A proposito del nuovo coronavirus cinese, un nuovo contributo del Prof. Di Guardo
I prestigiosi Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta hanno dichiarato già da diversi anni che le “malattie infettive emergenti” sarebbero causate per il 60-70% da agenti biologici a dimostrato o sospetto potenziale zoonosico, vale a dire capaci di attuare il cosiddetto “salto di specie” da animale a uomo.
Non costituirebbe un’eccezione alla sopra citata premessa anche il nuovo coronavirus cinese, noto con l’acronimo “2019-nCoV” (“2019-novel CoronaVirus”) e che è stato appena innalzato a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) al livello di “minaccia ad elevato rischio globale”, avendo finora causato in Cina oltre 400 decessi.
Da due diverse specie di serpenti velenosi presenti ed impiegati a scopo alimentare in Cina, infatti, il virus 2019-nCoV sarebbe passato agli esseri umani, previa “ricombinazione genetica” con un altro coronavirus proveniente dai pipistrelli.
Tale ipotesi, tuttavia, alimenta seri dubbi all’interno della Comunità Scientifica, visto e considerato che i rettili non sarebbero suscettibili ai coronavirus, diversamente da mammiferi e volatili. In ogni caso, sembra più che plausibile che il caso o i casi iniziali d’infezione da 2019-nCoV abbiano avuto origine da un “serbatoio” animale, analogamente ai due coronavirus della SARS e della MERS, che avrebbero compiuto il famigerato “salto di specie” passando rispettivamente all’uomo dai pipistrelli e da cammelli e dromedari.
Come normalmente avviene per tutte le infezioni da virus respiratori, la trasmissione del contagio da pazienti infetti a individui sani si realizza a seguito di stretti, prolungati e/o reiterati contatti fra gli uni e gli altri.
Ciò rende facilmente comprensibile come proprio nella Repubblica Popolare Cinese possa aver avuto la propria culla d’origine (anche) quest’ultima epidemia, che al pari di tutte le altre causate da virus respiratori – influenzavirus e coronavirus della SARS, tanto per citare due esempi eloquenti – avrebbe “beneficiato” di una serie di condizioni “ottimali”, rappresentate per l’appunto dall’eccessiva densità demografica umana e animale, dall’elevata promiscuità uomini-animali, nonché da certi stili di vita e abitudini alimentari. Queste avrebbero agito come fattori in grado di “metter le ali” al virus 2019-nCoV, alla medesima stregua di quanto già fatto nel caso dei virus influenzali e della SARS.
Per quanto poi concerne le misure “draconiane” adottate dalle Autorità Sanitarie Cinesi ai fini del contenimento del virus 2019-nCoV, che ha già fatto registrare casi d’infezione non soltanto in diversi Paesi Asiatici, ma anche in Australia, in Nord America ed in Europa, penso che le stesse siano da ritenersi particolarmente adeguate, al pari di quelle messe in campo (anche) nel nostro Paese. Facendo opportuno riferimento, in proposito, all’ineludibile premessa della “Scienza basata sull’evidenza”, è bene sottolineare che, allorquando ci si confronti con qualsivoglia “minaccia per la salute pubblica” – come nel caso di questo nuovo coronavirus, nei cui confronti un vaccino potrebbe esser disponibile non prima di diversi mesi -, ed in attesa che la Comunità Scientifica ne possa delineare con precisione e con i “tempi di manovra” all’uopo necessari (!!!) i relativi caratteri e contorni, dovrebbe scendere prepotentemente in campo il cosiddetto “principio di precauzione” (di cui si è fatta grande, imperitura memoria con la drammatica epidemia di “morbo della mucca pazza”), il cui fine primo e ultimo è quello, per l’appunto, di limitare quanto più possibile o, per meglio dire, far tendere “a zero” il rischio di esposizione umana.
Giovanni Di Guardo
Docente di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Teramo
La Commissione europea ha pubblicato un
Il gruppo di lavoro sulla sicurezza alimentare e la sezione EASVO di FVE – Federazione dei Veterinari Europei hanno lanciato un indagine per acquisire, in forma anonima, informazioni relative alla vita lavorativa, alla retribuzione, alla soddisfazione e al benessere dei veterinari ufficiali impiegati dalle autorità competenti.
Cosa e quanto sprechiamo a tavola? E’ possibile fare un identikit degli “spreconi”? E come agire per prevenire efficacemente lo spreco? Di questo si è discusso in occasione della II edizione della giornata della nutrizione “Nutrinformarsi: lo spreco nel piatto” organizzata dal CREA Alimenti e Nutrizione, presso cui è istituito l’Osservatorio sulle eccedenze, recuperi e sprechi alimentari, che realizza studi scientifici, diffonde informazioni e dati e promuove buone pratiche sulla generazione di eccedenze alimentari e sul loro recupero, allo scopo di stimolare innovazione nelle strategie, nelle politiche e nei comportamenti dei cittadini.
Il nuovo rapporto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) offre approfondimenti sulle quantità e sulle cause delle perdite alimentari nelle diverse fasi della filiera alimentare, sollecitando scelte consapevoli per la loro effettiva riduzione e segnalando nuove metodologie per monitorarne i progressi.
E pubblicato sull Gazzetta Ufficiale del 26 agosto 2018 il decreto del Ministero della Salute “
In Italia, nel 2018, le percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici per gli otto patogeni sotto sorveglianza (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species) si mantengono più alte rispetto alla media europea, pur nell’ambito di un trend in calo rispetto agli anni precedenti.
Uno studio filogenetico basato sul confronto delle sequenze del gene mitocondriale della citocromo ossidasi I (cox1) di esemplari raccolti in Italia di Vespa velutina, calabrone dalle zampe gialle originario delle aree tropicali e subtropicali del sud-est asiatico, ha permesso di appurare che questi provengono dalla diffusione verso sud di una popolazione stabilitasi in Francia. È quanto emerge da una ricerca condotta dal Centro di referenza nazionale per l’apicoltura dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) in collaborazione con il Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione (BCA) dell’Università di Padova, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Biological Invasions.