ISS: Indicazioni ad interim sulla gestione e smaltimento di mascherine e guanti monouso provenienti da utilizzo domestico e non domestico

L’Istituto Superiore di sanità ha pubblicato il “Rapporto ISS COVID-19 n. 26/2020 – Indicazioni ad interim sulla gestione e smaltimento di mascherine e guanti monouso provenienti da utilizzo domestico e non domestico. Versione del 18 maggio 2020”

Il documento fornisce raccomandazioni per la gestione di mascherine e guanti monouso come rifiuti prodotti da utilizzo domestico e non domestico, compresi Enti pubblici e privati, attività commerciali e produttive, diverse dalle attività sanitarie e sociosanitarie. Vengono fornite raccomandazioni anche sulle caratteristiche, posizionamento e movimentazione dei contenitori per la raccolta di tali rifiuti.

Scarica il rapporto
Scarica il poster su smaltimento di guanti e mascherine




Consultazione pubblica su 7 piani di gestione di specie esotiche invasive

Scoiattolo_grigioTerminerà l’8 agosto la consultazione pubblica su 7 piani di gestione delle specie esotiche invasive:

Scoiattolo grigio (Sciurus carolinensis)

Scoiattolo del Pallas (Callosciurus erythraeus)

Procione (Procyon lotor)

Ibis Sacro (Threskiornis aethiopicus)

Tartaruga palustre ame (Trachemys scripta)

Calabrone asiatico (Vespa velutina nigrithorax)

Panace di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum)

I piani sono stati elaborati dal Ministero dell’ambient con in supporto di ISPRA – Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

Le osservazioni devono essere inviate a:  esoticheinvasive@minambiente.it




Qualità dell’aria e COVID-19, c’è bisogno di risposte

Inquinamento atmosferico e COVID-19: è possibile associarli? Per dare delle risposte alle numerose ipotesi emerse su questo possibile legame, tema dibattuto a livello mondiale, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) con il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) hanno avviato uno studio epidemiologico a livello nazionale per valutare se e in che misura i livelli di inquinamento atmosferico siano associati agli effetti sanitari dell’epidemia.

L’improvvisa e rapida propagazione della pandemia di COVID-19 ha innescato globalmente una intensa attività di ricerca nel settore della prevenzione (sviluppo di vaccini) e nel campo terapeutico-assistenziale, anche per comprendere meglio il processo di trasmissione virale e i possibili fattori sociali ed ambientali che possano contribuire a spiegare le modalità di contagio e la gravità e prognosi dei quadri sintomatologici e patologici associati all’infezione da virus SARS-CoV-2.

In questo contesto, e a seguito di numerose segnalazioni, sta emergendo la necessità di studiare le possibili connessioni tra esposizione a particolato atmosferico (PM) ed epidemia di COVID-19. Il lancio di questo studio epidemiologico segue, infatti, l’avvio dell’altra iniziativa, PULVIRUS promossa da ENEA, ISS e ISPRA-SNPA, che valuterà le conseguenze del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra e le interazioni fra polveri sottili e virus.

Il progetto epidemiologico ISS/ISPRA/SNPA si baserà sui dati della sorveglianza integrata nazionale COVID-19, coordinata da ISS, e del sistema di monitoraggio della qualità dell’aria atmosferica, di competenza ISPRA-SNPA e si avvarrà della collaborazione scientifica della Rete Italiana Ambiente e Salute (RIAS), anche per garantire un raccordo con le strutture regionali sanitarie ed ambientali.

L’inquinamento atmosferico aumenta il rischio di infezioni delle basse vie respiratorie, particolarmente in soggetti vulnerabili, quali anziani e persone con patologie pregresse, condizioni che caratterizzano anche l’epidemia di COVID-19. Le ipotesi più accreditate indicano che un incremento nei livelli di PM rende il sistema respiratorio più suscettibile all’infezione e alle complicazioni della malattia da coronavirus. Su questi temi occorre uno sforzo di ricerca congiunto inter-istituzionale.

