riferimento”.

Per quanto specificamente attiene a quest’ultima, sono ben 11 le Scienziate e gli Scienziati italiani che fanno parte dell’elenco anzidetto, fra cui il Prof. Giovanni Di Guardo – già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo.

Si tratta di un quantomai prestigioso riconoscimento che ancora una volta onora la Comunità Scientifica del nostro Paese, la quale come risulta ben noto si colloca all’ottavo posto nel mondo per la qualità della propria produzione scientifica.

E tanto più encomiabile, meritorio e rimarchevole appare tutto ciò allorquando si pensi che il nostro Paese continua insensatamente e pervicacemente ad investire una quota del PIL ben al di sotto di quella spesa dalla media dei Paesi dell’Unione Europea nel finanziamento pubblico della ricerca.




Spillover e Spillback, andata e ritorno dei patogeni dall’uomo agli animali

In questi anni abbiamo sentito parlare parecchio di spillover, che letteralmente identifica un “salto di specie” ma che più spesso viene inteso come passaggio di un patogeno dagli animali all’uomo. Tale meccanismo può essere alla base  di malattie nuove o emergenti o vere e proprie epidemie/pandemie, come nel caso dell’influenza e probabilmente del SARS_CoV-2.

Si parla meno frequentemente, ma non è meno importante in ottica One Health, del fenomeno dello  “spillback” che identifica il processo inverso ovvero il “salto” del patogeno dall’uomo agli animali, talvolta a specie molto diverse da quelle che erano serbatoio o ospite occasionale/spillover del patogeno stesso. Lo spillback può determinare la comparsa e la stabilizzazione di un patogeno negli animali in un territorio dove prima non era presente, ed  essere causa di malattia in specie animali che loro volta possono diventare fonte di infezione per l’uomo.

Il meccanismo è meno complicato di quanto sembra se pensiamo al virus del vaiolo della scimmia, (monkeypox) che è sempre stato localizzato in Africa e in poche altre regioni, nelle quali è passato dalla scimmia ed altre specie di roditori che fungevano da serbatoio all’uomo, avendo però ben poche occasioni di passare in altre specie animali, anche domestiche.

Tuttavia, da quando il monkeypox virus si è diffuso tra gli umani in nuove aree più densamente popolate, come gli Stati Uniti e l’Europa, è sorto il problema della possibile infezione anche di nuove specie animali “domestiche” a contatto con esseri umani infetti (cani, roditori, lagomorfi etc.) e quindi anche del potenziale passaggio nelle specie selvatiche.

La mancanza di controllo e monitoraggio dei fenomeni di spillback può essere facilmente causa della costituzione di nuovi serbatoi animali di virus e della persistenza della malattia nelle nuove aree “conquistate”.

Per questo l’Organizzazione Mondiale della Salute animale (WOAH) ha prodotto una linea guida per indirizzare a conoscere e limitare il rischio di spillback dall’uomo agli animali selvatici, ai pet e ad altri animali.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Covid: possibilità di trovare antenato del virus “quasi nulle”

coronavirusLe chance di rintracciare l’antenato di Covid-19 sono ormai quasi nulle. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione a cui giunge un approfondimento pubblicato sulla rivista Nature, in cui si ripercorrono gli sforzi effettuati dalla ricerca per ricostruire le origini della pandemia. Stando alle conoscenze attuali, spiegano i virologi, SARS-CoV-2 potrebbe aver condiviso un antenato con i coronavirus dei pipistrelli più recentemente di quanto precedentemente ipotizzato. Individuare le origini dell’agente patogeno, però, è molto più complesso di quanto si possa immaginare. I virus possono infatti scambiare tra loro frammenti di RNA, attraverso un processo chiamato ricombinazione. In un’analisi presentata durante il World One Health Congress a Singapore, gli scienziati hanno confrontato frammenti di genomi di coronavirus per cercare di individuare le origini di Covid-19. L’indagine suggerisce che alcune sezioni di coronavirus di pipistrello e SARS-CoV-2 condividevano un antenato comune nel 2016, appena tre anni prima dell’inizio della pandemia. Questo lavoro, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, restringe l’arco di tempo intercorso tra l’antenato di SARS-CoV-2 originato nei pipistrelli e l’agente patogeno che ha provocato l’emergenza sanitaria globale. I risultati, tuttavia, non contribuiscono alla spiegazione puntuale di come e quando sia avvenuto il salto.

