Selvatici o domestici? Il confine tra cattività e domesticazione

Il commercio di animali esotici venduti come pet, animali d’affezione, sembra essere in perenne crescita e, alimentato anche dai social media, vede anche di continuo nuove specie che si aggiungono alla lista di quelle in voga, dai galagidi ai gufi. In alcuni casi, questi animali vanno anche incontro a un processo di selezione da parte degli allevatori, che li incrociano per ottenere determinate caratteristiche dal punto di vista estetico: ne sono un esempio i pitoni, commerciati in diversi morph, con colorazioni e pattern delle squame differenti.

La letteratura scientifica ha ampiamente sottolineato i rischi del commercio di animali esotici, che vanno dalla diffusione di specie aliene invasive (nel caso di abbandoni volontari o fughe involontarie) al contrabbando, fino alle minacce, in alcuni casi, per la conservazione delle specie. Ma c’è un altro aspetto sul quale vale la pena riflettere tenendo in considerazione i dati scientifici: possiamo iniziare a considerare questi animali come domestici, magari in virtù di una lunga storia di detenzione come animali d’affezione o della selezione genetica nell’allevamento?

Un animale nato in cattività, cresciuto con l’essere umano, che non lo teme ed è confidente, magari figlio e nipote di animali nati in cattività, non è automaticamente un animale domestico. La domesticazione è qualcosa di ben diverso dalla confidenza con la nostra specie: è un processo lungo centinaia o più spesso migliaia di anni e relativo numero di generazioni, sulle quali da un lato ha agito in modo più o meno deliberato l’essere umano, scegliendo certi animali ed escludendo gli altri, in base alle caratteristiche che di volta in volta gli venivano utili (docilità, tasso riproduttivo, dimensioni, velocità di crescita eccetera).

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Fonte: scienzainrete.it




Primo caso di Trichinella spiralis in un lupo nella provincia di Rieti

Presso il laboratorio della sezione di Rieti del nostro Istituto, è stata confermata la positività per Trichinella sp. in un lupo trovato morto in provincia di Rieti nel luglio 2024. Le larve di Trichinella sono state identificate tramite microscopia ottica, a seguito della digestione artificiale di un campione di muscolo tibiale craniale.
L’identificazione molecolare delle larve isolate, eseguita presso il Laboratorio Europeo di Riferimento per i Parassiti dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), ha evidenziato un’infestazione mista da Trichinella spiralis e Trichinella britovi.
Questa è la prima segnalazione della specie T. spiralis nella fauna selvatica nel Centro Italia, la seconda in Italia nell’ultimo decennio, dopo il caso di una volpe in Emilia-Romagna nel 2016.
Negli ultimi due anni, nella provincia di Rieti sono state registrate altre otto positività: quattro nei cinghiali e quattro nei lupi. In sei di questi, l’identificazione di specie effettuata dall’ISS ha confermato la presenza di T. britovi.
Tra i parassiti del genere Trichinella, T. spiralis è la specie più frequentemente associata a casi di malattia nell’uomo in Europa, ed è nota per causare sintomi più gravi rispetto a T. britovi, specie endemica.
La rilevazione di T. spiralis apre nuovi scenari sull’epidemiologia della trichinellosi in Italia e ha notevoli implicazioni per la sanità pubblica, sottolineando l’importanza della sorveglianza sanitaria della fauna selvatica per il monitoraggio precoce degli agenti infettivi emergenti nei territori.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Le nuove, intriganti traiettorie di SARS-CoV-2 nel mondo animale

E’ di poche settimane fa la notizia relativa ad un ulteriore ampliamento del già ampio spettro d’ospite posseduto dal betacoronavirus SARS-CoV-2, il famigerato agente responsabile della pandemia da CoViD-19.

Nello specifico, ben 6 nuove specie di mammiferi selvatici (opossum, procione, marmotta, topo cervo, silvilago orientale e pipistrello rosso) si sono aggiunte all’elenco di quelle, sia domestiche sia selvatiche, già dichiarate suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, mentre una sin qui inedita mutazione sarebbe stata descritta a carico del gene codificante per la “Spike (S) protein” – grazie alla quale si realizza l’interazione del virus con il recettore ACE2 posto sulla superficie delle cellule-ospiti – nell’opossum, analogamente a quanto avvenuto verso la fine del 2020 nei visoni degli allevamenti danesi e olandesi per il ceppo virale denominato “Cluster 5”.

