Giornata mondiale delle api: anche chi non si estingue non sta bene

Il 20 maggio è stata la giornata mondiale delle api, istituita dalle Nazioni Unite per sensibilizzare sempre di più sull’importanza di questi insetti, fondamentali per gli ecosistemi e quindi anche per noi esseri umani.

E come ogni 20 maggio spesso si torna a parlare di rischio estinzione, magari rispolverando anche la famosa citazione messa in bocca ad Einstein secondo la quale se le api scomparissero a noi non resterebbero più di 4 anni di vita, cosa che ovviamente non ha alcun fondamento e che Einstein non ha mai pronunciato.

Ma le api sono in estinzione? Alcune sì, ma come sempre è necessario fare chiarezza.

Con il termine api, tecnicamente si intendono tutti gli insetti della superfamiglia Apoidea.

nel mondo esistono oltre 20 mila specie di api, in Italia oltre 1000 specie, e di queste praticamente solo una è utilizzata per l’apicoltura: Apis mellifera, l’ape da miele che, diciamolo subito, non è né è mai stata a rischio estinzione.

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Fonte: Agronotizie




Peste suina africana: aumento notevole dei casi nei suini nell’UE nel 2023

Per i suini domestici nel 2023 si è registrato il più alto numero di focolai di PSA dal 2014. Croazia e Romania hanno notificato il 96% del numero totale di focolai (1 929).

Nel 2023 il numero di focolai nei cinghiali è aumentato del 10% rispetto all’anno precedente. Il virus fu introdotto per la prima volta in Svezia e Croazia diffondendosi poi a nuove aree in Italia. Riapparve anche in Grecia dopo una pausa di due anni.

La Germania, l’Ungheria e la Slovacchia hanno visto migliorare la situazione epidemiologica nei loro Paesi, con una diminuzione del numero di focolai nei cinghiali selvatici.

Gli esperti dell’EFSA raccomandano di dare priorità alla sorveglianza passiva , compresa la ricerca e l’analisi delle carcasse di cinghiale, piuttosto che alla sorveglianza attiva, compresa l’analisi dei cinghiali cacciati per individuare i focolai di PSA.

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Fonte:  EFSA




Sempre più temibile il virus dell’influenza aviaria A(H5N1): Una prospettiva “One Health”

Lo spiccato neurotropismo del virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (highly pathogenic avian influenza, HPAI) A(H5N1), che fa il paio con la notevole neuropatogenicità dello stesso per numerose specie di uccelli e di mammiferi anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, ivi compresi Pinnipedi e Cetacei (1-6), desta fondati motivi di allarme.

Ciò appare ulteriormente giustificato dalla comprovata suscettibilità dei bovini nei confronti di tale infezione, come in maniera oltremodo eloquente testimoniano i numerosi casi recentemente insorti nella popolazione bovina statunitense di ben nove Stati, primo fra tutti il Texas (7), ove un allevatore avrebbe altresi’ sviluppato una congiuntivite bilaterale verosimilmente conseguente al contatto con un capo infetto (8). Degno di particolare menzione risulta, in un siffatto contesto, anche il parallelo riscontro del virus A(H5N1) nelle acque reflue di più città texane (9) – come già segnalato in precedenza sia per il poliovirus sia per il betacoronavirus SARS-CoV-2 (10) -, a fronte di una presunta origine del medesimo da una matrice avicola o bovina, se non addirittura umana (9).

Per quanto specificamente attiene alla sorveglianza epidemiologica dell’infezione da virus A(H5N1) nella popolazione bovina statunitense e, più in generale, in quella di tutti gli altri Paesi, andrebbe sottolineato che un serio ostacolo è rappresentato dalle manifestazioni cliniche paucisintomatiche con cui la stessa generalmente evolve nella specie in esame, con il conseguente rischio di una più o meno marcata sottostima dei casi d’infezione realmente esistenti (11).

Ciononostante, mentre si assisterebbe da un lato ad una consistente eliminazione del virus attraverso il latte – fattispecie quest’ultima che richiama ad un caloroso invito a consumare esclusivamente latte pastorizzato (il processo di pastorizzazione, è bene ricordarlo, sarebbe in grado di inattivare sia questo che molti altri agenti microbici, virali e non) -, l’epitelio tubulo-alveolare della ghiandola mammaria bovina albergherebbe al proprio interno, dall’altro lato, un’elevata densità di recettori nei confronti del virus A(H5N1) (11,12).