Lo studio delle possibili connessioni tra l’epidemia di COVID-19 e l’esposizione a inquinanti atmosferici, richiede approcci metodologici basati sull’integrazione di diverse discipline: l’epidemiologia ambientale e l’epidemiologia delle malattie trasmissibili, la tossicologia, la virologia, l’immunologia, al fianco di competenze chimico-fisiche, metereologiche e relative al monitoraggio ambientale.

Nel realizzare lo studio, si terrà quindi conto del fatto che la diffusione di nuovi casi segue le modalità del contagio virale e quindi si muove principalmente per focolai (cluster) all’interno della popolazione e si seguiranno approcci e metodi epidemiologici per lo studio degli effetti dell’inquinamento atmosferico in riferimento alle esposizioni sia acute (a breve termine) che croniche (a lungo termine), con la possibilità di controllo dei fattori socio-demografici e socio-economici associati al contagio, all’esposizione a inquinamento atmosferico, all’insorgenza di sintomi e gravità degli effetti riscontrati tra i casi di COVID-19.

Gli obiettivi dello studio epidemiologico nazionale verteranno sul ruolo dell’esposizione a PM nell’epidemia di COVID-19 nelle diverse aree del paese, per chiarire in particolare l’effetto di tale esposizione su distribuzione spaziale e temporale dei casi, gravità dei sintomi e prognosi della malattia, distribuzione e frequenza degli esiti di mortalità. La risposta a tali quesiti dovrà essere associata a fattori quali età, genere, presenza di patologie pre-esistenti alla diagnosi di COVID-19, fattori socio-economici e demografici, tipo di ambiente di vita e di comunità (urbano-rurale, attività produttive).

L’emergenza sanitaria della Pandemia di COVID-19 è una sfida per la conoscenza sotto molteplici punti di vista e non solo quelli oggi centrali sul fronte dei vaccini e delle terapie” ricorda il Presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, sottolineando però che “altri importanti quesiti di ricerca richiedono sforzi congiunti. Un esempio è lo studio odierno che mira ad esplorare il possibile contributo dell’inquinamento atmosferico alla suscettibilità all’infezione da SARS-CoV-2, alla gravità dei sintomi e degli effetti sanitari dell’epidemia”, questione oggi molto dibattuta in tutto il mondo. “Su questo tema – continua Brusaferro – assieme a ISPRA-SNPA, stiamo proponendo l’avvio di uno studio epidemiologico nazionale”.

Il presunto legame tra COVID-19 e inquinamento è argomento divenuto quotidiano nel dibattito mediatico e non solo, suscitando da più parti teorie ed ipotesi che è giusto approfondire ed a cui è doveroso dare una conferma, per quel che ci riguarda, tecnico-scientifica. Anche per questo abbiamo aderito con entusiasmo alla proposta di collaborazione dell’ISS, con cui già dal 2019 condividiamo gli obiettivi di un Protocollo di Intesa sui temi che riguardano i rapporti tra ambiente e salute – ha dichiarato il Presidente di Ispra e Snpa Stefano Laporta. “Metteremo a disposizione le nostre competenze in materia di qualità dell’aria e di modellistica ambientale, per comprendere gli eventuali effetti associati all’epidemia di CoViD-19. Un esempio concreto per fare rete e integrazione, un’azione congiunta che crediamo potrà supportare anche percorsi futuri”.

Fonte: ISS




Api e apicoltura. Preziosa risorsa per ambiente e agricoltura

E’ dedicato al comparto dell’apicoltura il 21° Quaderno della Collana editoriale di Veneto Agricoltura.

Il documento, i cui autori sono tra i massimi esperti in Italia, ha un taglio tecnico e divulgativo insieme sul tema che viene affrontato sotto il profilo storico, legislativo, economico, ambientale, sanitario, della ricerca applicata, ecc..