E come non citare, in proposito, il ben noto caso dei cervi a coda bianca (Odocoileus virginianus) statunitensi nella cui popolazione il virus, previamente acquisito da Homo sapiens sapiens (c.d. “spillover“), si sarebbe diffuso in lungo e in largo per “ritornare” successivamente all’uomo (c.d. “spillback” o “zoonosi inversa”) in forma mutata, come già accaduto nei visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi?

A fronte dell’elevato e progressivamente crescente numero di specie suscettibili nei confronti dell’infezione dal SARS-CoV-2, che a tutt’oggi supererebbe le 50 unità, ciò che maggiormente preoccupa (o, per meglio dire, ci dovrebbe preoccupare) è la distanza filogenetica esistente fra le stesse, che in una normale dinamica d’interazione ospite-parassita (ospite-virus, nella fattispecie) costituisce un fondamentale determinante biologico e prerequisito rispetto alla cosiddetta “barriera di specie”.

Quest’ultima, nel caso del betacoronavirus responsabile della CoViD-19, sarebbe definita dal livello di omologia esistente fra il recettore ACE2 umano e quello della specie animale di volta in volta considerata, con particolare riferimento alla regione/sequenza del succitato recettore direttamente interagente con il “receptor-binding domain” (RBD) situato all’interno della (glico)proteina S del virus.

Evidentemente, nello specifico caso di SARS-CoV-2, questa barriera di specie risulterebbe oltremodo “permeabile”, così da consentire il trasferimento dell’agente virale a numerose specie animali (anche) filogeneticamente distanti fra loro, una situazione quest’ultima che risulterebbe esacerbata dal progressivo quanto persistente emergere di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più diffusive e contagiose (vedi, a puro titolo esemplificativo, quelle più recenti denominate “FLiRT” quali JN.1, KP.2, KP.3 e LB.1).

In un siffatto contesto, va da sè che il rischio relativo all’emergere di nuove varianti possa risultare sensibilmente accresciuto dal passaggio del virus a nuove specie animali, soprattutto in ambito selvatico – ove le dinamiche evolutive del rapporto ospite-parassita risulterebbero oggettivamente più difficili da controllare -, parallelamente a quanto sta avvenendo anche nel caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1), che in virtù dei recenti quanto numerosi “salti di specie” dallo stesso operati potrebbe acquisire la capacità (sin qui non ancora dimostrata, per nostra fortuna) di diffondersi in maniera efficace da uomo a uomo.

A tal proposito, come ben si sa, più un agente virale replica all’interno delle cellule di una determinata specie sensibile nei confronti dello stesso, maggiore diviene la probabilità che si realizzino, di pari passo, eventi mutazionali a carico del proprio genoma, con la conseguente comparsa di varianti più diffusive e contagiose di quelle precedenti.

Ciò descrive con esattezza quel che è accaduto, sta tuttora accadendo e, con ogni probabilità, continuerà ad accadere nel caso di SARS-CoV-2, un betacoronavirus il cui genoma consta di circa 30.000 nucleotidi, con una frequenza di mutazioni (sia “silenti” o “sinonime” che “non silenti” o “non sinonime”) pari all’incirca ad una ogni 10.000 basi azotate coinvolte in ciascun ciclo replicativo virale.

In ultima analisi, la notevole “plasticità’ di SARS-CoV-2, che ha già consentito e continua a permettere al virus di trasferirsi ad un così elevato e crescente numero di specie animali domestiche e selvatiche, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, costituirebbe a mio avviso un ulteriore elemento a favore dell’origine naturale di SARS-CoV-2, visto e considerato che un siffatto comportamento mal si concilierebbe in termini di plausibilita’ biologica con quello di un agente creato artificialmente in laboratorio.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto, ancora una volta (e mai abbastanza, comunque!), la fondamentale rilevanza del concetto/principio della One Health – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – non soltanto nella complessa ed articolata gestione eco-epidemiologica dell’infezione da SARS-CoV-2 – così come di quella da virus dell’influenza aviaria A(H5N1) -, ma in generale di tutte le c.d. “malattie infettive emergenti”, il 70% delle quali, è bene ricordarlo, riconoscono la loro origine, comprovata o sospetta che sia, in uno o più serbatoi animali.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Ausl di Imola e Università di Bologna: studio uccelli acquatici selvatici sulla diversità genetica dei virus dell’influenza aviaria

I Virus dell’Influenza Aviaria (VIA) sono oggetto di preoccupazione a causa del loro potenziale impatto sulla salute dei volatili domestici, della fauna selvatica e, se zoonosici, dell’uomo.