A tal proposito, la coesistenza a livello dell’epitelio ghiandolare mammario dei bovini di recettori specifici sia per i virus influenzali aviari (sialic acid, SA alfa 2-3 gal) sia per quelli umani (SA alfa 2-6 gal) potrebbe qualificare la specie bovina, secondo alcuni studiosi, quale ulteriore “mixing vessel” in grado di consentire un “rimescolamento genetico” fra virus di origine avicola ed umana, in stretta analogia con il comprovato ruolo notoriamente svolto in tal senso dai suini (12).

Ciò potrebbe contribuire, unitamente alle succitate dinamiche evolutive progressivamente assunte dall’infezione da virus A(H5N1), ad un ulteriore affinamento della “fitness” virale, con conseguente acquisizione ad opera dello stesso della capacità di trasmettersi facilmente da uomo a uomo. Per quanto sia attualmente ben lungi dall’essere comprovata, una siffatta evenienza appare tuttavia oltremodo plausibile, vista e considerata l’elevata propensione dei virus influenzali di soggiacere a mutazioni del proprio “make-up” genetico attraverso i ben noti fenomeni di riassortimento/ricombinazione genomica che li contraddistinguono (6).

Va da se’, pertanto, che adeguati sforzi andrebbero profusi, sulla scia delle lezioni apprese dalla drammatica pandemia da CoViD-19, al precipuo fine di giungere opportunamente “preparati e pronti” (“preparedness and readiness” le parole-chiave, giustappunto) ad un’eventuale emergenza pandemica da virus dell’influenza aviaria A(H5N1), in una salutare ottica di collaborazione multidisciplinare ed intersettoriale fra Medicina Umana e Medicina Veterinaria, diffusamente permeata dal concetto/principio della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente!

 

Bibliografia citata 
1) Ariyama, N., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Clade 2.3.4.4b Virus in Wild Birds, Chile. Emerg. Infect. Dis. 29:1842-1845. doi: 10.3201/eid2909.230067.
2) Puryear, W., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus Outbreak in New England Seals, United States. Emerg. Infect. Dis. 29:786-791. doi: 10.3201/eid2904.221538.
3) Gamarra-Toledo, V., et al. (2023). Mass Mortality of Sea Lions Caused by Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus. Emerg. Infect. Dis. 29:2553-2556. doi: 10.3201/eid2912.230192.
4) Thorsson, E., et al. (2023). Highly Pathogenic Avian Influenza A(H5N1) Virus in a Harbor Porpoise, Sweden. Emerg. Infect. Dis. 29:852-855. doi: 10.3201/eid2904.221426.
5) Murawski, A., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus in a common bottlenose dolphin (Tursiops truncatus) in Florida. Commun. Biol. 7:476. doi: 10.1038/s42003-024-06.
6) Di Guardo, G., Roperto S. (2024). AH5N1 avian influenza, a new pandemic behind the corner? (Rapid Response). BMJ https://www.bmj.com/content/380/bmj.p510/rr.
7) Reardon, S. (2024). Bird flu in US cows: Where will it end? Nature 
https://www.nature.com/articles/d41586-024-01333-9.
8) Uyeki, T.M., et al. (2024). Highly pathogenic avian influenza A(H5N1) virus infection in a dairy farm worker. N. Engl. J. Med. 
doi:10.1056/NEJMc2405371.
9) Tisza, M.J., et al. (2024). Virome sequencing identifies H5N1 avian influenza in wastewater from nine cities. MedRxiv preprint 2024.05.10. doi:https://doi.org/10.1101/2024.05.10.24307179.
10) Clark, J.R., et al. (2023). Wastewater pandemic preparedness: Toward an end-to-end pathogen monitoring program. Front. Public Health 11:1137881. doi:10.3389/fpubh.2023.1137881.
11) Gerhard, D. (2024). Deciphering the unusual pattern of bird flu symptoms in cows. The Scientist Magazine
https://www.the-scientist.com/deciphering-the-unusual-pattern-of-bird-flu-symptoms-in-cows-71850.
12) Kristensen, C., et al. (2024). The avian and human influenza A virus receptors sialic acid (SA)-α2,3 and SA-α2,6 are widely expressed in the bovine mammary glandBioRxiv preprint 2024.05.03.592326.