“Le possibilità di trovare un antenato diretto di Covid-19 sono quasi nulle – afferma Edward Holmes, virologo evoluzionista presso l’Università di Sydney – l’agente patogeno che ha raggiunto l’umanità nel 2019 potrebbe essere stato il frutto di una serie di ricombinazioni e mutazioni. È ormai praticamente impossibile ricostruire le origini della pandemia”. Dall’inizio della diffusione di Covid-19, moltissimi esperti hanno sequenziato i genomi dei coronavirus dei pipistrelli, esaminando campioni di tessuti conservati nella speranza di individuare l’antenato di SARS-CoV-2, ma tutti gli sforzi si sono rivelati poco proficui. Alcuni hanno anche ipotizzato che il virus sia sfuggito dal Wuhan Institute of Virology, ma questa teoria non è stata convalidata da evidenze scientifiche. Finora sono stati isolati più di una dozzina di virus strettamente correlati al SARS-CoV-2 da pipistrelli e pangolini. Questo approccio ha portato all’individuazione di due parenti stretti dell’agente patogeno: un virus di pipistrello trovato in Laos chiamato BANAL-52, il cui genoma è identico al 96,8 per cento a quello di SARS-CoV-2, e un virus chiamato RaTG13, trovato nello Yunnan, nella Cina meridionale, che condivide il 96,1 per cento del proprio genoma con il responsabile della pandemia. “Per tradurre in arco temporale queste differenze – afferma Spyros Lytras, dell’Università di Glasgow – abbiamo confrontato 18 virus di pipistrello e pangolino strettamente correlati a SARS-CoV-2 e li abbiamo uniti in 27 segmenti, ognuno dei quali ha una storia evolutiva diversa”. Per ogni tratto, i ricercatori hanno utilizzato un sottoinsieme più ampio di 167 virus correlati per stimare quanto recentemente SARS-CoV-2 abbia condiviso un antenato comune con il virus considerato. L’analisi ha rivelato che alcuni segmenti condividevano un antenato comune con SARS-CoV-2 solo pochi anni fa, con i frammenti più giovani associati a tessuti di pipistrelli campionati nello Yunnan e nel Laos. “Alcuni frammenti esaminati – conclude Lytras – erano piuttosto corti, il che rende le stime meno affidabili. Questo approccio è stato molto interessante, e potrebbe averci avvicinato un po’ alla risoluzione del mistero sulle origini di Covid-19, che però potrebbero essere troppo complesse da ricostruire”.

Fonte: AGI




Il batterio Listeria Monocytogenes individuato per la prima volta in una tartaruga marina

Un passo in avanti fondamentale per capire il ruolo di questo microrganismo patogeno nell’ecosistema marino

 Una tartaruga spiaggiata recuperata sulle coste abruzzesi, morta dopo pochi giorni, ha rappresentato il punto di partenza per una ricerca che ha portato all’isolamento di Listeria monocytogenes . Si tratta della prima volta nella quale questo microrganismo viene individuato in un rettile marino, aprendo la strada a nuove ricerche per capire meglio la sua diffusione nell’ambiente.

Lo studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e pubblicato sulla rivista scientifica Animals , ha preso in esame una tartaruga della specie Caretta caretta, la più diffusa nel Mediterraneo. L’animale, trovato su una spiaggia del comune di Ortona, in Abruzzo, era stato raccolto dal Centro Studi Cetacei ONLUS e trasferito al Centro di Recupero e Riabilitazione Tartarughe Marine di Pescara. Le sue già gravi condizioni lo avevano portato a morte nel giro di sei giorni.

A questo punto sono iniziate le indagini da parte dei laboratori dell’IZS, dove la carcassa era stata trasferita. Con un risultato piuttosto sorprendente: la tartaruga era affetta da listeriosi, infezione che ne aveva causato la morte. Potenziale responsabile di contaminazione alimentare e, seppur raramente, causa di infezioni anche gravi negli esseri umani, l’attenzione verso questo batterio deve essere sempre mantenuta alta.

Listeria monocytogenes – dice Ludovica Di Renzo, prima autrice del lavoro scientifico – è largamente diffusa, sia nel suolo che nelle acque dolci. Inoltre il batterio è anche capace di sopravvivere per settimane nell’ambiente marino. Questo rilevamento in un rettile come la Caretta caretta, animale che consideriamo uno dei migliori indicatori della salute dei mari, ci apre prospettive nuove per capire meglio la diffusione di Listeria monocytognes e le sue capacità di adattamento. Siamo stati in grado di studiare la tartaruga entro pochissimo tempo dalla morte, un risultato che è reso possibile grazie all’esistenza in Abruzzo della Rete Regionale Spiaggiamenti e del Centro Studi Cetacei”.

Dagli studi condotti sul genoma è risultato che il ceppo di Listeria monocytogenes isolato dall’IZS presenta geni di virulenza, che lo rendono capace di causare infezioni gravi negli animali, e potenzialmente nell’uomo. “Da questo punto di vista – continua la ricercatrice – le nostre osservazioni confermano l’ipotesi che gli ambienti selvatici, compreso quello marino, favoriscano il mantenimento e la diffusione di ceppi potenzialmente virulenti di Listeria monocytogenes. I nostri prossimi passi, ora, riguarderanno studi genomici che potranno darci informazioni preziose sulla distribuzione in natura del patogeno e geni di virulenza ad esso associati.