Uno studio recente condotto nel Nord-Est Italia getta luce sulla diversità genetica dei VIA rilevati negli uccelli acquatici, rivelando interessanti approfondimenti sulla sorveglianza e monitoraggio di questi virus.

Condotto, da ricercatori dell’Università di Bologna in collaborazione con la A.U.S.L. di Imola e l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, nella regione dell’Emilia-Romagna, si è concentrato sul campionamento di uccelli acquatici selvatici, inclusi anatre, ibis, oche, fenicotteri, gabbiani, aironi e limicoli. Questi uccelli sono stati campionati utilizzando un approccio che prevedeva la raccolta di feci per stimare il tasso di positività ai VIA durante diverse fasi della migrazione. I ricercatori per questo studio hanno utilizzato una strategia di campionamento non invasiva, che si è dimostrata uno strumento prezioso per la sorveglianza dei VIA.

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Fonte: alimentiesalute.emilia-romagna.it




Anticorpi anti-alfa neurotossina, una nuova arma contro il veleno dei serpenti

Ogni anno su scala globale vengono segnalate ferite inferte dal morso di serpenti in un numero variabile fra 1.800.000 e 2.700.000 individui, cui farebbero altresì seguito fra gli 80.000 e i 138.000 decessi, registrati soprattutto in Asia meridionale, nel Sud-Est asiatico, nell’Africa sub-sahariana ed in America Latina (1).

Sulla scia di tali premesse, appaiono di notevole interesse la messa a punto e la successiva descrizione di un anticorpo monoclonale in grado di neutralizzare le alfa-neurotossine a lunga catena presenti nel veleno degli Elapidi (2), una Famiglia di serpenti che annovera al proprio interno alcune specie di Ofidi particolarmente velenose e velenifere, quali ad esempio il cobra reale. Le alfa-neurotossine sono responsabili, infatti, di una serie di gravi effetti secondari al morso di questi serpenti, quali la paralisi flaccida diffusa, spesso culminante nell’exitus di coloro che ne risultano colpiti, vista e considerata la notevole affinita’ di legame di tali tossine nei confronti dei recettori nicotinici situati a livello della regione post-sinaptica della giunzione/placca neuromuscolare (2).

A dispetto del notevole quanto giustificato clamore (anche mediatico) suscitato da questo studio, andrebbe tuttavia sottolineato che lo stesso e’ stato condotto su modelli sperimentali murini, la cui suscettibilità nei riguardi delle alfa-neurotossine – così come degli altri numerosi fattori presenti, a mo’ di cocktail, nel veleno dei serpenti – potrebbe essere ben diversa da quella propria della nostra specie nonché di molte altre specie animali domestiche e selvatiche, come peraltro riferiamo in una lettera all’Editore appena pubblicata sul prestigioso BMJ (3).

Ulteriori elementi di critica risiederebbero poi nell’assenza di alcuni importanti elementi, connessi alla protezione conferita dall’anticorpo monoclonale oggetto d’indagine, visto e considerato che i topi trattati con lo stesso sarebbero comunque deceduti, pur vivendo più a lungo dei propri consimili cui era stata somministrata la sola alfa-neurotossina (2). A tal proposito, comunque, gli Autori riconoscono la possibilità che altre componenti del veleno dei serpenti, non neutralizzate dall’anticorpo monoclonale anti-alfa- neurotossina, potrebbero averne verosimilmente provocato la morte, seppure in tempi ritardati (ma non specificati) rispetto a quelli dei soggetti non trattati con l’anticorpo in questione (2).

Un altro importante elemento di perplessità, richiamato nella nostra lettera all’Editore (3), riguarda il fatto che gli Autori non hanno preso in considerazione, nel loro pur rilevante studio, le numerose specie di serpenti velenosi/veleniferi del Continente Americano (Nord-America, America Centrale e Sudamerica), ove ogni anno si registra un elevato numero di decessi a seguito dei morsi inferti dai medesimi (1).

Ciononostante, gli Autori dello studio oggetto di questa lettera meritano senza dubbio il nostro più convinto e meritato plauso per la rilevanza del lavoro svolto.