Indice del volume:

  • Presentazione
    Alberto Negro – Commissario Straordinario di Veneto Agricoltura
  • La storia millenaria dell’apicoltura veneta
    Paolo Fontana, Fondazione Edmund Mach
  • Le normative di settore
    Cristina Mulinari, Regione Veneto Direzione Agroalimentare
  • Api e apicoltura, un binomio inscindibile
    Cristian Bolzonella, Giulia Ranzani, Vasco Boatto, Augusto Zanella Università di Padova – Dipartimento TESAF
  • Aspetti economici dell’apicoltura
    Gabriele Zampieri, Veneto Agricoltura
  • La situazione dell’apicoltura italiana
    Alberto Contessi, Osservatorio Nazionale Miele
  • Potenzialità e fattori limitanti dell’apicoltura in Italia
    Giancarlo Naldi, Osservatorio Nazionale Miele
  • Consistenza dell’apicoltura in Italia e nel Veneto
    Jacopo Testoni, Regione Veneto Direzione Agroalimentare – Laura Favero, Regione Veneto Direzione Prevenzione, Sicurezza Alimentare, Veterinaria
  • I tecnici apistici
    Franco Mutinelli, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Categorie professionali e forme associate
    Jacopo Testoni, Regione Veneto Direzione Agroalimentare
  • Il valore dell’impollinazione
    Cristian Bolzonella, Vasco Boatto, Augusto Zanella Università di Padova-Dipartimento TESAF
  • Produzione di miele in Veneto nel 2019
    Franco Mutinelli, Albino Gallina Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Api, clima e ambiente
    Paolo Fontana, Fondazione Edmund Mach
  • L’inquinamento genetico delle api
    Cecilia Costa, CREA-Centro di Ricerca Agricoltura e Ambiente
  • Colture estensive, prodotti fitosanitari e api
    Lorenzo Furlan, Veneto Agricoltura
  • Stato sanitario dell’apicoltura e nuove specie invasive
    Franco Mutinelli, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • L’adulterazione del miele
    Albino Gallina, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Buone pratiche apistiche
    Franco Mutinelli, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Varroa destructor: Linee Guida
    Franco Mutinelli, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • L’etichettatura del miele
    Albino Gallina, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Certificazioni in apicoltura
    Maria Chiara Ferrarese, CSQA Certificazioni
  • Fronteggiare le malattie: l’arnia termica
    Franco Mutinelli, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie
  • Il Punto di vista delle associazioni apistiche venete
    Stefano Dal Colle, APAT Apicoltori in Veneto – Gerardo Meridio, Associazione Regionale Apicoltori del Veneto

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Mediterraneo: quasi 50.000 esemplari di 116 specie diverse hanno ingerito plastica

plastica mareAlmeno 116 specie diverse nel Mediterraneo hanno ingerito plastica (l’ingestione è il principale effetto noto della plastica in mare); il 59% di queste sono pesci ossei, inclusi in questa percentuale anche quelli di interesse commerciale come sardine, triglie, orate, merluzzi, acciughe, tonni, scampi, gamberi rossi; il restante 41% è costituito da altri animali marini come mammiferi, crostacei, molluschi, meduse, tartarughe, uccelli.

Questi alcuni dei risultati di uno studio, condotto anche da ricercatori dell’Ispra, incluso nel capitolo del libro “Plastics in the Aquatic Environment – Current Status and Challenges” pubblicato dalla Springer Nature, in cui si aggiorna la letteratura scientifica disponibile per descrivere l’impatto dei rifiuti sulla vita marina nel Mediterraneo, un ecosistema sensibile, caratterizzato da elevata biodiversità ma anche uno degli ecosistemi più minacciati al mondo dai rifiuti marini, su scala globale composti principalmente da plastica. Sono stati analizzati 128 documenti che riportavano impatti dei rifiuti marini su 329 categorie di organismi del Mediterraneo. Si tratta ad oggi dello studio più ampio ed aggiornato sull’intero Mediterraneo.