 

Giovanni Di GuardoDVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




MyMIC project. Indagine sull’uso degli antimicrobici contro i micoplasmi

Il Laboratorio di referenza WOAH per le micoplasmosi aviarie dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) sta collaborando a un’indagine internazionale sull’uso degli antimicrobici contro i micoplasmi negli animali da allevamento (bovinisuini e pollame).

I risultati di questo questionario serviranno :

  • per sviluppare nuovi protocolli di laboratorio per i test di sensibilità antimicrobica per i micoplasmi animali,
  • per aiutare l’interpretazione clinica dei dati (MIC),
  • per guidare il veterinario verso un uso più consapevole degli antibiotici nel trattamento delle infezioni da micoplasma in allevamento.

Per partecipare all’indagine, compila il questionario accessibile da questo link: https://mymic.vetagro-sup.fr

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Fonte: IZS Venezie




One Health: l’Istituto zooprofilattico di Teramo candidato a Agenzia nazionale

Si è tenuto presso l’Auditorium Cosimo Piccinno del Ministero della Salute a Roma l’evento dedicato al paradigma One Health, ovvero un approccio multidisciplinare che riconosce l’interconnessione tra la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema. Questa filosofia parte dal presupposto che le malattie e le condizioni di salute non esistono in isolamento e che la salute di ogni componente è interdipendente con quella degli altri. Intitolato “Il cammino del Sistema Sanitario Nazionale verso la salute unica”, l’incontro ha visto la presentazione del 3° volume 2024 del “One Health Journal” e la 3ª edizione del “One Health Award”.

Orazio Schillaci, ministro della Salute, e Marco Marsilio, presidente della Regione Abruzzo sono intervenuti all’evento, sottolineando l’importanza di un approccio integrato per affrontare le sfide sanitarie globali, evidenziando come la cooperazione tra settori diversi sia essenziale per garantire la salute pubblica.

“È prezioso il lavoro dei nostri Istituti Zooprofilattici Sperimentali, – ha affermato il ministro della Salute, Orazio Schillaci – i quali costituiscono una rete d’eccellenza unica in Europa per capillarità e per le competenze che hanno al proprio interno. Di questo siamo fieri e ci affiancano con attività di ricerca scientifica, di diagnostica e di sorveglianza sulla diffusione delle malattie, ma anche nella formazione.”

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Fonte: sanita24.ilsole24ore.com




Conservare la natura funziona!

Spreco alimentareTroppo spesso, di fronte ai crescenti tassi di scomparsa di specie (sono 44.000 quelle che rischiano di estinguersi secondo la IUCN, unione internazionale per la conservazione della natura) si rischia di vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, e di giungere all’errata conclusione che sia inutile investire soldi e tempo per la conservazione. Niente di più sbagliato: lavorare per la biodiversità premia e fa ottenere risultati tangibili. Lo dimostra un articolo pubblicato su Science lo scorso 25 aprile che ha analizzato l’efficacia degli interventi di conservazione su scala globale, dimostrando che agire a favore delle specie e degli ecosistemi funziona ed è estremamente più fruttuoso dell’inazione.

«La domanda a cui volevamo rispondere con questa analisi è proprio: la conservazione funziona davvero?», dice Penny Langhammer, prima autrice dello studio e vicepresidente esecutivo della ONG Re:wild, per la quale dirige i programmi di conservazione a livello globale. «Abbiamo quindi confrontato due scenari: quello che è successo intervenendo per la tutela delle specie e cosa invece si sarebbe verificato se non avessimo fatto nulla. Esistono diversi studi che valutano l’efficacia dei singoli interventi, ma è la prima volta che questa analisi viene fatta su scala globale, analizzando gli effetti delle misure di conservazione sulla biodiversità a diversi livelli, genetica, specie e ecosistemi, e nel corso del tempo. E i risultati sono chiari: nella maggior parte dei casi le azioni di conservazione beneficiano in modo significativo la biodiversità».