Bibliografia 

1) Ralph, R., Faiz, M.A., Sharma, S.K., Ribeiro, I., Chappuis, F. (2022). Managing snakebite. BMJ 376: e057926. DOI: 10.1136/bmj-2020-057926.
2) Khalek, I.S., et al. (2024). Synthetic development of a broadly neutralizing antibody against snake venom long-chain alpha-neurotoxins. Science Transl. Med. 16 (735). DOI: https://doi.org/10.1126/scitranslmed.adk1867.
3) Di Guardo, G., Frye, F.L. (2024). Anti-snake alfa-neurotoxins antibody: Issues of concern (Rapid Response/Letter to the Editor). BMJ
DOI:https://www.bmj.com/content/376/bmj-2020-057926/rapid-responses.

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Gia’ Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 Fredric L. Frye, DVM, MSc,

Fellow Royal Society of Medicine, Fellow Federation of Biologists, (Hon.), Dipl. ECVP, (Hon.), Dipl. Am. Acad. Vet. Pathol, Former Professor of Comparative Medicine and Pathobiology, School of Veterinary Medicine, University of California, Davis, California 95616, USA

 




L’orso polare, un’iconica creatura sempre più minacciata per mano dell’uomo!

Alla principale minaccia rappresentata dal riscaldamento globale, i cui effetti appaiono oltremodo amplificati ai poli terrestri, risultano particolarmente esposti gli orsi polari (Ursus maritimus) (1), vista e considerata la crescente difficoltà sperimentata dagli stessi nel procacciarsi le proprie prede, a motivo del progressivo scioglimento dei ghiacciai. A tal proposito, un recente lavoro descrive una serie di rilevanti adattamenti ecologici, comportamentali e dietetico-nutrizionali posti in essere dalla specie in esame, al precipuo fine di sopperire alla crescente difficoltà di cacciare gli animali acquatici tradizionalmente costituenti la sua principale fonte alimentare (1).

Alla ricerca di substrati nutritivi alternativi rispetto a questi ultimi, sempre piu’ spesso condotta in condizioni precarie ed in ambito terrestre dagli orsi polari, corrisponderebbe un progressivo scadimento delle condizioni generali e dello status nutrizionale della specie. Cio’ fa il paio, inevitabilmente, con uno stress perdurante, sulle cui deleterie ricadute sanitarie ho ritenuto doveroso richiamare l’attenzione della Comunità Scientifica attraverso un “Commentary” recentemente apparso sul prestigioso “Nature Microbiology Community Forum” (2). Come risulta ben noto, infatti, ad una condizione di stress cronico si associa un’accresciuta produzione di cortisolo, con conseguente soppressione della risposta immunitaria dell’ospite (3). E, se da un lato appare oltremodo plausibile che le sempre piu’ malnutrite popolazioni di orsi polari stiano sperimentando una condizione di stress cronico persistente, andrebbe parimenti sottolineato che il contestuale incremento della cortisolemia potrebbe accrescerne, dall’altro lato, la suscettibilità nei confronti di un’ampia gamma di agenti patogeni, con tutte le nefaste conseguenze che ciò comporterebbe sul loro gia’ precario stato di salute e di conservazione.

Degno di particolare menzione risulta, in un siffatto contesto, Toxoplasma gondii, un agente protozoario dotato di comprovata capacità zoonosica ed in grado d’infettare numerose specie di mammiferi acquatici, ivi compresi gli orsi polari. Al riguardo, elevati tassi di sieroprevalenza verso T. gondii erano già stati evidenziati in uno studio condotto sulla popolazione di orsi polari residente alle Isole Svalbard (Norvegia), ove gli esemplari di sesso maschile mostravano livelli di anticorpi sierici ben più elevati che in quelli di sesso femminile e doppi, all’incirca, rispetto a quelli rinvenuti in una precedente indagine svolta nella medesima regione geografica (4).

In aggiunta a quanto sopra, la posizione di “predatori di vertice” notoriamente occupata dagli orsi polari all’interno delle catene trofiche in ambito marino li renderebbe capaci di bioaccumulare e di biomagnificare, a livello dei propri distretti corporei, un gran numero di contaminanti ambientali persistenti ad azione immunotossica, come ad esempio il metil-mercurio (metil-Hg) (5).