La presenza di un batterio potenzialmente pericoloso come Listeria monocytogenes in animali marini sottolinea anche un aspetto più ampio, come evidenzia Di Renzo: “Per molti il concetto di ‘One health’, di una salute globale che comprenda uomo, animali e piante, è limitato agli ambienti terrestri. Invece vediamo sempre di più che è arrivato il momento di includere anche il mare nell’idea di questo sistema unico ed integrato”.

Il lavoro scientifico pubblicato su Animals, infine, rappresenta l’occasione di raccomandare a tutti l’adozione di misure di precauzione quando si ha a che fare con animali spiaggiati, spesso oggetto della curiosità di bagnanti, soprattutto bambini. Il potenziale pericolo di infezioni deve infatti sempre essere considerato. “La cautela e l’adozione di buone pratiche nell’approccio a un animale spiaggiato, anche se si tratta di una piccola tartaruga – conclude la ricercatrice – vale non solo per gli specifici operatori impegnati nel recupero, ma anche per tutti i cittadini”.

Fonte: IZS Teramo



David Quammen: un delfino, una focena e due uomini hanno avuto l’influenza aviaria. Un avvertimento per tutti

All’inizio di settembre, gli scienziati dell’Università della Florida hanno confermato che un delfino – la cui carcassa era stata trovata a marzo scorso in un canale, lungo la Costa del Golfo – presentava un tipo di influenza aviaria altamente patogeno. Aveva un’infiammazione cerebrale.

Come dice il nome stesso, il virus dell’influenza aviaria è molto abile nel contagiare gli uccelli, ma talvolta si spinge oltre e prende altre direzioni. Pochi mesi dopo la morte del tursiope, un altro mammifero marino – una focena – è stato trovato spiaggiato e in fin di vita sulla costa occidentale svedese. Poco dopo il ritrovamento, la focena è deceduta, colpita dal medesimo virus. Tra questi due casi, ce n’è stato uno più preoccupante ancora in Colorado: dopo alcune analisi di laboratorio, un uomo è risultato positivo all’influenza aviaria. Era un carcerato impegnato a lavorare in vista della scarcerazione in un impianto di pollame, nel quale doveva procedere all’abbattimento selettivo dei volativi colpiti dal contagio.

Altre analisi hanno messo in discussione il contagio del soggetto, sussistendo il dubbio che il tampone di controllo potesse essere entrato semplicemente in contatto con virus presenti nel suo naso. Tuttavia, quello del carcerato canadese non è stato l’unico caso di essere umano risultato positivo all’influenza aviaria – per la precisione l’H5N1 – l’anno scorso. Intorno al Natale del 2021, anche un britannico di 79 anni, che viveva in contatto stretto con una ventina di anatre di sua proprietà, è risultato positivo al virus dell’influenza aviaria.

Se questi quattro eventi – un delfino morto, una focena morta, due uomini risultati positivi a un pericoloso virus aviario – non vi appaiono in relazione tra loro e vi sembrano insignificanti, forse dipende dal fatto che non avete sentito parlare di “viral chatter”, espressione coniata vari decenni fa il dottor Donald Burke, esperto ricercatore di malattie infettive ed ex rettore della University of Pittsburgh Graduate School of Public Health, per indicare il momento in cui un virus effettua in modo episodico un salto di specie, passando da animali selvatici a esseri umani e provocando talvolta una piccola catena di contagi. Si tratta di un segnale d’allarme dei focolai, spesso riconosciuto quando ormai è troppo tardi.

L’idea di viral chatter in sostanza allude all’emissione di un breve segnale periodico quando avviene un salto di specie

mi ha detto il dottor Burke undici anni fa.

I virus degli uccelli passano ai mammiferi. I virus dei pipistrelli passano agli uomini. Di solito, questi focolai e contagi occasionali arrivano a un punto morto, il che è un bene. Ma “occasionali” significa anche che uno schema si ripete, il che è male – o quanto meno allarmante. Ciò che questo schema segnala alle persone avvedute come il dottor Burke è che un dato virus “vuole” superare il divario tra ospiti animali ed esseri umani e diffondersi ovunque.

Dire che un virus “vuole” fare qualcosa è antropomorfismo, naturalmente, perché i virus non sono dotati di volontà propria. È soltanto la mera convenienza, e non un’intenzione malvagia, a determinare il loro comportamento. L’antropomorfismo, in ogni caso, può tornare utile. I segnali dell’influenza H5N1 indicano che il virus sta esplorando le sue prospettive tra vari mammiferi. Faremmo bene a ricordare che ciò ci riguarda direttamente da vicino.