Se c’è troppa plastica nello stomaco dei pesci, accade anche che buste e bottigliette diventino vettore di trasporto o ambiente di vita per diverse specie. Sono state rintracciate 168 categorie di organismi marini trasportati da oggetti galleggianti (principalmente di plastica), anche in ambienti in cui non erano stati rintracciati prima; tra questi, ci sono anche batteri patogeni che possono causare malattie nei pesci che li ingeriscono. Gli organismi più comuni trasportati dai rifiuti marini sono gli artropodi (crostacei) e gli Cnidari (gorgonie, coralli). I rifiuti marini, in particolare lenze e reti da pesca, possono inoltre distruggere, ferire e soffocare colonie di coralli e gorgonie anche in ambienti molto profondi e remoti.

La produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni del 1964 agli oltre 310 milioni attuali, e ogni anno almeno 8 milioni di tonnellate finiscono negli oceani del mondo. La plastica raggiunge il mare a causa di una cattiva gestione dei rifiuti, ma anche per la sovrapproduzione di imballaggi e prodotti monouso che vengono messi in circolazione dall’industria alimentare e non solo. Per limitare i danni, l’Unione europea ha approvato una direttiva contro la plastica monouso, che rappresenta una delle principali tipologie di plastica trovate nel Mediterraneo.

La plastica può colpire gli organismi marini attraverso l’ingestione e l’intrappolamento e gli impatti variano a seconda del tipo e delle dimensioni. Almeno 44 specie marine sono soggette ad intrappolamento nella plastica, in particolare reti da pesca. L’intrappolamento spesso determina la morte per affogamento, strangolamento o denutrizione, soprattutto per i mammiferi marini; la tartaruga marina Caretta caretta è la specie mediterranea più soggetta ad intrappolamento ed è anche una delle principali specie del Mediterraneo note per ingerire plastica (le prime evidenze di
ingestione di rifiuti da parte della Caretta risalgono a metà anni ’80): è infatti stata identificata come specie indicatrice dell’ingestione di rifiuti nell’ambito della Strategia Marina.

Diverse specie minacciate e quindi incluse nella Lista Rossa dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN) – dal corallo rosso, passando per il tonno rosso, lo spinarolo, e arrivando al capodoglio – risultano compromesse dai rifiuti marini. Mentre dallo studio emergono gli effetti diffusi dei rifiuti marini, e in particolare della plastica, sugli organismi marini del Mediterraneo, al contrario, non ci sono evidenze scientifiche di effetti negativi dell’ingestione di microplastiche nei pesci, nè tantomeno del trasferimento delle microplastiche fino all’uomo.

Per ulteriori informazioni, l’ISPRA collabora ai due progetti comunitari INDICIT e INDICIT 2 che possono essere consultati qui

Fonte: ISPRA




L’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione

Una solida letteratura scientifica descrive il ruolo del particolato atmosferico quale efficace “carrier”, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Il particolato atmosferico, oltre ad essere un carrier, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni.

Ora un team di ricercatori italiani ha esaminato i dati pubblicati sui siti delle ARPA – le Agenzie regionali per la protezione ambientale – relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio nazionale, registrando il numero di episodi di superamento dei limiti di legge (50 microg/m3 di concentrazione media giornaliera) nelle province italiane.

Parallelamente, sono stati analizzati i casi di contagio da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. Si è evidenziata una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo 10-29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo (considerando un ritardo temporale intermedio relativo al periodo 10-29 febbraio di 14 gg approssimativamente pari al tempo di incubazione del virus fino alla identificazione della infezione contratta).

In Pianura padana si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia.

Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un boost, un’accelerazione alla diffusione del COVID-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”, afferma Leonardo Setti dell’Università di Bologna. Gli fa eco Gianluigi de Gennaro, dell’Università di Bari: “Le polveri stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. Ridurre al minimo le emissioni e sperare in una meteorologia favorevole”.

Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), aggiunge: “L’impatto dell’uomo sull’ambiente sta producendo ricadute sanitarie a tutti i livelli. Questa dura prova che stiamo affrontando a livello globale deve essere di monito per una futura rinascita in chiave realmente sostenibile, per il bene dell’umanità e del pianeta. In attesa del consolidarsi di evidenze a favore dell’ipotesi presentata, in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore o “marker” indiretto della virulenza dell’epidemia da Covid19”.