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Fonte: scienzainrete.it




La FAO lancia una campagna decennale per ridurre l’uso di antibiotici nella produzione animale

FAO

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha annunciato il lancio di una nuova iniziativa orientata all’azione e focalizzata sui paesi per ridurre la necessità dell’uso di antimicrobici nella produzione animale, in mezzo alla crescente minaccia posta dalla resistenza antimicrobica (AMR) nel settore alimentare e zootecnico, che ha un impatto sulla salute degli animali terrestri e acquatici, delle piante e dell’ambiente e causa perdite economiche significative agli allevatori di tutto il mondo.

L’iniziativa “Ridurre la necessità di antimicrobici negli allevamenti per la trasformazione di sistemi agroalimentari sostenibili (RENOFARM)”, mira a fornire ai paesi sostegno politico, assistenza tecnica, sviluppo di capacità e condivisione di conoscenze per contribuire a ridurre la necessità di antimicrobici nella produzione zootecnica, dando priorità alla salute degli animali. e benessere, mitigando l’impatto ambientale e migliorando la sicurezza alimentare e la nutrizione, contribuendo così al raggiungimento dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

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Fonte: 3tre3.it




Come sta evolvendo la popolazione nel mondo?

Dopo aver esaminato la  variazione del numero di capi bovini in Italia in base all’orientamento produttivo ed al numero di capi presenti in allevamento ed aver evidenziato i dati anche per regioni geografichein questo nuovo articolo abbiamo voluto evidenziare come sta evolvendo la popolazione nel mondo.

Le dinamiche di crescita della popolazione a livello mondiale hanno influenzato e influenzeranno sempre più i consumi e la tipologia di alimento richiesto. La tipologia di alimento consumato è infatti legata alla cultura di un popolo, alle tradizioni gastronomiche, alla religione di appartenenza. Conoscere tutti questi aspetti significa immaginare e prevedere i consumi futuri di derrate alimentari.

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Fonte: ruminantia.it




Ausl di Imola e Università di Bologna: studio uccelli acquatici selvatici sulla diversità genetica dei virus dell’influenza aviaria

I Virus dell’Influenza Aviaria (VIA) sono oggetto di preoccupazione a causa del loro potenziale impatto sulla salute dei volatili domestici, della fauna selvatica e, se zoonosici, dell’uomo.

Uno studio recente condotto nel Nord-Est Italia getta luce sulla diversità genetica dei VIA rilevati negli uccelli acquatici, rivelando interessanti approfondimenti sulla sorveglianza e monitoraggio di questi virus.

Condotto, da ricercatori dell’Università di Bologna in collaborazione con la A.U.S.L. di Imola e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nella regione dell’Emilia-Romagna, si è concentrato sul campionamento di uccelli acquatici selvatici, inclusi anatre, ibis, oche, fenicotteri, gabbiani, aironi e limicoli. Questi uccelli sono stati campionati utilizzando un approccio che prevedeva la raccolta di feci per stimare il tasso di positività ai VIA durante diverse fasi della migrazione. I ricercatori per questo studio hanno utilizzato una strategia di campionamento non invasiva, che si è dimostrata uno strumento prezioso per la sorveglianza dei VIA.

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Fonte: alimentiesalute.emilia-romagna.it




Aviaria: mucche hanno gli stessi recettori umani per l’influenza

Le mucche hanno gli stessi recettori per i virus influenzali degli esseri umani e degli uccelli. Questo il risultato di uno studio in preprint, che aumenta la preoccupazione sulla situazione USA dove l’influenza aviaria si sta diffondendo rapidamente tra il bestiame.

Gli scienziati temono che le mucche possano diventare dei comodi ospiti per il virus, permettendogli di modificarsi fino a trovare il modo di diffondersi meglio tra le persone. Un evento del genere, sebbene raro, dicono gli esperti, potrebbe metterci sulla strada di un’altra pandemia. Per anni, l’H5N1, o influenza aviaria ad alta patogenicità, è rimasta confinata principalmente alla popolazione di uccelli, ma recentemente ha iniziato a infettare un numero crescente di mammiferi, suggerendo che il virus potrebbe adattarsi e avvicinarsi a diventare un agente patogeno per l’uomo.

