Gli PFAS in pesci e molluschi: occorrono linee guida specifiche

Gli PFAS, o sostanze perfluoroalchiliche, estremamente versatili, usatissimi e quasi indistruttibili, perché conferiscono proprietà idro- e oleo-repellenti, si trovano in concentrazioni variabili, e non di rado elevate, anche nei pesci, nei molluschi e nei crostacei. Un riscontro che non stupisce, dal momento che gli PFAS sono presenti in tutte le acque del mondo. Eppure questo tipo di contaminazione, oltre ad essere ancora sconosciuta ai più, resta da approfondire, oltre a non esistere linee guida adeguate.

 I pesci del New Hampshire

A dimostrare che una fonte di quantità non irrilevanti di PFAS possono essere i pesci, i crostacei e i molluschi, è uno studio appena pubblicato su Exposure and Healthcondotto dai ricercatori del Darmouth College di Lebanon, in New Hampshire, stato che ha una competenza specifica nel settore. Nella zona, come in tutto il New England, infatti, esistono diverse fabbriche di plastificanti che per anni hanno sversato rifiuti nelle acque dolci e salate. Per questo lì sono stati effettuati alcuni dei primi studi che hanno mostrato, senza possibilità di equivoco, la contaminazione delle acque potabili. Al tempo stesso, il New Hampshire ha una tradizione culinaria incentrata sul pesce, ed è quindi una zona ideale, per studiare l’assunzione regolare di quantità significative di cibo che contiene PFAS.

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Fonte: ilfattoalimentare.it




Il benessere dei bufali: una revisione della letteratura dal 1992 al 2023

La filiera bufalina ha riscosso un enorme successo negli ultimi anni in tutto il mondo, creando importanti opportunità di lavoro. L’allevamento di questi animali avviene a livello globale ed è soggetto a tipi di gestione fortemente differenziate a seconda delle possibilità offerte sia dal territorio che dall’economia del paese. Un tema che ha suscitato sempre maggior interesse è sicuramente quello del benessere degli animali, di cui un recente studio ha cercato di fare una revisione scientifica approfondita usando un approccio di Text Mining e Topic Analysis. Di seguito l’approfondimento.

Il bufalo (Bubalus bubalis) è la quinta specie allevata al mondo dopo mucche, pecore, capre e maiali, con 203.939.158 capi. Le bufale sono allevate principalmente per la produzione di latte e, a livello globale, nel 2021 la produzione di latte di bufala precede quella di latte di mucca (rispettivamente 15% e 81% della produzione mondiale di latte).
 La popolazione bufalina è in costante aumento in Europa, ma più specificamente in Italia, grazie alla produzione di una tipica mozzarella di bufala chiamata “Mozzarella di Bufala Campana DOP” esportata sia all’interno che all’esterno dell’UE. La popolazione e lo stato finanziario asiatici fanno ampio affidamento su questa specie, che crea reddito per le comunità pastorali dando loro sicurezza lavorativa.3
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Fonte: assaspa.it



Le sorprese (amare) non finiscono mai!

Nella mia attuale veste di professore universitario in pensione dopo una  gratificante carriera di docenza accademica ed una nutrita serie di convegni alle spalle, confesso di non aver mai partecipato, prima d’ora, ad un simposio internazionale i cui lavori non fossero aperti dai saluti delle Autorità locali.

Ecco i fatti: dal 10 al 12 Aprile si è svolta a Catania, presso il rinomato Centro Congressi “Le Ciminiere”, la 35.ma Conferenza Annuale della  “European Cetacean Society”  (“Società Europea di Cetologia”), che ha visto la partecipazione di circa 600 studiosi provenienti da ben 42 Paesi, 24 Europei e 18 extra-Europei.

Orbene, nonostante le locandine ed i manifesti congressuali recassero in bella mostra il logo del Municipio di Catania nonché quello della Regione Siciliana, non un singolo rappresentante di tali Istituzioni si è presentato alla cerimonia inaugurale per portare quantomeno un “doveroso” cenno di saluto!

Riporto tutto ciò con un sentimento misto di stupore e di amarezza, che mi deriva anche dall’avere origini catanesi, di cui vado oltremodo fiero e orgoglioso.

E’ particolarmente triste dover constatare, altresì, come un siffatto desolante accadimento non deponga a favore della quantomai auspicabile e benemerita sinergia di intenti, di strategie e di azioni fra la Comunità Scientifica, da un lato, e la Pubblica Amministrazione, dall’altro, ma che rischi di tradursi, al contrario, in un approfondimento del solco che, a dispetto del cambiamento climatico e delle altre drammatiche sfide che la contemporaneità ci pone di fronte, continua purtroppo a tenere le due componenti separate l’una dall’altra.

Errare Humanum est Perseverare Autem Diabolicum!

Giovanni Di Guardo,
DVM, Dipl. ECVP,
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Influenza aviaria: sorveglianza post-vaccinazione strumento cardine per movimentare in sicurezza i volatili

All’EFSA è stato richiesto di fornire una panoramica completa sulle opzioni efficaci di sorveglianza e le misure di riduzione del rischio di influenza aviaria. I nostri scienziati hanno esaminato tali misure e hanno valutato se le strategie di sorveglianza disponibili possano attestare l’assenza della malattia, consentendo così la movimentazione sicura del pollame e dei relativi prodotti.

I nostri esperti hanno esaminato in modo specifico le strategie di sorveglianza in scenari di vaccinazione di emergenza e preventiva, stabilendo le specie di pollame oggetto di vaccinazione (gallina ovaiola, tacchino o anatra), il numero di animali da sottoporre ad analisi, il metodo diagnostico appropriato e il periodo di campionamento.

Nel caso di vaccinazione di emergenza contro l’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI), i nostri scienziati hanno concluso che, per essere efficaci, i programmi di sorveglianza per l’individuazione precoce di nuovi focolai dovrebbero tenere conto del tipo di pollame e del numero di capi nell’allevamento. Se si applica la vaccinazione preventiva, per attestare l’assenza di malattia si raccomanda di effettuare analisi virologiche mensili su un numero massimo di 15 volatili morti, onde salvaguardare la movimentazione del pollame e dei relativi prodotti. Inoltre sia i branchi di volatili vaccinati che quelli non vaccinati vanno sottoposti a sorveglianza passiva.

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Fonte: EFSA




Influenza aviaria nei bovini: cosa sappiamo

influenza aviariaNegli USA la presenza di tanti allevamenti di bovini da latte di grandissime dimensioni con ampi parchi esterni rende più frequente e diretto il contatto tra avifauna selvatica e animali da allevamento. In passato, il virus aveva già dato origine a eventi di spillover dagli uccelli selvatici a mammiferi domestici (carnivori) allevati con ridotte misure di biosicurezza, come per esempio gli allevamenti di visoni da pelliccia.

L’EURL è in stretto contatto con le organizzazioni sanitarie internazionali e sta seguendo attentamente l’evolversi della situazione. Anche le autorità sanitarie nazionali, il Ministero della Salute e le Regioni, stanno monitorando la situazione per adottare eventuali misure di mitigazione del rischio. Oltre che gli animali, il virus negli USA ha contagiato anche un operatore del settore lattiero-caseario che era venuto a contatto con i bovini infetti, causando una congiuntivite. Il caso rappresenta un evento eccezionale, infatti è la prima volta che un uomo viene infettato da un bovino con un virus dell’influenza aviaria HPAI, e ciò potrebbe essere dovuto ad una forte contaminazione ambientale e al mancato rispetto delle norme igieniche durante la mungitura. Non ci sono evidenze di trasmissione del virus per via aerogena.

I ricercatori stanno cercando di capire le esatte dinamiche di diffusione di questo virus dai volatili ai bovini e tra i bovini. Non è chiaro infatti se i bovini degli allevamenti americani siano stati infettati da volatili selvatici o da altra fonte riconducibile ai tanti casi di HPAI nel pollame che hanno colpito e stanno tuttora colpendo gli Stati Uniti. Studi clinici e sperimentali sono previsti in USA e in Europa per chiarire questi aspetti. Il monitoraggio costante delle caratteristiche genetiche del virus e la condivisione delle sequenze all’interno della comunità scientifica permetteranno inoltre di individuare tempestivamente eventuali mutazioni pericolose.

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Fonte: IZS Venezie




Le carcasse di cinghiali: attrazione alla necrofagia e potenziale contaminante sul terreno del virus della PSA

cinghialell cinghiale (Sus scrofa) è una specie animale sociale originaria dell’Eurasia. Durante l’ultimo decennio, la popolazione di cinghiali in Estonia è stata gravemente colpita dal virus della peste suina africana (PSA/ ASFV), che ha colpito anche l’allevamento di suini domestici. Le potenziali vie di trasmissione della PSA rimangono poco chiare e sono attualmente oggetto di indagini approfondite. Questo studio pilota mirava a chiarire la frequenza e le caratteristiche dei contatti tra cinghiali vivi e le carcasse dei loro conspecifici, che potrebbero svolgere un ruolo nella trasmissione della PSA. Il contatto degli animali selvatici ed il comportamento del grufolare sulle carcasse di cinghiali è stato studiato utilizzando telecamere da trail in un ambiente sperimentale a Hiiumaa, nell’Estonia occidentale.

Materiali e Metodi: Nel presente studio sono state utilizzate 4 carcasse cacciate legalmente. Questo studio mirava a determinare il cannibalismo intraspecie che avviene con i cinghiali. La persistenza del DNA del virus della PSA nel suolo contaminato da carcasse di cinghiali infette è stata studiata separatamente.

Risultati: Tra le 17 specie faunistiche identificate che hanno visitato le carcasse di cinghiali, il corvo imperiale (Corvus corax) è stato quello più frequente (37,26%), seguito dai cani procione (Nyctereutes procyonoides; 4,25%), cinghiali (3,16%) e volpi rosse (Vulpes vulpes; 2,14%). Per quanto riguarda il contatto diretto con la carcassa, è stata rilevata la stessa classifica delle specie: corvo imperiale (74,95%), cani procione (9,94%), cinghiali (4,21%) e volpi rosse (4,21%). Tra i cinghiali non sono stati notati chiari segni di cannibalismo, anche se era evidente un breve contatto fisico con le carcasse. La persistenza del DNA del virus della PSA nel suolo contaminato da carcasse di cinghiali infette è stata studiata separatamente.

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Fonte:3tre3.it




Influenza aviaria nei bovini, WOAH: situazione rischiosa, importante la sorveglianza

Le recenti notizie di casi di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) nei bovini da latte e in un essere umano negli Stati Uniti, e la diffusione della malattia in diverse regioni del mondo, hanno sollevato preoccupazioni all’interno della comunità internazionale. Secondo la World Organisation for Animal Health (WOAH) questo potrebbe indicare un aumento del rischio che i virus H5N1 si adattino meglio ai mammiferi e potenzialmente si diffondano all’uomo.

La WOAH (World Organisation for Animal Health), un’organizzazione intergovernativa che ha come obiettivo la diffusione delle informazioni sulle malattie animali, ha fatto il punto in un comunicato stampa sui casi confermati di Influenza Aviaria ad Alta Patogenicità (HPAI) nei bovini che stanno suscitando preoccupazioni all’interno della comunità internazionale.

Sebbene l’HPAI colpisca principalmente avicoli e uccelli selvatici, l’influenza aviaria può occasionalmente essere trasmessa ai mammiferi, compresi gli esseri umani. Negli ultimi due anni, è stato segnalato un numero crescente di casi di influenza aviaria H5N1 in animali terrestri e acquatici.

Le recenti segnalazioni di HPAI nei bovini da latte negli Stati Uniti d’America, che mostrano segni clinici come la riduzione della lattazione, riduzione dell’appetito, letargia, febbre e disidratazione, hanno destato preoccupazioni poiché tali infezioni del bestiame potrebbero, secondo l’organizzazione, indicare un aumentato rischio che i virus H5N1 si adattino meglio ai mammiferi e potenzialmente si trasferiscano agli esseri umani e ad altri animali da allevamento.

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Fonte: ruminantia




La lotta veterinaria alla tubercolosi

La tubercolosi è una malattia , che prima dell’avvento degli antibiotici, ha portato a morte diversi uomini. Oggi non è più così grazie all’uso degli antibiotici, anche se esistono forme resistenti ai trattamenti d’elezione.

Per gli animali, non esistendo il problema etico e valutando esclusivamente il paradigma costo/beneficio non si procede mai alla cura  in caso di positività, ma all’eliminazione dell’animale infetto.

Da sempre l’obiettivo  primario della Sanità Animale è il raggiungimento ed il mantenimento dello status di indenne dalla tubercolosi degli allevamenti bovini del nostro territorio.

Esistono tutte le armi ed i possibili mezzi per sovrastare la diffusione di questo batterio. I  programmi di sorveglianza ed eradicazione applicano misure di controllo drastiche in risposta a casi sospetti e/o confermati con divieto di movimentazione  ed abbattimento dei capi sospetti o positivi fino anche allo stamping out, valutando di volta in volta il destino delle carni.

I metodi diagnostici, conformi alla normativa europea, si basano sull’IDT ( intradermoreazione) ed anche l’IDT comparativa per conferma di casi sospetti  e poi c’è il gamma interferon. Attualmente la stella nascente in diagnostica è proprio il gamma interferon. In lui si confidano capacità predittive , che rilevino prodromicamente situazioni ancora quiescenti e non altrimenti rilevabili, passando poi la palla al veterinario del mattatoio, che dovrà individuare impercettibili granuli miliari nei parenchimi. Siamo ancora ai primi passi.

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Fonte: Vesa Marche




I Pfas vengono riemessi nell’aria dalle onde oceaniche

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Stoccolma ha scoperto che i Pfas vengono riemessi nell’aria dalle onde oceaniche con una frequenza maggiore rispetto a quanto si pensasse.

Lo studio, pubblicato su Science Advances, mette in discussione l’idea che mari e oceani diluiscano i PFAS che arrivano dai fiumi, asserendo invece che spingano queste sostanze di nuovo verso riva. I livelli di riemissione dovuti alla risacca, stima lo studio, possono essere paragonabili o superiori a quelli di altre fonti.

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Fonte: fosan.org




Granchio blu, da minaccia a risorsa alimentare

Il granchio blu atlantico (Callinectes sapidus) è una specie cosiddetta “aliena” per il territorio europeo, introdotta al di fuori del suo areale naturale di distribuzione (la costa occidentale dell’oceano Atlantico). La sua capacità di adattamento all’ambiente, l’elevata fecondità e capacità di dispersione, le grandi dimensioni e il comportamento aggressivo lo rendono una specie ad alto potenziale invasivo. Sebbene la sua presenza sia stata riportata nel Mediterraneo a partire dalla seconda metà del secolo scorso, questa specie ha provocato recentemente importanti impatti negativi ai settori della pesca e dell’acquacoltura italiana.

A partire dall’estate del 2023 le attività di venericoltura delle zone del Delta del Po sono state compromesse dall’aumento consistente di questo crostaceo e dalla sua attività di predazione nei confronti di molluschi bivalvi fossori, causando ingenti perdite nell’allevamento delle vongole veraci filippine (Ruditapes philippinarum) e il quasi totale blocco di un settore in cui l’Italia vanta il primato europeo. In questo contesto il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (MASAF), ha deciso di avviare delle attività di studio per la valutazione di strategie di contenimento, raccolta e immissione sul mercato del granchio blu.

Infatti, se da un lato la presenza di questo crostaceo rappresenta una grave minaccia per la molluschicoltura italiana, dall’altra, almeno fino a quando non verrà ripristinato un equilibrio tra popolazione di molluschi e granchio blu, è una potenziale risorsa proteica da poter sfruttare ai fini alimentari, sia per consumo umano che come materia prima per la produzione di farine ad uso zootecnico, per l’industria del pet food o per l’estrazione di chitina/chitosano.

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Fonte: IZS Venezie