Ne deriva pertanto che l’immunosoppressione associata alla risposta da stress cronico conseguente al perdurante stato di malnutrizione, congiuntamente all’elevato carico di xenobiotici immunotossici progressivamente accumulati e biomagnificati in ambito tissutale, non potrà che rendere gli orsi polari maggiormente suscettibili nei confronti di un crescente numero di agenti microbici, con tutti i catastrofici effetti che ciò produrrà sul già precario stato di salute e di conservazione della specie in questione.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto l’esigenza che la complessa ed articolata gestione sanitaria della sempre più minacciata popolazione globale di orsi polari necessiti di un approccio integrato e multidisciplinare, diffusamente permeato ed ispirato al principio/concetto della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Bibliografia 

1) Pagano, A.M., Rode, K.D., Lunn, N.J., et al. Polar bear energetic and behavioral strategies on land with implications for surviving the ice-free period. Nat Commun 15, 947 (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-023-44682-1.
2) Di Guardo, G. Enhanced infection susceptibility as a consequence of chronic starvation in polar bears. Nature Community Microbiology Forum, February 21, 2024.
https://communities.springernature.com/posts/enhanced-infection-susceptibility-as-a-consequence-of-chronic-starvation-in-polar-bears
3) O’Leary, A. Stress, emotion, and human immune function. Psychol. Bull.108, 363-382 (1990). doi: 10.1037/0033-2909.108.3.363.
4) Jensen, S.K., Aars, J., Lydersen, C., et al. The prevalence of Toxoplasma gondii in polar bears and their marine mammal prey: evidence for a marine transmission pathway?. Polar. Biol 33, 599–606 (2010). https://doi.org/10.1007/s00300-009-0735-x
5) St Louis, V.L., Derocher, A.E., Stirling, I., et al. Differences in mercury bioaccumulation between polar bears (Ursus maritimus) from the Canadian high- and sub-Arctic. Environ. Sci. Technol. 45, 922-928 (2011). doi: 10.1021/es2000672.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

Sullo stesso tema è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista British Medical Journal (BMJ) una “Letter to the Editor” del Prof. Di Guardo con riferimento all’articolo “Alaskapox: First human death from zoonotic virus is announced

 




Rapporto sulle specie migratorie: lo stato scioccante della fauna selvatica

Alla 14esima Conferenza della parti della Convention on the Conservation of Migratory Species of Wild Animals (CMS COP14) in corso a Samarcanda, in Uzbekistan, è stato presentato il primo  State of the World’s Migratory Species Report, la valutazione  più completa completa sulle specie migratorie mai realizzata e che fornisce una panoramica globale dello stato di conservazione e delle tendenze della popolazione degli animali migratori, insieme alle informazioni più recenti sulle principali minacce e sulle azioni efficaci per salvarli.

Pertroppo quella che emerge dal rapporto non è una situazione confortante: «Mentre alcune specie migratorie elencate nel CMS stanno migliorando, quasi la metà (44%) mostrano un calo della popolazione. Più di una su cinque (22%) delle specie elencate nel CMS sono a rischio di estinzione. Quasi tutti (97%) i pesci elencati nel CMS sono a rischio di estinzione. Il rischio di estinzione sta crescendo per le specie migratrici a livello globale, comprese quelle non elencate nel CMS. La metà (51%) delle aree chiave per la biodiversità identificate come importanti per gli animali migratori elencati nel CMS non hanno uno status protetto, e il 58% dei siti monitorati riconosciuti come importanti per le specie elencate nel CMS stanno registrando livelli insostenibili di fenomeni causati dalla pressione antropica. Le due maggiori minacce sia per le specie elencate nel CMS che per tutte le specie migratorie sono lo sfruttamento eccessivo e la perdita di habitat dovuta all’attività umana. 3 specie su 4 elencate nell’elenco CMS sono colpite dalla perdita, dal degrado e dalla frammentazione dell’habitat, e sette specie su dieci dall’elenco CMS sono colpite dallo sfruttamento eccessivo (incluso il prelievo intenzionale e la cattura accidentale). Anche i cambiamenti climatici, l’inquinamento e le specie invasive stanno avendo profondi impatti sulle specie migratorie. A livello globale, 399 specie migratorie minacciate o quasi a rischio di estinzione non sono attualmente elencate nel CMS».