I virus dell’influenza aviaria hanno decimato gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti e, poiché è noto che i maiali contraggono il virus dell’influenza aviaria, i suini sono stati attentamente monitorati per rilevare segni di infezione, ma le mucche non erano sul radar di nessuno come potenziali ospiti.

Dalla fine di marzo, secondo il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, sono state invece trovate 42 mandrie infette in nove stati. Solo un essere umano – per quanto ai dati ufficiali – è stata infettata dal virus H5N1 dopo il contatto con mucche infette, e i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie affermano che l’attuale rischio per la salute pubblica è basso, sebbene stiano lavorando con gli stati USA per monitorare le persone con esposizione agli animali .

“La scoperta nei bovini è stata molto diversa”, ha affermato il dottor Lars Larsen alla “CNN”, professore di microbiologia clinica veterinaria presso l’Università di Copenaghen in Danimarca. Nei mammiferi, l’influenza infetta tipicamente i polmoni. Nei gatti può anche infettare il cervello. “Qui vediamo un’enorme quantità di virus nelle mammelle e nel latte”, ha detto Larsen.

I virus hanno bisogno di un modo per penetrare nelle cellule. Per il virus che causa il Covid-19, la chiave è un recettore chiamato ACE2. Nel caso dei virus influenzali, si tratta di una molecola che fuoriesce dalla superficie delle cellule chiamata acido sialico. Animali diversi presentano forme diverse di acidi sialici. Gli uccelli hanno recettori che hanno forme leggermente diverse da quelli che gli esseri umani hanno nel tratto respiratorio superiore.

Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva che tipo di recettori ad acido sialico avessero le mucche, perché si credeva che non contraessero virus influenzali di ceppo A come l’H5N1. Larsen e i suoi colleghi negli Stati Uniti e in Danimarca hanno prelevato campioni di tessuto dai polmoni, dalla trachea, dal cervello e dalle ghiandole mammarie di vitelli e mucche e li hanno colorati con composti che sapevano si sarebbero attaccati a diversi tipi di recettori ad acido sialico. Hanno tagliato i tessuti colorati molto sottilmente e li hanno osservati al microscopio.

Ciò che hanno visto è stato sorprendente: le minuscole sacche delle mammelle produttrici di latte, chiamate alveoli, erano piene di recettori ad acido sialico e avevano sia il tipo di recettori associati agli uccelli che quelli più comuni negli esseri umani. Quasi ogni cellula esaminata conteneva entrambi i tipi di recettori, ha affermato l’autrice principale dello studio, la dott.ssa Charlotte Kristensen, ricercatrice post-dottorato in patologia veterinaria presso l’Università di Copenaghen.

Questa scoperta ha sollevato preoccupazione perché uno dei modi in cui i virus influenzali cambiano e si evolvono è scambiando pezzi del loro materiale genetico con altri virus influenzali. Questo processo, chiamato riassortimento, richiede che una cellula venga infettata contemporaneamente da due diversi virus influenzali.

“Se si introducono entrambi i virus nella stessa cellula contemporaneamente, è possibile che da essa escano essenzialmente virus ibridi”, ha affermato l’autore dello studio, il dottor Richard Webby, direttore del Centro per gli studi sull’ecologia dell’influenza negli animali e negli uccelli dell’Organizzazione mondiale della sanità. Per essere infettata contemporaneamente da due virus influenzali – un virus dell’influenza aviaria e un virus dell’influenza umana – una cellula dovrebbe avere entrambi i tipi di recettori dell’acido sialico, cosa che hanno le mucche, cosa che non era nota prima di questo studio.

Ma gli studiosi lo ritengono un evento raro, anche in ragione del periodo dell’anno. Perché qualcosa del genere accada, una mucca infetta dal virus dell’influenza aviaria dovrebbe contrarre un ceppo influenzale diverso da un essere umano infetto. Attualmente, i contagi da influenza umana sono bassi negli USA e diminuiscono con la fine della stagione influenzale, rendendo la possibilità che qualcosa del genere accada ancora più remota. Seppur non impossibile, sottolineano i ricercatori.

Fonte: AGI