Sono due le domande sul “viral chatter” che formulano gli esperti di malattie infettive: stiamo ascoltando con sufficiente attenzione per capire quello che implicano? Siamo pronti ad agire?

Non ogni persona contagiata diventa il paziente zero di un focolaio di considerevoli dimensioni, per non parlare di una pandemia. Tuttavia, quanti più casi si presentano – e tanti più segnali vi sono – tanto più è grande la possibilità che un contagio porti alla catastrofe. Gli esseri umani vivono molto vicini tra loro e sono interconnessi, il che significa che costituiscono una grandissima opportunità per qualsiasi virus in grado di contagiare i mammiferi.

L’H5N1 è soltanto uno di numerosi sottotipi di febbre aviaria passati all’uomo negli ultimi decenni, e le influenze sono soltanto uno dei modi con i quali i virus sono capaci di effettuare il salto tra specie. Ovviamente, i coronavirus sono altro ancora.

Quando nel luglio 2003 terminò l’epidemia originaria di Sars, sembrò che il virus fosse stato sradicato tra gli esseri umani – anche se in natura continuava a esistere. Però, quando dal dicembre 2003 al gennaio 2004 si presentarono quattro nuovi casi tra gli esseri umani, si scoprì che il virus aveva effettuato di nuovo un salto di specie, a quanto pare in un ristorante dove si tenevano in gabbia zibetti delle palme (ospiti intermedi del virus) serviti come pietanza. Ciò portò a due in un solo anno i casi di salto di specie del virus Sars. Quanti altri casi, però, non furono segnalati?

Il virus Nipah, altro esempio, fu individuato tra gli esseri umani in Malesia nel 1998, quando effettuò un primo salto di specie dai pipistrelli, tra i quali è di casa, ai maiali e un secondo salto ancora da questi ai coltivatori di maiali e ai commercianti di carne di maiale. I pipistrelli della frutta che lo ospitano sono molto diffusi un po’ ovunque in Asia meridionale e da allora il virus Nipah ha provocato decine di focolai in Bangladesh e in India orientale. Il suo tasso di letalità arriva ben al 75 per cento ma, per nostra fortuna, non si trasmette facilmente da persona a persona. La prossima volta che si presenterà può darsi che lo faccia… Riuscite a sentire i segnali?

«Non simulerò di essere un veggente» mi disse il dottor Burke. Previsione, disse, era una parola già molto forte per quello che faceva. «In ogni caso, si può affermare che da quella zona si sentono arrivare segnali, che si tratta di una zona pericolosa e che questi sono i virus di cui dovremmo preoccuparci». Le previsioni informate sulle aree a rischio rendono possibili due aspetti importanti per la prevenzione di una pandemia: la vigilanza nei riguardi dei contagi più inverosimili e dello scoppio imminente di un’epidemia per intervenire per tempo, e una risposta efficace e immediata per contenere i contagi e impedire che si diffondano. La necessità di una seria vigilanza sui virus non è nuova. Subito dopo che fu fondata nel 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità predispose un osservatorio globale sull’influenza e un sistema di intervento (Global Influenza Surveillance and Response System), una rete di laboratori e di centri di coordinamento miranti a individuare e risalire ai ceppi influenzali, registrarne i trend, monitorare gli interventi di politica sanitaria nel mondo. Questo sforzo coinvolge oggi alcune istituzioni di primaria importanza in 124 Stati facenti parte dell’Oms e prevede la condivisione a livello globale delle informazioni genetiche ed epidemiologiche raccolte. Nel 2000, nella preoccupazione crescente di altri virus emergenti, i membri dell’Oms hanno creato qualcosa di più ambizioso ancora, il Global Outbreak Alert and Response Network, ideato per aiutare i Paesi nei quali dovessero presentarsi dei focolai a impedirne la diffusione a livello globale. Da allora, nel corso degli anni, sono state varate molte più iniziative e organizzazioni. Di recente, però, ho parlato di influenza aviaria con cinque illustri ricercatori di varie parti del mondo, chiedendo a ciascuno di essi un parere sulla vigilanza esercitata. Le loro risposte sono state cinque variazioni di “inadeguatezza”.

Uno dei modi migliori per esercitare la vigilanza è sottoporre a esami del sangue e di altri campioni biologici le persone apparentemente sane che vivono in situazioni di rischio, per esempio i coltivatori di pollame o di suini (che possono fungere da intermediari per i virus influenzali) o chi lavora nei mercati dove si vendono animali vivi in gabbia, uccelli e mammiferi le cui deiezioni si spargono ovunque e che respirano l’aria di un medesimo ambiente chiuso. Un altro modo molto efficace per vigilare sullo scoppio di un focolaio è la campionatura preventiva degli animali selvatici con i quali gli esseri umani vengono in contatto, per esempio le prede catturate dai cacciatori, i roditori che infestano gli edifici, le anatre e le oche selvatiche che si mescolano ai loro simili domestici nelle mangiatoie o negli specchi d’acqua all’aperto. In parte, in alcune comunità e situazioni commerciali lo si fa già, ma secondo gli esperti non lo si fa abbastanza.

