Influenza aviaria in Friuli Venezia Giulia, il ruolo dei cacciatori nella sorveglianza attiva

Un esempio di integrazione fra sorveglianza attiva e passiva negli uccelli selvatici grazie alla collaborazione con i cacciatori

La collaborazione tra autorità sanitarie pubbliche e mondo venatorio rappresenta un elemento chiave nelle attività di sorveglianza dell’influenza aviaria negli uccelli selvatici. L’Italia rappresenta una rotta privilegiata per gli uccelli migratori e un luogo importante di svernamento per molte specie di volatili acquatici, con potenziali risvolti sanitari sugli allevamenti avicoli e sulla salute dell’uomo. La collaborazione con i cacciatori può essere utile in fase di sorveglianza attiva per intercettare precocemente i segnali di rischio sanitario, contribuendo in modo concreto alla tutela della salute animale e pubblica.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate nel 2024 in Friuli Venezia Giulia 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1. È stata inoltre organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria. Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di campionare 466 animali, evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati.

Nell’ambito della sorveglianza passiva dell’avifauna nel 2024 prevista nel Piano nazionale di sorveglianza per l’influenza aviaria, sono state registrate in Friuli Venezia Giulia complessivamente 16 positività per virus ad alta patogenicità H5N1.

I casi hanno riguardato esemplari di cigno reale (9), oca selvatica (2), canapiglia (1), fenicottero (1), garzetta (1), poiana (1) e volpoca (1). Un gabbiano comune è risultato invece positivo per un virus a bassa patogenicità (LPAI). Queste attività sono state svolte in collaborazione con le Aziende sanitarie locali, Servizio recupero fauna, Corpo Forestale Regionale e Centri di recupero della fauna selvatica

Per questo motivo in Friuli Venezia Giulia nel 2024 è stata organizzata anche un’attività di sorveglianza attiva, grazie alla collaborazione dei cacciatori, per verificare il livello di diffusione di virus influenzali aviari in esemplari di anatidi abbattuti durante la stagione venatoria, integrando in tal modo i risultati della sorveglianza passiva.

Il campionamento attivo negli anatidi selvatici ha consentito di approfondire le conoscenze sulla diffusione dei virus influenzali evidenziando la presenza di H5N1 HPAI nel 13,2% dei campioni analizzati (71 positivi su 466 animali campionati, nelle province di Udine e Gorizia), con una diffusione particolarmente elevata nei fischioni (positività del 21,4%), seguiti da alzavola (8%) e germano reale (5,6%).

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Fonte: IZS Venezie




Trentino: femmine di orso accompagnate dai piccoli, online la nuova mappa con le segnalazioni

E‘ online da oggi la nuova mappa che raccoglie le segnalazioni di presenza delle femmine di orso accompagnate dai piccoli nati in inverno. Come di consueto, i primi avvistamenti dei gruppi familiari da parte del personale forestale e degli escursionisti avvengono proprio nel corso del mese di maggio.
La mappa sul sito Grandicarnivori.provincia.tn.it è aggiornata dal Servizio Faunistico della Provincia autonoma di Trento in base alle informazioni raccolte e verificate e rappresenta un servizio informativo importante per frequentare la montagna con la necessaria consapevolezza. In tutte le aree del Trentino occidentale è fondamentale segnalare ai selvatici la propria presenza facendo rumore e seguendo le diverse regole di comportamento approvate dagli esperti a livello internazionale. È inoltre importante ricordarsi di tenere il proprio cane al guinzaglio.

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Fonte: grandicarnivori.provincia.tn.it




Perdite e sprechi alimentari in Europa, il rapporto biennale di EEA

L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) ha pubblicato il suo rapporto biennale 2025 ‘Preventing waste in Europe: Progress and challenges, with a focus on food waste‘ che si sofferma in particolare sulla prevenzione delle perdite e degli sprechi alimentari.

Questa analisi esamina lo stato attuale della gestione di ‘food loss and waste’ (FLW), i problemi di monitoraggio e gli approcci politici nei 27 stati membri dell’UE. Il rapporto EEA conferma infatti la criticità della situazione, ove le sfide ancora superano i progressi.

Introduzione: la portata del problema delle perdite e degli sprechi alimentari (FLW)

Ai sensi della Direttiva Quadro sui Rifiuti (WFD) 2008/98/CE (modificata nel 2018), l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) ha il mandato di valutare i progressi nella prevenzione dei rifiuti in tutta l’UE. Una priorità chiave è affrontare le perdite e gli sprechi alimentari (FLW), che ammontano in media a 132 kg pro capite all’anno—con le famiglie che contribuiscono per il 55–56% di questo totale. Tuttavia, la rendicontazione incoerente da parte degli Stati membri complica un monitoraggio accurato, sottolineando la necessità di un maggiore allineamento delle politiche.

FLW non è solo una questione di gestione dei rifiuti, ma una sfida sistemica. Rappresenta il 16% delle emissioni di gas serra (GHG) del sistema alimentare dell’UE e aggrava la perdita di biodiversità guidando l’estrazione inutile di risorse e l’uso del territorio. Come sottolinea l’EEA, ridurre FLW può ridurre le emissioni preservando allo stesso tempo gli ecosistemi degradati dall’espansione agricola. Tuttavia, le politiche attuali—come gli obiettivi di riciclaggio che incentivano la deviazione del cibo commestibile verso il biogas—spesso entrano in conflitto con obiettivi di gerarchia dei rifiuti di livello superiore, rivelando lacune critiche nella coerenza.

Stato attuale delle perdite e degli sprechi alimentari in Europa

La distribuzione delle perdite e degli sprechi alimentari lungo la filiera rivela dove gli interventi sono più urgentemente necessari: questo riflette la prospettiva attuale dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, basata su dati ancora approssimativi e in evoluzione.

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Gonte: foodtimes.eu




Il ruolo dei piccioni nella diffusione dell’influenza aviaria: l’ultima scoperta

Negli spazi urbani di tutta Europa, i piccioni rappresentano una presenza onnipresente, spesso trascurata. Tuttavia, al di là del loro ruolo o delle problematiche logistiche che generano, questi uccelli si stanno rivelando attori inaspettati in una delle più preoccupanti questioni di sanità pubblica globale: la diffusione del virus dell’influenza aviaria.

 Sebbene non siano uccelli migratori e non mostrino sintomi clinici evidenti in caso di infezione, studi recenti hanno documentato in maniera sempre più chiara come i piccioni possano ospitare e trasportare diversi sottotipi di virus aviari fungendo da vettori silenziosi e da potenziali “vasi di mescolanza” genetica che possono giocare un ruolo non trascurabile nell’epidemiologia. La loro presenza ubiquitaria in ambienti urbani e la frequente interazione con altri animali e con l’uomo li rendono un possibile “anello di congiunzione” tra diverse specie ospiti. E la conferma della presenza del virus H5N1 ad alta patogenicità nei piccioni europei non è una buona notizia.

Il pregiudizio dell’immunità urbana

Nel 2006, nel pieno dell’emergenza H5N1, si diffuse rapidamente l’idea che i piccioni fossero “immuni” all’influenza aviaria. Articoli divulgativi, come quello pubblicato su Seed Magazine con il titolo The Invincible, Flu-Immune Pigeon, minimizzavano i rischi, rafforzati da alcune evidenze scientifiche dell’epoca. Tuttavia, lo scenario ha subito un cambiamento radicale. Il virus Hpai H5 ha evoluto nuovi cladi, con una più ampia gamma di ospiti e una maggiore capacità di adattamento interspecie. Uno studio pubblicato su Viruses in questi giorni ha rilevato la presenza di ben 658 ceppi di virus aviari nei piccioni, tra cui 71 appartenenti al sottotipo H5, tutti classificati come altamente patogeni.

Fonte: lastampa.it



Gli impatti del cambiamento climatico portano a una maggiore esposizione alle micotossine

Cambiamenti climaticiSecondo un documento pubblicato in questi giorni dall’Agenzia Europea dell’Ambiente (AEA), l’innalzamento delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici sta aumentando il rischio di esposizione umana alle micotossine, tossine naturali prodotte da funghi presenti in alcuni alimenti, mangimi e colture.

Il clima più caldo e umido riscontrato in tutte le regioni europee sta infatti favorendo una maggiore prevalenza di queste micotossine di origine fungina che possono danneggiare la salute.

Il rapporto dell’EEA “Esposizione alle micotossine in un clima europeo in evoluzione esamina le problematiche sanitarie associate alle micotossine, in particolare il loro impatto sulle colture alimentari e come un approccio europeo più coordinato possa contribuire a contrastarne la diffusione e a prevenirne la contaminazione.

Rischi per la salute 

Le micotossine, composti nocivi prodotti naturalmente dai funghi, rappresentano rischi significativi per la salute. Le tossine fungine possono alterare gli ormoni, indebolire il sistema immunitario, danneggiare fegato e reni, aumentare il rischio di aborto spontaneo, danneggiare il feto e agire come cancerogeni.

Le prove suggeriscono che alcuni gruppi potrebbero essere maggiormente a rischio di esposizione alle micotossine. I bambini piccoli (1-3 anni) e i neonati (sotto i 12 mesi) sono particolarmente vulnerabili a causa del loro maggiore apporto alimentare rispetto al peso corporeo, così come le donne in gravidanza e i lavoratori del settore agricolo, alimentare e mangimistico.

Secondo il  progetto europeo di biomonitoraggio chimico umano HBM4EUil 14% della popolazione adulta europea è esposta alla micotossina deossinivalenolo (DON) a livelli considerati dannosi per la salute umana. Questa particolare micotossina, il DON, si trova spesso naturalmente nel grano, nel mais e nell’orzo nelle regioni temperate.

Le persone sono esposte a queste tossine mangiando alimenti contaminati (in particolare cereali e prodotti che li contengono, come pane o pasta). Lavare e cuocere questi alimenti non rimuove necessariamente le micotossine. Questo è particolarmente problematico perché alcuni dei funghi che producono micotossine non sono visibili né rilevabili tramite odore o sapore. Altre vie di esposizione sono l’acqua potabile contaminata da scarichi agricoli, e l’inalazione e l’assorbimento cutaneo per le persone che lavorano con le colture o gli alimenti contaminati.

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Fonte: Ruminantia.it




Predazione del bestiame da parte dei lupi nell’Italia nord-orientale: una network analysis sui fattori ambientali

La valutazione dell’entità dei conflitti che coinvolgono i grandi carnivori (di seguito “carnivori”) e gli allevamenti rappresenta una delle principali sfide che gli agricoltori, gli ecologi e i responsabili delle politiche ambientali devono affrontare oggi. I conflitti tra uomo e carnivori riguardano principalmente le predazioni di bestiame e possono essere attribuiti a vari fattori, tra cui la competizione interspecifica tra carnivori che condividono gli stessi habitat, il loro comportamento alimentare e gli ampi home-ranges, gli interventi di gestione e la perdita e/o la frammentazione degli habitat.

Sebbene i carnivori non abitino in modo permanente le aree densamente popolate dall’uomo, hanno dimostrato la capacità di ricolonizzare territori con densità umane moderate e di persistere in paesaggi frammentati (ad esempio, foreste mescolate all’agricoltura) o in prossimità di strutture umane.

Di conseguenza, in queste aree è più probabile che si verifichino conflitti con l’uomo. I grandi predatori svolgono un ruolo fondamentale nell’ecosistema, ad esempio regolando l’abbondanza di altre specie attraverso effetti ecologici top-down nella catena alimentare. Tuttavia, gli attacchi al bestiame rappresentano una minaccia significativa per la sicurezza economica degli allevatori che si basano principalmente sulle pratiche di pascolo, il che contribuisce a creare una radicata ostilità nei confronti dei carnivori.

Il lupo grigio Canis lupus (di seguito, lupo) è il grande predatore più abbondante in Italia. La specie è stata estirpata dalle Alpi nei primi due decenni del XX secolo e, per decenni, è rimasta confinata nell’area meridionale del fiume Po, con una piccola popolazione sopravvissuta nell’Appennino centrale.
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Fonte:  ASSAP.org



IZSVe, Laboratorio di referenza europeo per l’Aviaria: in Italia situazione sotto controllo, criticità in Polonia e Ungheria

In Italia l’ultimo report relativo all’influenza aviaria segnalava, a partire da settembre 2024, 97 focolai tra gli uccelli selvatici, 56 per quanto riguarda il pollame domestico e 3 focolai tra i mammiferi. Negli ultimi mesi, da febbraio 2025, si è registrato un unico focolaio in un allevamento di polli in Piemonte, e 5 isolamenti in uccelli selvatici, tutti limitati al mese di febbraio.

Una situazione di fatto sotto controllo, frutto di un lavoro sinergico tra Ministeri, Istituti Zooprofilattici, autorità sanitarie competenti e comparto avicolo. Nel resto d’Europa le condizioni purtroppo non sono le stesse.

Sempre nel periodo ottobre 2024-marzo 2025, nel Vecchio Continente il totale dei focolai è salito a 1.500, di cui 934 tra gli uccelli selvatici e 566 tra gli allevamenti, in 34 Paesi diversi. Gli stati maggiormente colpiti sono Germania e Paesi Bassi, per i volatili selvatici, mentre Polonia e Ungheria per quanto riguarda gli allevamenti. Difficile anche la situazione negli Stati Uniti, dove la malattia si è diffusa anche tra i bovini con oltre un migliaio di focolai attivi. Qui il prezzo delle uova, per riflesso condizionato, è volato alle stelle.

“Queste situazioni di criticità – precisa Antonia Ricci, Direttrice Generale dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie dove ha sede il Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria – sono sicuramente allarmanti e da tenere sotto stretto monitoraggio. Dimostrano come questa sia una malattia molto pericolosa per gli animali e che si diffonde con una rapidità enorme.”

“Se non si è pronti a mettere in atto misure di controllo e contenimento efficaci la malattia diventa ingovernabile. In Italia abbiamo – purtroppo – un’esperienza di molti anni in questo campo, che ci permette di intervenire prontamente, lavorando in collaborazione con il Ministero della Salute e le autorità regionali, e che ci ha fatto diventare un riferimento a livello internazionale, non solo per l’Europa ma anche per l’Organizzazione mondiale della salute animale (WOAH) e per la FAO. La prossima settimana un team di nostri esperti sarà proprio in Polonia per aiutare i colleghi polacchi a controllare la diffusione della malattia.”

“È fondamentale ricordare – continua Ricci – che non c’è nessun rischio di trasmissione del virus attraverso il consumo di carne e di uova. È un virus che può diventare potenzialmente pericoloso per l’uomo attraverso la trasmissione respiratoria ma ad oggi non abbiamo evidenza che questo salto di specie stia avvenendo.”

“In Italia opera un’industria avicola molto sviluppata, moderna e autosufficiente Nel nostro paese produciamo più carne di pollo di quanta ne viene consumata e dunque non c’è l’esigenza di importare. L’industria avicola nel corso del tempo ha saputo rispondere alle numerose sfide dal punto di vista sanitario, per esempio riducendo drasticamente l’uso di antibiotici, diventando dunque un modello anche per gli altri Paesi.”

“Su mandato del Ministero della Salute e assieme al comparto industriale, al Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, agli Istituti Zooprofilattici e alle istituzioni sanitarie locali e regionali – conclude Ricci – stiamo lavorando a un piano strategico nazionale per il controllo dell’influenza aviaria che possa prevedere anche la vaccinazione come strumento di prevenzione, insieme a tutte le altre misure che abbiamo visto essere efficaci per il controllo della malattia.”

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Una tecnica per individuare il miele adulterato

L’Ente italiano di Normazione (UNI) ha da poco pubblicato la norma UNI 11972:2025 Miele, che  fornisce un metodo analitico basato sulla tecnica spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR) in alta risoluzione per identificare marker specifici di tre adulteranti saccaridici maggiormente utilizzati per diluire il miele: inulina, zucchero invertito e sciroppo di mais/malto. La pubblicazione della norma segna un importante traguardo per il riconoscimento ufficiale delle tecniche NMR in campo giuridico.

A mettere a punto la tecnica per questo specifico ambito, il Gruppo di lavoro “GL 23-autenticità degli alimenti” istituito nell’ambito dell’accordo di collaborazione attivo tra Cnr e UNI, che prevede – tra le altre cose- la partecipazione di ricercatori dell’Ente ad attività di normazione tecnica. Project Leader del Gruppo, è Roberto Consonni dell’Istituto di scienze e tecnologie chimiche “Giulio Natta” del Cnr di Milano (Cnr-Scitec), che spiega: “Il miele, come altri prodotti alimentari di pregio, rappresenta un target per l’adulterazione al fine di ottenere maggiori profitti; inoltre, in questi ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, le quantità di miele risultano fortemente ridotte. Analisi internazionali – come un recente “technical report” del JRC – hanno fornito segnali allarmanti, affermando che quasi la metà del miele importato in Europa da differenti nazioni europee ed extraeuropee non è conforme alla direttiva europea 2001/110/EC, che definisce gli standard qualitativi minimi per il miele per uso alimentare: è, cioè, da considerarsi adulterato”.

L’adulterazione più diffusa consiste nella diluizione di miele autentico con sciroppi saccaridici di diversa origine vegetale a basso costo, con composizione complessa e di difficile identificazione.

Oggi, grazie alla tecnica NMR, è possibile identificare e quantificare selettivamente dei segnali specifici per ogni tipo di adulterante saccaridico considerato nello studio. In pratica si osservano dei marker specifici presenti in concentrazioni elevate nei campioni di miele adulterati artificialmente.

“La tecnica è stata testata su tre varietà botaniche di miele, in particolare miele di castagno, millefiori ed acacia con i tre adulteranti saccaridici. Presso il laboratorio NMR di Cnr-Scitec è stato messo a punto un protocollo analitico per la preparazione dei campioni, l’acquisizione dei dati NMR ed il processing dei dati ottenuti dalle misure eseguite. Questo protocollo, che ha testato l’adulterazione dei campioni di miele autentico con ciascuno dei tre adulteranti in percentuali dal 10% al 30% in peso  è stato condiviso con diversi laboratori nazionali di enti di ricerca diversi, che hanno analizzato gli stessi campioni e validato il metodo.

Il Gruppo di lavoro ha coinvolto, oltre a studiosi del Cnr-Scitec, anche colleghi e colleghe di altri Istituti Cnr – l’Istituto di chimica biomolecolare (Cnr-Icb) e l’Istituto per i sistemi biologici (Cnr-Isb)- e di altre istituzioni quali la Fondazione Edmund Mach, l’Università degli Studi di Milano,  l’Università di Parma, il Politecnico di Bari, l’Università del Salento, l’Università di Modena e Reggio Emilia e l’Università di Padova.

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Fonte: CNR




Dengue e cambiamenti climatici

Un recente articolo pubblicato dal BMJ della giornalista freelance Kamala Thiagarajan offre un’analisi approfondita dell’impatto della dengue a livello globale, evidenziando il 2024 come un anno critico per questa malattia, aggravato dal record di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1).  La dengue, trasmessa dalle zanzare Aedes aegypti e Aedes albopictus, è una crescente minaccia sanitaria globale. Nel 2024 sono stati registrati oltre 12 milioni di casi e 8.000 decessi in 86 paesi (2). Un incremento che riflette l’intreccio tra cambiamento climatico, urbanizzazione e disuguaglianze socioeconomiche. Partendo dall’articolo di Thiagarajan, presentiamo un’analisi generale dell’impatto del clima sulla diffusione della dengue, come di altre malattie trasmesse da vettori, l’efficacia delle politiche di prevenzione e trattamento, e le implicazioni economiche e politiche che influenzano la gestione di queste minacce sanitarie nell’era del cambiamento climatico.

La diffusione globale della dengue: dati e tendenze

Negli ultimi decenni, le malattie trasmesse da zanzare hanno registrato un aumento significativo, spinto da cambiamenti climatici, urbanizzazione e mobilità umana. Il Lancet Countdown on Health and Climate Change del 2023 (3) evidenzia che il cambiamento climatico ha aumentato del 30% la diffusione della dengue negli ultimi vent’anni, con implicazioni simili per altre malattie come Zika, Chikungunya e malaria. Secondo il BMJ,  le Americhe hanno visto un incremento allarmante dei casi di dengue: 9,7 milioni di infezioni nel 2024, oltre il doppio rispetto ai 4,6 milioni del 2023 (Fig. 1). Dal 1990, i casi di dengue sono raddoppiati ogni decennio, mettendo a rischio quasi la metà della popolazione mondiale. Confrontando i decenni 1951-1960 e il 2013-2022, il tasso di riproduzione base (R0) della dengue è aumentato del 28% per Aedes aegypti e del 27% per Aedes albopictus, con un allungamento della stagione di trasmissione dal 13% al 15%. Questo aumento preoccupante si riflette anche nelle proiezioni future che, sempre nelle Americhe, indicano che entro il 2039 la malattia potrebbe interessare il 97% dei comuni in Brasile e il 91% in Messico, coinvolgendo grandi città densamente popolate come Città del Messico e Porto Alegre. Anche in Asia la situazione è allarmante, in India, che rappresenterebbe un terzo del carico globale di dengue, modelli epidemiologici stimerebbero 33 milioni di casi clinicamente evidenti ogni anno (4). Tuttavia, il governo ha riportato ufficialmente solo 157.325 casi dal 2019, segnalando una drammatica sottostima che complica, tra le altre cose, la pianificazione sanitaria.

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Fonte: saluteinternazionale.info




Comprendere il disagio degli animali

In quanto problema ampiamente riconosciuto che ne compromette il benessere, il disagio degli animali viene spesso menzionato nella ricerca, nella legislazione e nelle linee guida etiche; ciononostante, il modo in cui viene definito in questi documenti è vago e incoerente, il che ne rende difficile la quantificazione e complica l’allineamento degli standard etici in ambito di ricerca. Inoltre, fa sì che sia difficile valutare oggettivamente il benessere animale. Per contribuire a colmare queste lacune, il progetto PIGWEB, finanziato dall’UE, hapubblicato un documento programmatico a sostegno dell’impiego di una definizione standardizzata di disagio degli animali in diverse specie, contesti e discipline.

Definire il disagio animale

L’identificazione del disagio è un passo fondamentale per soddisfare la crescente domanda di una produzione zootecnica più sostenibile, nonché orientata al benessere. Utilizzando il maiale domestico come modello, i ricercatori attivi in PIGWEB hanno effettuato un’analisi concettuale per giungere alla seguente definizione di disagio animale: «stato affettivo negativo di breve o lunga durata caratterizzato da componenti fisiche, fisiologiche e/o mentali, indotto da stimoli interni o esterni e di entità da lieve a grave, che può verificarsi insieme ad altri stati affettivi negativi e che porta a evitare o a cercare di alleviare la fonte del malessere». Il team ha analizzato un totale di 118 documenti rilevanti pubblicati in inglese che definivano e/o misuravano il disagio in suini e altre tipologie di animali. Descritta in dettaglio in uno studio pubblicato sulla rivista «Livestock Science», l’analisi ha rivelato che il disagio degli animali presenta tre campi di ramificazione, ovvero di tipo fisico e sensoriale causato da ferite, lesioni, rumori forti, temperature estreme e odori forti; di tipo fisiologico provocato da squilibri metabolici, infezioni e carenze nutritive; e infine di tipo mentale come ansia, paura, frustrazione o noia.

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Fonte: Commissione Europea