Grazia Perrone, docente di metodi di analisi chimiche della Statale di Milano, conclude: “Il position paper è frutto di un studio no-profit che vede insieme ricercatori ed esperti provenienti da diversi gruppi di ricerca italiani ed è indirizzato in particolar modo ai decisori”.




World Wildlife Day. WWF: In Italia ancora centinaia le specie protette dalla Direttiva Habitat a rischio

direttiva habitatIn occasione del World Wildlife Day, che si celebra il 3 marzo in tutto il mondo, il WWF valuta lo stato di salute di specie e habitat italiani più a rischio, elaborando i dati messi a disposizione dal nostro Paese alla Comunità Europea per il report quinquennale sulla Direttiva Habitat, la norma che a livello comunitario protegge le specie maggiormente minacciate d’estinzione. Purtroppo, sebbene le valutazioni siano ancora preliminari, il quadro per la natura italiana è tutt’altro che roseo.

I dati generali
Delle 570 specie italiane protette dalla Direttiva Habitat, solo 248 (43%) mostrano uno stato di conservazione favorevole. Purtroppo ben 206 (36%) presentano ancora uno stato di conservazione inadeguato e 93 (16%) addirittura sfavorevole. Del restante 5% non si hanno dati sufficienti per una valutazione secondo gli standard europei.

I gruppi più a rischio
Tra i diversi gruppi di animali considerati (esclusi gli uccelli, tutelati da una specifica Direttiva), a passarsela peggio sono i pesci (a rischio estinzione specie quali storione cobice, barbo canino e trota macrostigma) con oltre l’80% delle specie considerate che presentano uno stato di conservazione non favorevole, il 39% addirittura cattivo e con trend di popolazione in diminuzione.
Seguono a ruota gli anfibi, con il 64% delle specie in cattivo o inadeguato stato di conservazione (fortemente minacciati ululone appenninico, tritone crestato italiano e salamandra di Aurora); ma anche i mammiferi (lince, foca monaca, orso marsicano ma anche i pipistrelli) non se la passano bene: in media, solo 4 specie su 10 tra quelle presenti in direttiva presentano uno stato di conservazione favorevole.
La situazione appare lievemente migliore per i rettili (67% in buono stato) e gliartropodi (insetti, ragni, etc.; 53%). Anche per le piante, solo il 46% presenta uno stato di conservazione favorevole, che però scende al 21% per muschi e licheni. Tra le specie che rischiamo di perdere: l’abete dei Nebrodi e ribes di Sardegna

Lo stato degli habitat
Anche la situazione a livello dei diversi ambienti naturali è tutt’altro che rosea. Appena il 10% di quelli in Direttiva (pari a 26 tipi di habitat) presenta infatti un buono stato di conservazione, che risulta invece inadeguato per 47% (124 habitat) e addirittura cattivo per il 39% di essi (102 habitat), per il restante 4% non ci sono dati sufficienti alla valutazione.
Tra gli habitat che presentano, in media, le peggiori condizioni troviamo quelli dunali, quelli di acqua dolce, torbiere e acquitrini, nessuno dei quali (0%) è in uno stato di conservazione favorevole. Per gli habitat dunali, in particolare, il 71% di quelli tutelati dalla Direttiva sono in cattivo stato e in regressione, così come il 47% di acqua dolce, il 39% delle praterie, il 28% di torbiere e acquitrini, ma anche il 21% delle foreste, che includono gli habitat tutelati dalla Direttiva più estesi d’Italia (oltre 17.000 km2).
Solo per lande e arbusteti temperati la maggioranza degli habitat (55%) è in uno stato di conservazione favorevole, percentuale che scende al 26% per gli habitat costieri e marini, 15% sia per quelli rocciosi sia per le macchie di sclerofille.