I motivi dell’inadeguatezza comprendono errori delle organizzazioni, finanziamenti limitati, alcuni aspetti economici dell’industria del pollame, il mercato nero degli animali selvatici e lo scarso impegno da parte dei governi nazionali e locali. Nei Paesi a basso reddito vi è anche penuria di tecnici e di veterinari preparati, come anche una resistenza a condividere le informazioni e i dati e una certa opposizione a controllare i soggetti sani ma a rischio, mentre tra le nazioni più potenti e con buone risorse circolano sospetti reciproci (esacerbati dall’esperienza con la Covid-19).

L’inadeguatezza è deplorevole e pericolosa. Viviamo in un mondo di virus che stanno all’interno di creature cellulari di tutti i tipi: animali, piante, funghi, protozoi, batteri e altri microbi. Centinaia di migliaia di questi virus nei mammiferi e negli uccelli possono contagiare l’uomo, e il contagiato potrebbe essere in grado di trasmettere il virus a un’altra persona, e poi a un’altra e un’altra ancora. Se non sentiamo i segnali è soltanto perché non stiamo ascoltando attentamente.

David Quammen su The New York Times 31 ottobre 2022




Covid. Un clamoroso errore la chiusura del Cts

Se è vero come è vero che almeno i due terzi delle cosiddette “malattie infettive emergenti” traggono la propria origine da uno o più serbatoi animali, al pari di quanto sarebbe con ogni probabilità accaduto anche per SARS-CoV-2, il famigerato betacoronavirus responsabile della Covid-19, appare più che lecito domandarsi come mai sia stata adottata da “chi di dovere” l’infelice decisione di chiudere il “Comitato Tecnico-Scientifico“, popolarmente noto con l’acronimo CTS.

Nei suoi fugaci due soli anni di vita, il CTS ha infatti fornito al nostro Governo una serie di importanti raccomandazioni finalizzate alla complessa gestione della drammatica pandemia da SARS-CoV-2.

Nel frattempo, mentre il nostro mondo continuava pervicacemente a rimanere “Covid-centrico” e, nondimeno, “antropocentrico”, nuove ed ulteriori minacce sostenute da agenti infettivi a documentata capacità zoonosica si sono progressivamente affacciate all’orizzonte. Particolarmente degni di nota risultano, a tal proposito, il “cluster” di casi umani di encefalite/encefalomielite da “West Nile virus” (WNV) registratosi nei mesi scorsi in nord Italia con oltre 20 decessi, unitamente all’epidemia da “Monkeypox virus” segnalata in più di 100 Paesi, con oltre 60.000 casi osservati nell’uomo.

Di pari passo con l’allarmante incremento delle temperature medie segnalato in special modo nel corso degli ultimi 8 anni su scala planetaria, si sta osservando un contestuale aumento della frequenza delle infezioni umane ed animali veicolate da artropodi, come chiaramente testimoniato dal recente cluster di casi umani di encefalite/encefalomielite da WNV osservato in diverse Regioni settentrionali del nostro Paese.

In un siffatto contesto, ne consegue che non soltanto si sarebbe dovuta assicurare la necessaria continuità ed operatività al CTS, ma si sarebbe dovuta prevedere, al contrario, la cooptazione di almeno un Medico Veterinario al suo interno, cosa di fatto mai avvenuta.

Errare Humanum est, Perseverare autem Diabolicum!

Per buona pace, giustappunto, della “One Health”, la salute unica di uomo, animali e ambiente.

Giovanni Di Guardo

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Combattere la Listeria Monocytogenes studiando le sue grandi capacità di adattamento

Listeria monocytogenesUna ricerca per capire come questo pericoloso batterio sia capace di sopravvivere, anche in condizioni molto difficili, mediante la produzione di determinate proteine, alcune delle quali attualmente prive di funzione nota

Listeria monocytogenes , uno dei più pericolosi microrganismi patogeni trasmessi attraverso gli alimenti, è un batterio decisamente resistente, capace di sopravvivere e persino riprodursi in condizioni ambientali particolarmente dure, dalla temperatura al sale, dall’acidità alla scarsità di acqua. Grazie a queste caratteristiche, non solo Listeria è largamente diffuso nell’ambiente, ma può contaminare gli ambienti delle industrie alimentari, dove la sua eliminazione può diventare particolarmente difficile.

La chiave è nell’adattabilità: di fronte agli stress ambientali il batterio attiva specifiche parti del suo codice genetico, che porta alla sintesi di proteine che lo rendono capace di fronteggiare situazioni avverse. Proprio la comprensione di come Listeria si adatti all’ambiente è alla base di un nuovo lavoro scientifico realizzato dal Laboratorio Nazionale di Riferimento per Listeria monocytogenes dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) e pubblicato sulla rivista Proteomics.