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Fonte: greenreport.it




Coesistenza e gestione dei conflitti tra uomo e fauna selvatica

Da sempre la prossimità tra popolazioni umane e animali selvatici ha generato conflitti. Recentemente, tuttavia, questo fenomeno ha raggiunto una diffusione preoccupante, tale da costituire un fattore critico per la conservazione delle specie coinvolte e generare effetti negativi per la sussistenza delle comunità locali. L’IUCN definisce tali situazioni come “conflitti che emergono quando la presenza o il comportamento della fauna selvatica rappresenta una minaccia reale o percepita, diretta e ricorrente agli interessi o ai bisogni umani, portando a disaccordi tra gruppi di persone e impatti negativi sulle persone e/o sulla fauna selvatica”. Questi conflitti tra uomo e fauna selvatica sono complessi, dinamici e non si prestano ad analisi e soluzioni semplici. Per poterli gestire in modo efficace e, soprattutto, in un’ottica di coesistenza, è necessario un approccio che consideri sia le necessità della fauna che quelle degli esseri umani.

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Fonte: ISPRA




Ancora un nuotatore alieno in Adriatico: il granchio crocifisso Charybdis feriata

Charybdis feriata (Credits: Fabio Grati, Cnr-Irbim)Un gruppo di ricercatori dell’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Ancona (Cnr-Irbim) annuncia il ritrovamento di un esemplare di granchio crocifisso Charybdis feriata nel mare Adriatico. Il ritrovamento, avvenuto al largo delle coste di Senigallia, è un evento significativo, in quanto questa specie è originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’Oceano Indiano e Pacifico.

A distanza di poco più di un mese dalla segnalazione di una seconda specie di granchio nuotatore in Adriatico (Portunus segnis), viene oggi comunicata la presenza di una terza specie di granchio nuotatore alieno. Il granchio crocifisso è stato segnalato per la prima volta in Mar Mediterraneo nel 2004 al largo di Barcellona, ed esistono ad oggi pochissimi avvistamenti di questa specie nel Mare Nostrum, compreso un recente ritrovamento nel golfo di Genova nel 2022 ed a Livorno nel 2015, sempre vicino a grandi porti. Il granchio crocifisso è un predatore di grandi dimensioni, i maschi di questa specie possono arrivare a pesare 1 kg e la specie è ampiamente commercializzata nelle aree di origine. Secondo i ricercatori, la presenza di questa specie in Adriatico è da attribuirsi allo stesso vettore che ha introdotto il più noto granchio blu Callinectes sapidus: ovvero il trasporto navale.

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Fonte: Cnr




Influenza aviaria: le autorità sanitarie europee raccomandano maggiore protezione delle aziende avicole dagli uccelli selvatici

 Mentre la situazione nel pollame si è attenuata durante l’estate, il virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) ha continuato a colpire gli uccelli selvatici, in particolare gli uccelli acquatici marini in Europa, per lo più lungo le coste. Con l’inizio della stagione migratoria autunnale, si prevede un aumento dei casi anche in altre specie selvatiche come gli anatidi e le autorità sanitarie ritengono prioritario aumentare la protezione del pollame e di altri animali d’allevamento dagli uccelli selvatici; la biosicurezza dovrebbe essere rafforzata anche negli allevamenti di animali da pelliccia.

Secondo l’ultimo Rapporto sull’influenza aviaria dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e del Laboratorio di referenza europeo (EURL) presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), nel periodo tra il 24 giugno e il 1° settembre 2023 sono stati segnalati 507 focolai di HPAI nei volatili domestici (25) e selvatici (482) in 21 paesi europei.

I carnivori selvatici e domestici continuano ad essere le specie di mammiferi più colpite, con la Finlandia che ha registrato 26 focolai in allevamenti di visoni americani, volpi rosse e artiche, e cane procione. Le autorità locali ritengono che la fonte più probabile di introduzione virale sia da attribuire al contatto con i gabbiani selvatici, ma la trasmissione tra aziende agricole non può essere completamente esclusa. La trasmissione all’interno delle aziende si è verificata attraverso il contatto con alcuni animali che non presentavano segni clinici di infezione.

Nel report si raccomanda anche di evitare l’esposizione dei cani e dei gatti domestici, e in generale degli animali carnivori, ad animali morti o malati (mammiferi e uccelli), e di evitare di somministrare a gatti, cani e altri carnivori domestici frattaglie e carne cruda provenienti da allevamenti non controllati situati in zone in cui è segnalata la circolazione del virus HPAI.

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Fonte: IZS Venezie