Le cause
Tra le pressioni principali alla biodiversità del nostro Paese, troviamo al primo posto (in termini di numero di habitat impattati da ciascun fattore) l’agricoltura, che interessa oltre il 68% degli habitat protetti dalla Direttiva. Al secondo posto (con impatti negativi sul 58% degli habitat) troviamo invece le specie aliene, ovvero animali o piante trasportati volontariamente o involontariamente dall’uomo in aree geografiche diverse da quelle in cui si sono originate, creando squilibri ecologici agli ecosistemi locali. Segue a breve distanza, impattando quasi il 56% degli habitat, lo sviluppo delle infrastrutture ad uso industriale, commerciale, residenziale e ricreativo. Tra gli ulteriori fattori di minaccia troviamo infine attività forestali, modifiche ai regimi idrici legate alle attività umane e cambiamenti climatici, oltre a processi naturali che favoriscono l’espansione di alcuni habitat a discapito di altri.

Carenza di dati
Una percentuale significativa di specie e habitat è caratterizzata da uno stato di conservazione incerto o del tutto indefinito: in molti casi regioni ed enti locali non hanno infatti provveduto ai monitoraggi indispensabili per valutare lo stato di conservazione della biodiversità, che vanno fatti con personale, competenze e risorse adeguate: da questo dipende l’efficacia delle misure di conservazione.

“La biodiversità è il nostro vero tesoro, la cui ricchezza non ha pari in Europa Come le opere d’arte che riempiono d’orgoglio il Bel Paese, anche la natura di casa nostra va tutelata al meglio. Purtroppo siamo ancora ben lontani dal riuscirci, per questo speriamo che il 2020 sia finalmente un anno di svolta in cui governi, regioni, comuni, aziende e singoli cittadini comprendano che senza natura non possiamo vivere e si attivino per conservarli con ambizione e coraggio. Non possiamo più rimandare”

dichiara Marco Galaverni, Direttore Scientifico WWF Italia-.

Fonte: WWF




Eurobarometro: La protezione dell’ambiente e del clima è importante per oltre il 90% dei cittadini europei

Cambiamenti climaticiSecondo una nuova indagine Eurobarometro, il 94% dei cittadini di tutti gli Stati membri concorda sul fatto che la protezione dell’ambiente è importante. Inoltre, il 91% dei cittadini ha dichiarato che i cambiamenti climatici costituiscono un problema grave nell’UE. A giudizio dell’83% degli intervistati, la legislazione europea è necessaria per proteggere l’ambiente.

Dall’indagine eurobarometro pubblicata il 3 marzo  emerge che i cittadini vogliono che si faccia di più per proteggere l’ambiente e ritengono che la responsabilità sia condivisa, oltre che da loro stessi, anche dalle grandi imprese e dall’industria, dai governi nazionali e dall’UE. I cittadini intervistati ritengono che per affrontare più efficacemente i problemi ambientali occorra “cambiare i nostri modelli di consumo” e “cambiare il nostro modo di produrre e commercializzare i prodotti”.

Il commissario per l’Ambiente, gli oceani e la pesca, Virginijus Sinkevičius ha dichiarato:

“I risultati di questa indagine non ci sorprendono. Sono esattamente le preoccupazioni dei cittadini che noi vogliamo affrontare con il Green Deal europeo. Mi rincuora constatare che esiste un sostegno a favore di quei cambiamenti fondamentali che ci apprestiamo ad apportare alla nostra società e alla nostra economia e che i cittadini intendono svolgere un ruolo attivo in questo cambiamento.”

Stando ai risultati dell’indagine i cambiamenti climatici, l’inquinamento atmosferico e i rifiuti sono i tre problemi più gravi che riguardano l’ambiente. Più di tre quarti degli intervistati (78%) ritiene che le questioni ambientali abbiano ricadute dirette sulla loro vita di tutti i giorni e sulla loro salute. Più di otto cittadini su dieci sono preoccupati per l’impatto delle sostanze chimiche presenti in prodotti di uso quotidiano e riconoscono che potrebbero essere necessari dei cambiamenti radicali.