Lo studio ha preso in esame un particolare ceppo di Listeria, denominato ST7, che negli anni passati è stato responsabile di una serie di focolai di listeriosi nell’Italia centrale, con casi anche molto gravi. I ricercatori hanno sottoposto i batteri a condizioni ambientali moderatamente stressanti variando la temperatura, il livello di acidità e la concentrazione di sale. “Le condizioni che abbiamo scelto – dice Federica D’Onofrio, dottoranda presso la Facoltà di Bioscienze e tecnologie agro-alimentari e ambientali dell’Università di Teramo, prima firmataria del lavoro – sono le stesse che possono verificarsi nelle fasi di produzione, distribuzione e vendita di prodotti alimentari. In altri termini, sono molto vicine alla realtà dei cibi che possiamo trovare in negozi o supermercati”.

Per ogni diversa situazione gli autori dello studio hanno quindi analizzato i batteri mediante tecniche di immunoproteomica e bioinformatica. Questo ha permesso di individuare quali geni si erano attivati in risposta agli stress, sintetizzando le proteine corrispondenti. “Abbiamo visto – continua D’Onofrio – che, rispetto ai batteri cresciuti in condizioni ottimali, quelli sottoposti a stress producevano specifiche proteine, alcune delle quali attualmente prive di funzione nota. I meccanismi biologici coinvolti in questa risposta sono quelli della motilità cellulare, del metabolismo dei carboidrati, dello stress ossidativo e della riparazione del DNA”.

In altre parole, come avviene per ogni organismo vivente,  Listeria cerca di adattarsi per sopravvivere. Solo che riesce a farlo in modo particolarmente efficiente. “La produzione di proteine determinata dall’attivazione di specifici geni in condizioni stressanti – dice Mirella Luciani, Reparto Immunologia e Sierologia IZSAM, tutor di Federica D’Onofrio per il dottorato – è  l’elemento alla base della capacità di questi batteri di diffondersi nell’ambiente e, in certi casi, di persistere anche negli impianti di produzione alimentare. Considerando quanto la listeriosi possa essere pericolosa per alcune categorie particolarmente vulnerabili come i bambini, gli anziani, gli immunodepressi e le donne in gravidanza, approfondire i meccanismi di difesa dei batteri ci potrà aiutare nello studio di nuove strategie per combatterli”.

Fonte: IZS Teramo




Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2022: sfruttare l’automazione per trasformare i sistemi agroalimentari

FAOL’automazione agricola, che spazia dai trattori fino all’intelligenza artificiale, può contribuire enormemente a rendere la produzione alimentare più efficiente ed ecologica. Il fatto, tuttavia, che sia sfruttata in maniera disomogenea può addirittura inasprire le disuguaglianze, soprattutto se rimane inaccessibile ai piccoli produttori e ad altri gruppi emarginati, come i giovani e le donne.

L’edizione 2022 del rapporto “Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura” (SOFA), uno dei rapporti faro pubblicati ogni anno dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), esamina in che modo l’automazione nei sistemi agroalimentari può concorrere al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e formula raccomandazioni destinate ai responsabili politici su come ottimizzare i benefici e ridurre al minimo i rischi.

Dai servizi di noleggio di trattori in Ghana fino alle casse di gamberetti che utilizzano l’apprendimento automatico e la robotica in Messico, il rapporto passa in rassegna 27 studi di casi in tutto il mondo, che illustrano tecnologie a vari stadi di sviluppo e capaci di rispondere alle esigenze di aziende agricole di diverse dimensioni e livelli di reddito.

Il rapporto analizza i fattori che muovono lo sviluppo di tali tecnologie e individua alcune barriere che ne ostacolano l’adozione, in particolare, da parte dei piccoli produttori. Alla luce di tale analisi, la pubblicazione suggerisce politiche per garantire che l’automazione agricola sia inclusiva e contribuisca alla creazione di sistemi agroalimentari sostenibili e resilienti.

Infine, il rapporto esamina anche uno dei più frequenti timori legati all’automazione, ossia la possibilità che essa crei disoccupazione, concludendo che tali preoccupazioni non sono supportate dai fatti.

Al contrario, secondo il rapporto, l’automazione, in generale, riduce la carenza di manodopera e può rendere la produzione agricola più resiliente e dinamica, migliorare la qualità dei prodotti, accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, promuovere un’occupazione dignitosa e incrementare la sostenibilità ambientale.

“La FAO è realmente convinta che, senza il progresso tecnologico e un aumento della produttività, non sia possibile affrancare centinaia di milioni di persone dalla povertà, dalla fame, dall’insicurezza alimentare e dalla malnutrizione,” scrive il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu, nella prefazione al rapporto. “Il nocciolo della questione è capire, non tanto se l’automazione troverà o meno applicazione in agricoltura, quanto in che modo essa sia portata avanti nella pratica.  Dobbiamo, cioè, garantire che l’automazione dei processi produttivi avvenga in maniera inclusiva e tale da promuovere la sostenibilità.”

Progressi nel campo dell’automazione

Fin dall’antichità, gli esseri umani hanno cercato di ridurre la fatica del lavoro agricolo sviluppando strumenti ingegnosi e sfruttando la forza del fuoco, del vento, dell’acqua e degli animali. Nel 4000 a.C., gli agricoltori mesopotamici utilizzavano già l’aratro trainato da buoi, mentre i primi mulini idraulici hanno fatto la loro comparsa, in Cina, intorno al 1000 a.C.

Negli ultimi due secoli, il ritmo del cambiamento tecnologico ha subito una drastica accelerazione, innescata dalla scoperta del motore a vapore e, successivamente, sostenuta dall’avvento dei trattori alimentati da combustibili fossili.

Al giorno d’oggi, è in corso una nuova rivoluzione, che è guidata dalle tecnologie digitali. Tra queste, si annoverano l’intelligenza artificiale, i droni, la robotica, i sensori e i sistemi satellitari globali di navigazione, accanto alla vasta proliferazione di dispositivi portatili, come i cellulari e un’infinità di nuovi dispositivi collegati a Internet, il cosiddetto Internet delle cose. Un altro importante sviluppo riguarda l’ambito dell’economia della condivisione. In Africa e in Asia, per esempio, i servizi di beni condivisi adottano un modello simile all’applicazione dei taxi Uber, che permette agli agricoltori di piccole e medie dimensioni di accedere a macchinari costosi, come un trattore, senza doverli necessariamente acquistare.

L’enorme disparità che si osserva nella diffusione dell’automazione tra vari paesi e all’interno degli stessi è un fattore cruciale, soprattutto nelle regioni, come l’Africa subsahariana, dove l’adozione di tali strumenti è particolarmente limitata. Per esempio, già nel 2005, si calcolava che in Giappone erano disponibili oltre 400 trattori per 1 000 ettari di terra arabile, rispetto agli appena 0,4 trattori presenti in Ghana.

Alcune tecnologie, inoltre, sono ancora in fase di prototipazione, mentre la diffusione di altre è ostacolata da scarse infrastrutture di appoggio (come la connettività e l’elettricità), soprattutto nei paesi a basso e medio reddito.

È bene, infine, ricordare che alcune tecnologie, come i grandi macchinari motorizzati, possono avere effetti ambientali negativi, poiché contribuiscono alla monocultura e all’erosione del suolo. Ad ogni modo, la recente diffusione di macchinari di più piccole dimensioni sta aiutando a superare tali criticità.

Raccomandazioni politiche

Il principio cardine su cui poggiano le raccomandazioni politiche formulate nel rapporto ruota attorno all’idea di un cambiamento tecnologico responsabile. Tale prospettiva comporta, per un verso, la necessità di prevedere l’impatto delle tecnologie sulla produttività, la resilienza e la sostenibilità, e, per un altro verso, la disponibilità a concentrarsi sui gruppi vulnerabili ed emarginati.

La chiave di volta consiste nel creare un contesto favorevole, che presupponga un uso coerente di vari strumenti politici contemporaneamente, tra cui norme e regolamenti, infrastrutture, accordi istituzionali, istruzione e formazione, ricerca e sviluppo, e il sostegno ai processi d’innovazione del settore privato.

Tra gli impegni presi per ridurre una diffusione disomogenea dell’automazione dovrebbero esserci gli investimenti inclusivi, con la partecipazione di produttori, fabbricanti e fornitori di servizi, in particolare giovani e donne, allo scopo ultimo di sviluppare ulteriormente le tecnologie e adattarle alle esigenze specifiche degli utenti finali.

Inoltre, gli investimenti e altre azioni politiche concepite per promuovere un’automazione responsabile in ambito agricolo dovrebbero tener conto delle condizioni specifiche di una determinata area, come lo stato della connettività, le sfide legate alle conoscenze e alle competenze, l’adeguatezza delle infrastrutture e le disparità di accesso. Anche le condizioni biofisiche, topografiche e climatiche giocano un ruolo in tal senso. Per esempio, piccoli macchinari e addirittura gli strumenti manuali possono offrire benefici sostanziali ai piccoli produttori che lavorano i terreni collinari.

Infine, il rapporto prende in esame i diffusi timori per i possibili impatti negativi delle tecnologie che semplificano il lavoro, in termini di disoccupazione e trasferimento dei posti di lavoro. Pur concludendo che tali timori sono eccessivi, il rapporto riconosce che l’automazione in agricoltura può effettivamente generare disoccupazione nelle zone in cui la manodopera rurale è abbondante e i salari sono bassi.