Gli oltre 27 000 intervistati esprimono un forte sostegno per le misure proposte volte a ridurre la quantità dei rifiuti di plastica e la loro dispersione nell’ambiente. I risultati indicano anche che i cittadini ritengono che i prodotti dovrebbero essere concepiti in modo da facilitare il riciclaggio di questo materiale; industriali e commercianti dovrebbero sforzarsi di ridurre gli imballaggi di plastica; si dovrebbero prevedere interventi educativi rivolti ai cittadini su come ridurre i loro rifiuti di plastica; le autorità locali, infine, dovrebbero mettere a disposizione strutture migliori per la raccolta di questo tipo di rifiuti e prevederne in numero più elevato.

L’indagine prende in esame anche gli atteggiamenti nei confronti dell’industria dell’abbigliamento, riscontrando forti preoccupazioni per le questioni ambientali e le condizioni di lavoro. Gli intervistati vorrebbero indumenti in grado di durare più a lungo e fabbricati con materiali riciclabili.

È infine emerso un sostegno a favore di altre misure, tra cui gli investimenti nella ricerca e sviluppo, una maggior attività di informazione e di educazione, un incoraggiamento alle imprese ad impegnarsi in attività sostenibili e un controllo legislativo più rigoroso.

Contesto
L’indagine è stata condotta tra il 6 e il 19 dicembre 2019 negli allora 28 Stati membri dell’UE. Sono state intervistate di persona, presso il loro domicilio e nella loro lingua materna, 27 498 persone di diversi gruppi sociali e demografici.

Lo speciale Eurobarometro in questione fa seguito a quello dell’ottobre 2017 sullo stesso argomento e riprende molte delle domande di quest’ultimo.

Fonte: Commisisone europea




La Commissione europea vara la coalizione globale per la biodiversità

Il 3 marzo, in occasione della giornata mondiale delle specie selvatiche, la Commissione europea ha varato a Monaco una nuova coalizione globale per la biodiversità. Con questa campagna di comunicazione la Commissione esorta a intensificare gli sforzi di sensibilizzazione circa la necessità di proteggere la biodiversità.

In preparazione per la CoP 15, la decisiva conferenza delle parti della convenzione sulla diversità biologica in programma a ottobre 2020, la Commissione invita parchi nazionali, acquari, giardini botanici, zoo, musei delle scienze e musei di storia naturale a unire le forze per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi della natura.

Virginijus Sinkevičius, Commissario europeo responsabile per l’Ambiente, gli oceani e la pesca, ha dichiarato:

“La crisi della biodiversità è un aspetto significativo dei cambiamenti climatici. Proteggere e ripristinare la biodiversità non solo preserverebbe la natura per le generazioni future, ma contribuirebbe anche alla lotta contro i cambiamenti climatici e aiuterebbe a scongiurare conseguenze negative per la nostra alimentazione, la salute e l’economia. Urgono misure su scala mondiale per evitare che zoo e giardini botanici diventino la nostra unica opportunità di apprezzare la natura, il che sarebbe un fallimento per l’intero genere umano.”

Grazie alle loro collezioni e ai programmi didattici e di conservazione, parchi nazionali, acquari, giardini botanici, zoo e musei delle scienze e di storia naturale sono in una posizione privilegiata per far comprendere al pubblico gli effetti drammatici della crisi della biodiversità. La Commissione incoraggia inoltre le autorità nazionali, regionali e locali, le organizzazioni non governative, le imprese, gli scienziati e i singoli cittadini a fare la loro parte nella campagna di sensibilizzazione in vista del vertice delle Nazioni Unite sulla biodiversità (CoP 15).

Durante la CoP 15 le 196 parti della convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica dovrebbero adottare un nuovo quadro globale finalizzato a tutelare e ripristinare la natura, uno strumento tanto indispensabile quanto l’accordo di Parigi sull’emergenza climatica. Dopo il vertice l’attenzione della coalizione per la biodiversità si sposterà verso azioni coordinate che abbiano un effetto tangibile sulla perdita della biodiversità, nell’intento di invertire questa tendenza. Si tratta di un’iniziativa coerente e pienamente in linea con altre iniziative e coalizioni, come quella di ambizione elevata guidata dalla Costa Rica.

Contesto
La coalizione globale per la biodiversità si affiancherà a quella di grande successo “World aquariums #ReadyToChange to #BeatPlasticPollution“, nata nel 2017, che riunisce più di 200 acquari di 41 paesi impegnati a sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sui rifiuti marini.
Il museo oceanografico di Monaco ha ospitato il 3 marzo una cerimonia per celebrare tanto il lancio quanto il passaggio di consegne dalla Commissione europea all’ONU per quanto riguarda la direzione della coalizione degli acquari, ora affidata al Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) nell’ambito della campagna “Clean Seas”.

Questo mese la Commissione europea presenterà la nuova strategia dell’UE sulla biodiversità, che mira a proteggere e ripristinare la natura in Europa e che illustra le ambizioni dell’UE per la CoP 15 sulla biodiversità. Inoltre, la “Settimana verde” dell’UE, un importante evento pubblico partecipativo in programma dal 1º al 5 giugno 2020, si prefigge di mobilitare la società a beneficio della natura e della biodiversità, con decine di eventi in tutta Europa e conferenze a Lisbona e Bruxelles.

Secondo una relazione pubblicata nel 2019 dalla piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici IPBES, la natura a livello globale è in declino a tassi senza precedenti nella storia dell’umanità. Il tasso di estinzione delle specie sta accelerando: quelle in pericolo sono un milione, con un conseguente rischio di gravi ripercussioni sulle persone in tutto il mondo. Gli ecosistemi non sarebbero più in grado di sostenere l’umanità fornendo acqua, nutrimento, aria pulita e legname e risulterebbero seriamente compromesse anche le funzioni di impollinazione, regolazione del clima, formazione del suolo e regolazione delle piene.

Testo della dichiarazione di impegno (in inglese)

Fonte: Commissione europea




L’epidemiologia veterinaria si fa (anche) coi dati ambientali

All’origine dell’epidemia di peste del 1347, che dall’Asia centrale dilagò in tutta Europa decimando almeno un terzo della popolazione, ci furono probabilmente condizioni climatiche particolarmente favorevoli di caldo e umidità. L’interdipendenza fra clima, ambiente e salute però non era ancora chiara; d’altronde i medici di allora non furono nemmeno in grado di capire che la trasmissione del patogeno era causata dalle pulci, propendendo piuttosto per la punizione divina.

Dati ambientali come temperatura, quantità di precipitazioni o presenza di vegetazione possono contribuire a comprendere i meccanismi di diffusione di alcune malattie di interesse veterinario.
Oggi la disponibilità di dati ambientali come temperatura, quantità di precipitazioni o presenza di vegetazione può contribuire a comprendere i meccanismi di diffusione di alcune malattie di interesse veterinario. Nell’epoca dei big data e della sanità 4.0, dove la capacità di decodificare fenomeni complessi richiede approcci nuovi e interdisciplinari, anche lo studio di minime variazioni di una variabile ambientale può aiutare a spiegare effetti su vasta scala.

È questa l’idea alla base di EVE (Environmental data for Veterinary Epidemiology), il sistema unico semiautomatizzato sviluppato dai ricercatori del Laboratorio GIS dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), in grado di trasformare dati numerici in informazioni utili, ad esempio, nella lotta contro le zoonosi. Il sistema al momento è applicato allo studio epidemiologico di West Nile Virus e influenza aviaria.

I cambiamenti climatici osservabili a diverse scale spaziali e storico/temporali sono valutabili anche attraverso le variazioni di parametri ambientali come appunto temperatura, precipitazioni, vegetazione, umidità, salinità dei mari, fino addirittura alla durata della luce diurna. Dal punto di vista epidemiologico, queste variazioni possono influire sulle dinamiche di diffusione di malattie in aree precedentemente non affette, o interferire nella programmazione di attività legate al loro controllo e prevenzione delle zoonosi.

L’articolo integrale sul sito dell’IZS delle Venezie