In tali zone ad alta intensità di manodopera, i responsabili politici dovrebbero evitare di incentivare l’automazione e concentrarsi piuttosto sulla creazione di un contesto favorevole per la sua adozione, offrendo, al tempo stesso, forme di protezione sociale ai lavoratori meno qualificati, che hanno maggiori probabilità di perdere il lavoro durante la transizione.

Definizioni

Con il termine automazione agricola nel rapporto si intende il ricorso a macchinari e attrezzature nelle attività agricole per migliorare la diagnosi, il processo decisionale o le prestazioni, riducendo la fatica del lavoro agricolo e/o migliorando la tempestività, nonché potenzialmente la precisione, delle operazioni agricole.

Con l’espressione sistemi agroalimentari si intende l’intera gamma di attori, nonché le attività generatrici di valore aggiunto ad essi correlate, coinvolti nella produzione primaria di alimenti e prodotti agricoli non alimentari, nonché nello stoccaggio, nell’aggregazione, nel trattamento post-raccolta, nel trasporto, nella lavorazione, nella distribuzione, nella commercializzazione, nello smaltimento e nel consumo di tutti i prodotti alimentari, compresi i prodotti di origine non agricola.

Fonte: FAO



Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

 La Regione Lombardia, dal 2012 si è dotata di un piano di Monitoraggio Sanitario della Fauna selvatica che si pone lo scopo di monitorare non solo un gruppo determinato di patologie e relative specie nelle quali ne è nota la possibile presenza, ma più in generale anche eventuali fenomeni di spillover (passaggio di virus) nella fauna selvatica.

Nell’ultimo ventennio infatti in Lombardia come in tutta Italia, si è assistito a un continuo ed esponenziale aumento delle popolazioni di animali selvatici, sia per consistenza numerica sia per distribuzione geografica, raggiungendo livelli tali da rappresentare un’entità non più trascurabile in termini di potenziali fattori di rischio sanitario per gli animali domestici e per l’uomo.

La diffusione degli animali selvatici e i conseguenti aumentati contatti con l’uomo esitano in un continuum epidemiologico tra animali selvatici, domestici e specie umana favorendo, tra le altre cose, la possibile diffusione e reciproca trasmissione di malattie comuni, nuove, emergenti o re-emergenti.

È infatti un dato da tempo assodato che le malattie trasmissibili all’uomo di origine animale (c.d. zoonosi) originate dalla fauna selvatica, possono rappresentare una minaccia per la salute umana e individuare tempestivamente la comparsa e contrastarne efficacemente la diffusione rappresenta una priorità per la salute pubblica.

Grazie alla preziosa rete di collaborazione garantita dal Piano di monitoraggio, sviluppato dalla UO Veterinaria della DG Welfare e che vede come attori anche l’IZSLER e i Centri di Recupero degli Animali Selvatici, è stato possibile identificare per la prima volta in Italia il virus Issyk-Kul (ISKV).

Allo stato attuale si sa ancora poco su questo virus, anche se è descritto come causa di possibili focolai di malattia nell’uomo caratterizzati da febbre, mal di testa, mialgia, e nausea con tempi di convalescenza anche di alcune settimane (Vedi Scheda Tecnico-Scientifica).

Il virus è stato isolato da un pipistrello appartenente ad una specie (Hypsugo savii) sedentaria e molto diffusa nelle aree urbane, che utilizza gli edifici come siti di rifugio suggerendo possibili implicazioni per la salute pubblica. L’isolamento è stato eseguito su un esemplare deceduto spontaneamente presso il CRAS WWF della Valpredina e analizzato presso l’IZSLER all’interno delle indagini di sorveglianza passiva sui pipistrelli previste dal Piano Fauna Selvatica di Regione Lombardia.

Ad oggi l’IZSLER ha registrato una sola positività e sono in coso ulteriori indagini volte a definire la diffusione, distribuzione ed ecologia di questo virus, che permetterà anche di acquisire informazioni utili a definire la prevalenza/incidenza di ISKV per meglio capire se esiste un eventuale rischio di trasmissione e diffusione agli animali e all’uomo.

Questa importante scoperta, resa possibile grazie al lavoro di coordinamento della DG Welfare dei diversi attori coinvolti nel Piano di monitoraggio sanitario della fauna selvatica, ivi inclusi l’IZSLER e i CRSA regionali, sottolinea come le attività di sorveglianza sanitaria degli animali selvatici siano un importante momento di conoscenza e di prevenzione di possibili comparsa di fenomeni di spillover anche nel territorio di Regione Lombardia.

L’attività di monitoraggio rientra nel quadro delle numerose attività dell’IZSLER nella cosiddetta One Health (Una Sola Salute).

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna