La tragedia di Ischia e le sue potenziali ricadute sulla salute umana e animale

Giovanni Di GuardoL’immane tragedia che ha colpito al cuore Ischia e la sua meravigliosa gente, a soli 5 e 13 anni di distanza, rispettivamente, dal sisma e da un analogo evento alluvionale che hanno interessato l’isola, ci richiama per l’ennesima volta alla fragilità del nostro territorio ed alle azioni, non più rinviabili, che la politica nazionale e locale deve attuare al fine di porre rimedio al grave dissesto idro-geologico che ne affligge numerose quanto vaste aree, complice il progressivo surriscaldamento globale ed i fenomeni meteo-climatici ad esso connessi.

Fra le potenziali conseguenze delle alluvioni, che come avvenuto ad Ischia possono causare la movimentazione di enormi masse di acqua, fango e detriti, rientra anche il trasferimento di una folta gamma di microorganismi patogeni dagli ecosistemi terrestri a quelli marini. Ciò riguarda, in special modo, virus, batteri, funghi e parassiti responsabili d’infezioni umane ed animali a trasmissione oro-fecale, quali ad esempio – solo per citarne alcuni – Salmonella, Escherichia coli, Vibrio cholarae, Toxoplasma gondii, virus dell’epatite A e, last but not least, anche SARS-CoV-2, il betacoronavirus causa della CoViD-19. Per quanto attiene a quest’ultimo, in particolare, gia’ un paio di anni fa uno studio di colleghi cinesi pubblicato sul BMJ aveva documentato l’eliminazione di SARS-CoV-2 attraverso le deiezioni in circa il 60% dei pazienti SARS-CoV-2-infetti, per un arco temporale pari in media a ben 22 giorni!

I germi a trasmissione oro-fecale, una volta veicolati in mare dalle succitate masse di acqua, fango e detriti, possono essere ingeriti, a loro volta, da molluschi eduli bivalvi lamellibranchi quali i mitili (ciascun esemplare dei quali e’ in grado di filtrare dai 5 ai 7 litri di acqua ogni ora!), che “concentrandoli” all’interno del proprio organismo si comporterebbero come vere e proprie “bombe biologiche” qualora venissero consumati senza sottostare ai preventivi protocolli di depurazione previsti “ope legis“. Vale la pena ricordare, a tal proposito, la drammatica epidemia insorta nell’estate del 1973 fra la popolazione di Napoli e di Bari in seguito al consumo di mitili crudi contaminati dal vibrione del colera.

Un’altra rilevante conseguenza legata al potenziale trasferimento di microorganismi patogeni dalla terraferma al mare in seguito alla comparsa di eventi alluvionali riguarda i Cetacei, il cui stato di salute e di conservazione risulta sempre più minacciato per mano dell’uomo. Non a caso, infatti, le indagini che stiamo svolgendo anche nel nostro Paese documentano un progressivo incremento nella frequenza delle infezioni sostenute da agenti a trasmissione oro-fecale (vedi Toxoplasma gondii) soprattutto fra le specie costiere, quali ad esempio il tursiope. Altri nostri recenti studi hanno parimenti dimostrato l’esistenza di una spiccata omologia di sequenza fra il recettore ACE-2 dell’uomo, utilizzato dal virus SARS-CoV-2 per entrare nelle nostre cellule, e quello di varie specie di Cetacei diffusamente popolanti il “Mare Nostrum”, quali giustappunto il tursiope e la stenella striata. E, sebbene l’infezione da SARS-CoV-2 non sia stata finora descritta in natura nei Cetacei – a dispetto del fatto che ben 30 diverse specie animali risulterebbero spontaneamente e/o sperimentalmente suscettibili nei confronti della stessa -, l’elevato grado di omologia del loro recettore ACE-2 rispetto a quello umano conferirebbe plausibilita’ biologica all’ipotesi che anche delfini e balene possano svilupparla, con tutte le potenziali ricadute negative che ciò potrebbe arrecare al loro sempre più precario stato di salute e di conservazione.

Concludo questa mia riflessione sottolineando che, per quanto i drammatici fatti coi quali ci si sta attualmente confrontando ad Ischia non consentano al momento di definire le fattispecie sin qui esposte come una “cogente priorità” – cosa peraltro facilmente comprensibile -, la gestione “a medio e a lungo termine” di tale emergenza e, più in generale, di tutte quelle il cui “minimo comune denominatore” si identifica nel grave dissesto idro-geologico che caratterizza intere aree del nostro Paese, necessita senza alcun dubbio ed improcrastinabilmente di un approccio “olistico, multidisciplinare ed evidence-based”, profondamente permeato dal salutare quanto salvifico principio/concetto della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Giovanni Di Guardo

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Il batterio Listeria Monocytogenes individuato per la prima volta in una tartaruga marina

Un passo in avanti fondamentale per capire il ruolo di questo microrganismo patogeno nell’ecosistema marino

 Una tartaruga spiaggiata recuperata sulle coste abruzzesi, morta dopo pochi giorni, ha rappresentato il punto di partenza per una ricerca che ha portato all’isolamento di Listeria monocytogenes . Si tratta della prima volta nella quale questo microrganismo viene individuato in un rettile marino, aprendo la strada a nuove ricerche per capire meglio la sua diffusione nell’ambiente.

Lo studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e pubblicato sulla rivista scientifica Animals , ha preso in esame una tartaruga della specie Caretta caretta, la più diffusa nel Mediterraneo. L’animale, trovato su una spiaggia del comune di Ortona, in Abruzzo, era stato raccolto dal Centro Studi Cetacei ONLUS e trasferito al Centro di Recupero e Riabilitazione Tartarughe Marine di Pescara. Le sue già gravi condizioni lo avevano portato a morte nel giro di sei giorni.

A questo punto sono iniziate le indagini da parte dei laboratori dell’IZS, dove la carcassa era stata trasferita. Con un risultato piuttosto sorprendente: la tartaruga era affetta da listeriosi, infezione che ne aveva causato la morte. Potenziale responsabile di contaminazione alimentare e, seppur raramente, causa di infezioni anche gravi negli esseri umani, l’attenzione verso questo batterio deve essere sempre mantenuta alta.

Listeria monocytogenes – dice Ludovica Di Renzo, prima autrice del lavoro scientifico – è largamente diffusa, sia nel suolo che nelle acque dolci. Inoltre il batterio è anche capace di sopravvivere per settimane nell’ambiente marino. Questo rilevamento in un rettile come la Caretta caretta, animale che consideriamo uno dei migliori indicatori della salute dei mari, ci apre prospettive nuove per capire meglio la diffusione di Listeria monocytognes e le sue capacità di adattamento. Siamo stati in grado di studiare la tartaruga entro pochissimo tempo dalla morte, un risultato che è reso possibile grazie all’esistenza in Abruzzo della Rete Regionale Spiaggiamenti e del Centro Studi Cetacei”.

Dagli studi condotti sul genoma è risultato che il ceppo di Listeria monocytogenes isolato dall’IZS presenta geni di virulenza, che lo rendono capace di causare infezioni gravi negli animali, e potenzialmente nell’uomo. “Da questo punto di vista – continua la ricercatrice – le nostre osservazioni confermano l’ipotesi che gli ambienti selvatici, compreso quello marino, favoriscano il mantenimento e la diffusione di ceppi potenzialmente virulenti di Listeria monocytogenes. I nostri prossimi passi, ora, riguarderanno studi genomici che potranno darci informazioni preziose sulla distribuzione in natura del patogeno e geni di virulenza ad esso associati.

La presenza di un batterio potenzialmente pericoloso come Listeria monocytogenes in animali marini sottolinea anche un aspetto più ampio, come evidenzia Di Renzo: “Per molti il concetto di ‘One health’, di una salute globale che comprenda uomo, animali e piante, è limitato agli ambienti terrestri. Invece vediamo sempre di più che è arrivato il momento di includere anche il mare nell’idea di questo sistema unico ed integrato”.

Il lavoro scientifico pubblicato su Animals, infine, rappresenta l’occasione di raccomandare a tutti l’adozione di misure di precauzione quando si ha a che fare con animali spiaggiati, spesso oggetto della curiosità di bagnanti, soprattutto bambini. Il potenziale pericolo di infezioni deve infatti sempre essere considerato. “La cautela e l’adozione di buone pratiche nell’approccio a un animale spiaggiato, anche se si tratta di una piccola tartaruga – conclude la ricercatrice – vale non solo per gli specifici operatori impegnati nel recupero, ma anche per tutti i cittadini”.

Fonte: IZS Teramo



Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2022: sfruttare l’automazione per trasformare i sistemi agroalimentari

FAOL’automazione agricola, che spazia dai trattori fino all’intelligenza artificiale, può contribuire enormemente a rendere la produzione alimentare più efficiente ed ecologica. Il fatto, tuttavia, che sia sfruttata in maniera disomogenea può addirittura inasprire le disuguaglianze, soprattutto se rimane inaccessibile ai piccoli produttori e ad altri gruppi emarginati, come i giovani e le donne.

L’edizione 2022 del rapporto “Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura” (SOFA), uno dei rapporti faro pubblicati ogni anno dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), esamina in che modo l’automazione nei sistemi agroalimentari può concorrere al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e formula raccomandazioni destinate ai responsabili politici su come ottimizzare i benefici e ridurre al minimo i rischi.

Dai servizi di noleggio di trattori in Ghana fino alle casse di gamberetti che utilizzano l’apprendimento automatico e la robotica in Messico, il rapporto passa in rassegna 27 studi di casi in tutto il mondo, che illustrano tecnologie a vari stadi di sviluppo e capaci di rispondere alle esigenze di aziende agricole di diverse dimensioni e livelli di reddito.

Il rapporto analizza i fattori che muovono lo sviluppo di tali tecnologie e individua alcune barriere che ne ostacolano l’adozione, in particolare, da parte dei piccoli produttori. Alla luce di tale analisi, la pubblicazione suggerisce politiche per garantire che l’automazione agricola sia inclusiva e contribuisca alla creazione di sistemi agroalimentari sostenibili e resilienti.

Infine, il rapporto esamina anche uno dei più frequenti timori legati all’automazione, ossia la possibilità che essa crei disoccupazione, concludendo che tali preoccupazioni non sono supportate dai fatti.

Al contrario, secondo il rapporto, l’automazione, in generale, riduce la carenza di manodopera e può rendere la produzione agricola più resiliente e dinamica, migliorare la qualità dei prodotti, accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, promuovere un’occupazione dignitosa e incrementare la sostenibilità ambientale.

“La FAO è realmente convinta che, senza il progresso tecnologico e un aumento della produttività, non sia possibile affrancare centinaia di milioni di persone dalla povertà, dalla fame, dall’insicurezza alimentare e dalla malnutrizione,” scrive il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu, nella prefazione al rapporto. “Il nocciolo della questione è capire, non tanto se l’automazione troverà o meno applicazione in agricoltura, quanto in che modo essa sia portata avanti nella pratica.  Dobbiamo, cioè, garantire che l’automazione dei processi produttivi avvenga in maniera inclusiva e tale da promuovere la sostenibilità.”

Progressi nel campo dell’automazione

Fin dall’antichità, gli esseri umani hanno cercato di ridurre la fatica del lavoro agricolo sviluppando strumenti ingegnosi e sfruttando la forza del fuoco, del vento, dell’acqua e degli animali. Nel 4000 a.C., gli agricoltori mesopotamici utilizzavano già l’aratro trainato da buoi, mentre i primi mulini idraulici hanno fatto la loro comparsa, in Cina, intorno al 1000 a.C.

Negli ultimi due secoli, il ritmo del cambiamento tecnologico ha subito una drastica accelerazione, innescata dalla scoperta del motore a vapore e, successivamente, sostenuta dall’avvento dei trattori alimentati da combustibili fossili.

Al giorno d’oggi, è in corso una nuova rivoluzione, che è guidata dalle tecnologie digitali. Tra queste, si annoverano l’intelligenza artificiale, i droni, la robotica, i sensori e i sistemi satellitari globali di navigazione, accanto alla vasta proliferazione di dispositivi portatili, come i cellulari e un’infinità di nuovi dispositivi collegati a Internet, il cosiddetto Internet delle cose. Un altro importante sviluppo riguarda l’ambito dell’economia della condivisione. In Africa e in Asia, per esempio, i servizi di beni condivisi adottano un modello simile all’applicazione dei taxi Uber, che permette agli agricoltori di piccole e medie dimensioni di accedere a macchinari costosi, come un trattore, senza doverli necessariamente acquistare.

L’enorme disparità che si osserva nella diffusione dell’automazione tra vari paesi e all’interno degli stessi è un fattore cruciale, soprattutto nelle regioni, come l’Africa subsahariana, dove l’adozione di tali strumenti è particolarmente limitata. Per esempio, già nel 2005, si calcolava che in Giappone erano disponibili oltre 400 trattori per 1 000 ettari di terra arabile, rispetto agli appena 0,4 trattori presenti in Ghana.

Alcune tecnologie, inoltre, sono ancora in fase di prototipazione, mentre la diffusione di altre è ostacolata da scarse infrastrutture di appoggio (come la connettività e l’elettricità), soprattutto nei paesi a basso e medio reddito.

È bene, infine, ricordare che alcune tecnologie, come i grandi macchinari motorizzati, possono avere effetti ambientali negativi, poiché contribuiscono alla monocultura e all’erosione del suolo. Ad ogni modo, la recente diffusione di macchinari di più piccole dimensioni sta aiutando a superare tali criticità.

Raccomandazioni politiche

Il principio cardine su cui poggiano le raccomandazioni politiche formulate nel rapporto ruota attorno all’idea di un cambiamento tecnologico responsabile. Tale prospettiva comporta, per un verso, la necessità di prevedere l’impatto delle tecnologie sulla produttività, la resilienza e la sostenibilità, e, per un altro verso, la disponibilità a concentrarsi sui gruppi vulnerabili ed emarginati.

La chiave di volta consiste nel creare un contesto favorevole, che presupponga un uso coerente di vari strumenti politici contemporaneamente, tra cui norme e regolamenti, infrastrutture, accordi istituzionali, istruzione e formazione, ricerca e sviluppo, e il sostegno ai processi d’innovazione del settore privato.

Tra gli impegni presi per ridurre una diffusione disomogenea dell’automazione dovrebbero esserci gli investimenti inclusivi, con la partecipazione di produttori, fabbricanti e fornitori di servizi, in particolare giovani e donne, allo scopo ultimo di sviluppare ulteriormente le tecnologie e adattarle alle esigenze specifiche degli utenti finali.

Inoltre, gli investimenti e altre azioni politiche concepite per promuovere un’automazione responsabile in ambito agricolo dovrebbero tener conto delle condizioni specifiche di una determinata area, come lo stato della connettività, le sfide legate alle conoscenze e alle competenze, l’adeguatezza delle infrastrutture e le disparità di accesso. Anche le condizioni biofisiche, topografiche e climatiche giocano un ruolo in tal senso. Per esempio, piccoli macchinari e addirittura gli strumenti manuali possono offrire benefici sostanziali ai piccoli produttori che lavorano i terreni collinari.

Infine, il rapporto prende in esame i diffusi timori per i possibili impatti negativi delle tecnologie che semplificano il lavoro, in termini di disoccupazione e trasferimento dei posti di lavoro. Pur concludendo che tali timori sono eccessivi, il rapporto riconosce che l’automazione in agricoltura può effettivamente generare disoccupazione nelle zone in cui la manodopera rurale è abbondante e i salari sono bassi.

In tali zone ad alta intensità di manodopera, i responsabili politici dovrebbero evitare di incentivare l’automazione e concentrarsi piuttosto sulla creazione di un contesto favorevole per la sua adozione, offrendo, al tempo stesso, forme di protezione sociale ai lavoratori meno qualificati, che hanno maggiori probabilità di perdere il lavoro durante la transizione.

Definizioni

Con il termine automazione agricola nel rapporto si intende il ricorso a macchinari e attrezzature nelle attività agricole per migliorare la diagnosi, il processo decisionale o le prestazioni, riducendo la fatica del lavoro agricolo e/o migliorando la tempestività, nonché potenzialmente la precisione, delle operazioni agricole.

Con l’espressione sistemi agroalimentari si intende l’intera gamma di attori, nonché le attività generatrici di valore aggiunto ad essi correlate, coinvolti nella produzione primaria di alimenti e prodotti agricoli non alimentari, nonché nello stoccaggio, nell’aggregazione, nel trattamento post-raccolta, nel trasporto, nella lavorazione, nella distribuzione, nella commercializzazione, nello smaltimento e nel consumo di tutti i prodotti alimentari, compresi i prodotti di origine non agricola.

Fonte: FAO



Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

 La Regione Lombardia, dal 2012 si è dotata di un piano di Monitoraggio Sanitario della Fauna selvatica che si pone lo scopo di monitorare non solo un gruppo determinato di patologie e relative specie nelle quali ne è nota la possibile presenza, ma più in generale anche eventuali fenomeni di spillover (passaggio di virus) nella fauna selvatica.

Nell’ultimo ventennio infatti in Lombardia come in tutta Italia, si è assistito a un continuo ed esponenziale aumento delle popolazioni di animali selvatici, sia per consistenza numerica sia per distribuzione geografica, raggiungendo livelli tali da rappresentare un’entità non più trascurabile in termini di potenziali fattori di rischio sanitario per gli animali domestici e per l’uomo.

La diffusione degli animali selvatici e i conseguenti aumentati contatti con l’uomo esitano in un continuum epidemiologico tra animali selvatici, domestici e specie umana favorendo, tra le altre cose, la possibile diffusione e reciproca trasmissione di malattie comuni, nuove, emergenti o re-emergenti.

È infatti un dato da tempo assodato che le malattie trasmissibili all’uomo di origine animale (c.d. zoonosi) originate dalla fauna selvatica, possono rappresentare una minaccia per la salute umana e individuare tempestivamente la comparsa e contrastarne efficacemente la diffusione rappresenta una priorità per la salute pubblica.

Grazie alla preziosa rete di collaborazione garantita dal Piano di monitoraggio, sviluppato dalla UO Veterinaria della DG Welfare e che vede come attori anche l’IZSLER e i Centri di Recupero degli Animali Selvatici, è stato possibile identificare per la prima volta in Italia il virus Issyk-Kul (ISKV).

Allo stato attuale si sa ancora poco su questo virus, anche se è descritto come causa di possibili focolai di malattia nell’uomo caratterizzati da febbre, mal di testa, mialgia, e nausea con tempi di convalescenza anche di alcune settimane (Vedi Scheda Tecnico-Scientifica).

Il virus è stato isolato da un pipistrello appartenente ad una specie (Hypsugo savii) sedentaria e molto diffusa nelle aree urbane, che utilizza gli edifici come siti di rifugio suggerendo possibili implicazioni per la salute pubblica. L’isolamento è stato eseguito su un esemplare deceduto spontaneamente presso il CRAS WWF della Valpredina e analizzato presso l’IZSLER all’interno delle indagini di sorveglianza passiva sui pipistrelli previste dal Piano Fauna Selvatica di Regione Lombardia.

Ad oggi l’IZSLER ha registrato una sola positività e sono in coso ulteriori indagini volte a definire la diffusione, distribuzione ed ecologia di questo virus, che permetterà anche di acquisire informazioni utili a definire la prevalenza/incidenza di ISKV per meglio capire se esiste un eventuale rischio di trasmissione e diffusione agli animali e all’uomo.

Questa importante scoperta, resa possibile grazie al lavoro di coordinamento della DG Welfare dei diversi attori coinvolti nel Piano di monitoraggio sanitario della fauna selvatica, ivi inclusi l’IZSLER e i CRSA regionali, sottolinea come le attività di sorveglianza sanitaria degli animali selvatici siano un importante momento di conoscenza e di prevenzione di possibili comparsa di fenomeni di spillover anche nel territorio di Regione Lombardia.

L’attività di monitoraggio rientra nel quadro delle numerose attività dell’IZSLER nella cosiddetta One Health (Una Sola Salute).

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Elenco delle specie animali selvatici ed esotici che possono essere detenuti come animali da compagnia

Il 27 ottobre 2022 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Ministeriale 11 ottobre 2022 “Individuazione degli animali di specie selvatiche ed esotiche prelevate dal loro ambiente naturale come animali da compagnia”.

Il decreto indica un elenco di animali esotici salvatici che, (in deroga al divieto di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 5 agosto 2022, n. 135), possono essere prelevati dal loro ambiente naturale per la detenzione come animali da compagnia. L’elenco è stato predisposto secondo le attuali conoscenze scientifiche in base al rischio sanitario, al rischio per la biodiversità e alla compatibilità con la detenzione in cattività per ragioni comportamentali, fisiche, biologiche ed etologiche.

Pertanto, la lista prevede solo le 6 specie che secondo le conoscenze attuali non rappresentano un rischio per la biodiversità. Tale lista potrà essere aggiornata almeno ogni 5 anni.

Fonte: Ministero della salute




Online la Lista Rossa degli uccelli nidificanti in Italia

I dati aggiornati al 2021 fanno seguito alla valutazione del 2012

L’obiettivo principale della Lista Rossa degli uccelli nidificanti in Italia  è stato l’aggiornamento della valutazione del rischio di estinzione degli uccelli nidificanti in Italia, a dieci anni di distanza dall’ultima valutazione del 2012. Ciò ha consentito di valutare la tendenza nel tempo del rischio di estinzione per questo importante gruppo di vertebrati terrestri.

La valutazione ha riguardato tutte le specie di uccelli che nidificano nel nostro paese e per ogni specie è stata valutata l’intera popolazione nel suo areale italiano (Italia peninsulare, isole maggiori e, dove rilevante, isole minori).

Delle 278 specie valutate, cinque sono estinte nella regione, di cui una in tempi recenti (Gobbo rugginoso).

Le specie minacciate di estinzione sono un totale di 71 (erano 76 nel 2012), pari al 25.5% delle specie valutate (la percentuale stimata, corretta per le specie per le quali non è possibile determinare il rischio di estinzione, è pari al 26.6%).

Il 49% delle specie di uccelli nidificanti italiani non è a rischio di estinzione imminente.

Escludendo i cambiamenti “non genuini” intercorsi tra il 2012 e il 2021 nelle valutazioni di rischio di estinzione (per esempio, cambiamenti dovuti alle migliori conoscenze attuali rispetto al 2012), nel complesso il rischio di estinzione degli uccelli nidificanti italiani è aumentato. In particolare, 14 specie non sono più a rischio di estinzione, mentre 22 specie sono entrate in una categoria di rischio maggiore. Complessivamente le popolazioni degli uccelli nidificanti italiani sono stabili (28%) o in aumento (34%). Circa un quarto (24%) delle popolazioni sono in declino, mentre per il 14% delle specie la tendenza demografica è sconosciuta. La principale minaccia per gli uccelli nidificanti in Italia è rappresentata dal cambiamento dei sistemi naturali, seguito da inquinamento, cambiamenti climatici, agricoltura e acquacoltura. Il numero di specie minacciate dalle specie aliene invasive è invece piuttosto ridotto.

Quando le valutazioni sono ripetute a distanza di anni, come in questo lavoro, le Liste Rosse diventano uno strumento essenziale per monitorare lo stato della biodiversità. In questa occasione abbiamo valutato una riduzione generale del rischio di estinzione per gli uccelli italiani, sebbene per alcune specie abbiamo rilevato una situazione di crescente criticità. Questo tipo di informazioni può essere utilizzato per indirizzare le azioni di conservazione più efficaci per prevenire le estinzioni e conservare nel tempo il valore della biodiversità italiana.

Pagina Liste Rosse

Fonte: IUCN Italia




Uova sostenibili ed economiche? Sono oggi possibili, grazie alle larve di mosca soldato nera

uova

Abbattere le emissioni di gas serra derivate dalla filiera avicola e offrire ai consumatori uova più sostenibili è oggi possibile e può essere persino conveniente, sia per i produttori che per i consumatori. Uno strumento particolarmente promettente per ottenere questo risultato è l’allevamento delle mosche soldato nere. Questi insetti, infatti, consentono di fornire alle galline ovaiole mangimi proteici senza nessun dispendio energetico, impiegando solo rifiuti organici. Lo dimostra la startup innovativa di Cambridge (UK) Better Origin che, come racconta il notiziario Great Italian Food Trade, negli ultimi mesi ha fornito alla catena di supermercati Morrisons, la quinta nel Regno Unito, mangime destinato alle galline ovaiole tramite micro allevamenti di mosche soldato nutrite con scarti alimentari.

La mosca soldato nera (Hermetia illucens), di cui abbiamo già parlato, è diversa dalla mosca domestica ed è tra le pochissime specie non autoctone di insetti che è possibile allevare in Ue. Nell’ultimo decennio l’interesse nei suoi confronti è cresciuto notevolmente, perché si è scoperto che la sua larva è capace di convertire gli scarti organici, inclusi i sottoprodotti di origine vegetale e animale (compreso il letame), in materie prime per mangimi, fertilizzanti, biodiesel, cosmetici.

I vantaggi di quest’operazione sono importanti. In primo luogo 1.500 tonnellate all’anno di rifiuti vengono trasformati in proteine. Inoltre la sostituzione della soia con le larve autoprodotte evita l’emissione di 5.737 tonnellate all’anno di anidride carbonica, riduzione che arriverebbe a 33 mila tonnellate l’anno se Morrisons estendesse quest’approccio a tutti i fornitori di uova con il suo marchio. L’eliminazione dell’uso di soia proveniente dal Brasile, poi, comporta anche una riduzione delle deforestazioni, visto che le proteine offerte dai 10 box di Better Origin corrispondono a circa 56 ettari di terra coltivata a soia in Sud America.

Si tratta insomma di un progetto molto efficiente, che sarebbe raccomandabile esportare, anche in considerazione del fatto che la stessa Fao indica il settore avicolo come la prima fonte al mondo di proteine animali, con un consumo che negli ultimi 60 anni è quintuplicato e per il quale prevede un aumento ulteriore. Gli insetti, da sempre nella dieta di queste specie, hanno un ruolo essenziale nello sviluppo di una zootecnia più sostenibile da tutti i punti di vista, anche quello del prezzo pagato a scaffale dai consumatori, visto che i prodotti in questione sono venduti a meno. Come abbiamo raccontato in un precedente articolo, una sperimentazione di questo tipo di alimentazione è stata condotta lo scorso anno anche in Italia, dall’Università di Torino.

In prospettiva, poi, nel rispetto di appositi disciplinari a garanzia della sicurezza alimentare, queste larve potranno anche venire autorizzate come novel food ed essere quindi ammesse nell’alimentazione umana. Su tale fronte, reso in Europa certamente più complesso dalla mancanza di una tradizione legata al consumo umano di insetti, le prime specie sono già state autorizzate (larva della farina, grillo domestico e locusta migratoria).  La scorsa estate la Commissione Ue si è espressa sul suo profilo Twitter promuovendo gli insetti come cibo nutriente e salutare, utile in una dieta sana e sostenibile, mentre in Italia sottosegretario alle Politiche agricole Gian Marco Centinaio ha commentato le dichiarazioni della Commissione contrapponendo i nuovi alimenti ai prodotti della tradizione made in Italy.

Non c’è però alcuna competizione. I novel food si possono tranquillamente affiancare agli alimenti classici della tradizione. Lo conferma anche la scelta della prima azienda autorizzata a commercializzare in Italia alimenti contenenti ingredienti derivati dagli insetti. Fucibo, questo il nome dell’azienda, ha infatti scelto di introdurre la polvere di larva della farina miscelandola come arricchimento proteico in alimenti diffusi e conosciuti. Il primo passo è stato il lancio degli snack avvenuto lo scorso aprile. Quest’estate sono invece stati proposti dall’azienda i primi biscotti: una ricetta a base di farina di mais, con un contenuto di farina di larve tra il 6% nella versione classica e il 5% in quella al cacao.

Fonte: ilfattoalimentare.it




Non solo carne, arrivano anche i formaggi sintetizzati in laboratorio

Nei laboratori europei non si stanno sperimentando solo le alternative “sintetiche” alla carne, ma anche ai formaggi. Nel futuro prossimo dovremo dunque abituarci ad assaporare caciotte e yogurt il cui latte non proviene direttamente dalla mammelle di una mucca o di una pecora? La possibilità si sta facendo sempre più concreta, come spiega un articolo pubblicato dal quotidiano britannico Times che è andato a testare gli esperimenti in corso presso l’azienda Better Dairy, nella zona est di Londra. Nei suoi uffici un team di scienziati sta cercando di creare prodotti lattiero-caseari in condizioni di laboratorio.

Alternative vegane

L’idea alla base non è quella di offrire alimenti vegetariani o vegani alternativi, come il latte d’avena o hamburger a base di piselli e ceci, ma di realizzare cibi il cui gusto riproduca esattamente quello di origine animale, rendendolo indistinguibile al palato umano rispetto all’originale. A spingere per questa rivoluzione alimentare ci sarebbe la lotta al cambiamento climatico. Secondo le Nazioni Unite nel 2015 l’industria lattiero-casearia ha prodotto oltre 1.700 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Quasi quanto la Russia, il quarto Paese che inquina di più. Caposaldo di queste sperimentazioni è la biologia sintetica, che è l’ambito in cui si è specializzato Christopher Reynolds, co-fondatore di Better Dairy, con l’ex collega universitario Jevan Nagarajah.

Milioni di fondi

L’azienda, grazie ad un finanziamento di 22 milioni di dollari, ha potuto rapidamente ampliare il suo team da nove a venticinque persone trasferendosi anche in un laboratorio più spazioso dove si produce la caseina, la proteina che conferisce ai formaggi morbidezza ed elasticità. Gli scienziati dapprima hanno osservato il genoma delle mucche per vedere come la producono, in seguito hanno riprogrammato geneticamente i microbi del lievito per ricrearla sinteticamente. “Se si pensa a un microrganismo come a un codice, si può iniziare a tagliare il codice e a spostarlo dentro e fuori”, ha spiegato Nagarajah.

Fermentazione di precisione

Come funziona questa riprogrammazione? Gli scienziati parlano di fermentazione di precisione: ossigenano i microrganismi e li alimentano con zucchero, affinché sia stimolati a produrre determinate molecole. In sostanza vengono fatti fermentare proprio come avviene con le colture per produrre birra. Dalla miscela zuccherina che si crea vanno ad estrarre la caseina. Alle proteine del latte vengono poi aggiunti altri due ingredienti: zuccheri e grassi. Infine si fa stagionare il tutto proprio come succede nella produzione di un normale formaggio. Nel laboratorio di Better Dairy, in corso d’opera, hanno apportato una correzione, sostituendo il lattosio, a cui molte persone sono intolleranti, con zuccheri di origine vegetale al fine di ampliare il proprio pubblico. “Questo non fa alcuna differenza per il prodotto finale, ma significa che possiamo abbassare il livello di colesterolo. L’idea che sta alla base del nome Better Dairy è che, facendo quello che stiamo facendo, si potrebbe ottenere un prodotto migliore dei latticini” sostiene il co-fondatore.

Assaggi insoddisfacenti

Secondo il giornalista del Times, però, “l’azienda non è ancora all’altezza del suo nome”. Sia la loro versione di cheddar che di gouda non avrebbero “un gran sapore”. Secondo il responsabile, l’assenza di gusto deriverebbe da una stagionatura troppo breve pari a un solo un mese. Solo la terza tipologia assaggiata avrebbe avuto, secondo l’autore dell’articolo, una consistenza ed un gusto che si avvicinano ad un cheddar di fascia economica. L’azienda starebbe tentando di imitare anche formaggi tipici italiani come il gorgonzola e la mozzarella, uno dei latticini più esportati dall’Italia, spesso imitato male nel nostro Paese anche quando prodotto con latte vero. Prima di poter essere commercializzati nel Regno Unito, questi alimenti dovranno essere approvati dalla Food Standards Agency e da enti equivalenti in altri Paesi, che però a livello Ue potrebbero impedirne la diffusione sotto la dicitura di “formaggi”.

Dovrebbe invece essere più semplice il via libera negli Stati Uniti, dove “diverse aziende hanno già immesso sul mercato prodotti che utilizzano la fermentazione di precisione, che si tratti di proteine del latte, proteine dell’uovo o gelatina” come dichiara l’imprenditore britannico. Secondo i calcoli, questi formaggi sintetici costerebbero all’inizio circa il doppio rispetto ai loro equivalenti naturali, ma ci sarebbe già una nicchia di clienti disposti a spendere di più. L’obiettivo è quello nel tempo di abbassare i costi e di estendere la propria fetta di mercato. Se questo avvenisse per le varie start-up che stanno realizzando esperimenti analoghi a livello globale, gli scossoni per l’industria lattiero-casearia, accusata in questi anni di sfruttare eccessivamente gli animali con allevamenti intensivi e ritmi produttivi folli, potrebbero essere notevoli e profondi. Secondo studi sul settore alimentare sono circa 600 milioni le persone nel mondo che lavorano in queste aziende, mentre altri 400 milioni sono connesse economicamente a questo settore. Lo sconvolgimento sociale potrebbe essere enorme.
Fonte: Agrifoodtoday.it



Per sfamare il pianeta dovremmo allevare roditori?

 Per sfamare una popolazione mondiale in continua crescita in maniera sostenibile dovremmo allevare i roditori? Ne parla un articolo di Giovanni Ballarini su Georgofili.info, notiziario di informazione a cura dell’Accademia dei Georgofili

Cutty Sark è il nome di uno delle più famose navi a vela veloci adibite al trasporto delle merci sulle rotte oceaniche (da New York a San Francisco via Capo Horn), utilizzate fin sul finire del XIX secolo prima della ferrovia transcontinentale americana e l’apertura del Canale di Panama. Una leggenda su questa nave racconta che l’equipaggio non soffriva di scorbuto, perché durante la navigazione il cibo a bordo veniva  integrato con i ratti, le cui carni contengono vitamina C. Secondo la leggenda, si tratta di un’abitudine  dei marinai di origine africana, che seguivano antiche abitudini alimentari delle terre d’origine, dove i topi e i ratti sono denominati ‘quaglie dei poveri’.

Mangiare piccoli animali non è comunque una cosa così strana. Ad esempio nel Medioevo europeo l’alimentazione a base di carne comprendeva: cervi, caprioli, daini e altri grandi ruminanti destinati ai signori, mentre cinghiali e maiali erano per commercianti e artigiani. Il popolo si accontentava delle carni minute di una miriade di piccoli animali che comprendevano conigli e altri roditori, uccelli di ogni taglia dai colombi ai passeri, gatti e altre bestiole catturate con i più diversi mezzi. Oggi il solo pensiero di mangiare un topo o un ratto innesca una forte reazione di disgusto nella maggior parte degli occidentali, ma per molte persone nel mondo un roditore è una delizia culinaria come ha fatto notare anche Karl Gruber (*).

Cibarsi di roditori non è quindi una nuova tendenza: le cavie sono i primi roditori addomesticati e allevati in Perù nel 2.500 a. C. In Cina, durante la dinastia Tang (618-907 d.C.), i ratti sono denominati cervi domestici e si mangiano anche appena nati ripieni di miele, in una maniera che ricorda i ghiri al miele degli antichi romani. Roditori di piccola taglia non sono quindi sgraditi ma ricercati anche dai ricchi. I ratti sono un alimento anche in alcuni Paesi dell’Indocina. In Sud e Centro America diverse specie di roditori sono molto apprezzate in cucina anche in preparazioni gastronomiche e alcune sono allevate in modo simile agli animali domestici.

I ratti della canna da zucchero (Thryonomys swinderianus), presenti in tutta l’Africa occidentale e centrale, sono roditori che raggiungono i sessanta centimetri di lunghezza e un peso di dieci chilogrammi. Sono cacciati come altri animali selvatici o allevati in Benin, Togo, Camerun, Costa d’Avorio, Gabon, Ghana, Nigeria, Senegal e altri paesi. Per i curiosi, sono già serviti in alcuni ristoranti africani in Europa, a Londra come a Parigi.  L’agouti (Dasyprocta punctata), il capibara (Hydrochoerus hydrochoerus) e la nutria (Myocastor coypus) sono trasformati in piatti in diversi paesi dell’America Latina. In Perù il cuy, cavia o porcellino d’India (Cavia porcellus), è una prelibatezza gastronomica. In Italia istrici e scoiattoli sono stati a lungo tempo considerati cibo. In molti paesi e regioni, la carne di roditori è quindi una componente della dieta delle persone, non solo dei poveri, ed è apprezzata per il suo gusto.

I roditori sono l’ordine di mammiferi più numeroso in termini di specie (probabilmente non in termini di biomassa), comprendente circa il 43% delle specie totali attualmente esistenti. Il loro successo è dovuto alla piccola taglia, al breve ciclo riproduttivo e all’abilità di rosicchiare e mangiare un’ampia varietà di cibo. L’uso alimentare dei roditori da parte dell’uomo è quasi esclusivamente un fenomeno culturale e per questo, almeno nelle molte aree del mondo dove questi animali già da tempo immemorabile sono consumati come cibo, alcuni esperti suggeriscono che allevare e mangiare roditori potrebbe essere una soluzione per alleviare i problemi di fame e malnutrizione. Un’idea non nuova, perché secondo un rapporto della Fao, almeno undici specie di roditori sono utilizzate in tutto il Centro e Sud America come fonti di carne, e un numero simile di specie viene consumato in Africa, creando allevamenti di animali di piccola taglia, ma di grande produttività e con la capacità di usare alimenti di scarto e sottoprodotti non competitivi con l’alimentazione umana.

Secondo le stime della Fao, la popolazione sulla Terra dovrebbe raggiungere i nove miliardi entro il 2050, richiedendo un aumento del 50% della produttività alimentare, soprattutto di carne. I roditori potrebbero essere un modo per contribuire ad affrontare il problema di un pianeta che non può sostenere la prevista domanda di proteine della carne. Questi animali potrebbero essere trasformati in cibo, in modo analogo a quanto sta avvenendo per gli insetti. Tutto questo considerando gli importanti se non determinanti aspetti culturali , sapendo che per una parte della popolazione mondiale mangiare roditori non sarebbe una novità, ma un ‘ritorno al futuro’.

Fonte: ilfattoalimentare.it




Il ruolo dei pipistrelli nella tutela delle foreste. E delle aree agricole circostanti

Un recente studio italiano analizza la dieta di due rare specie di pipistrelli forestali, il barbastello e l’orecchione bruno, mostrando come sia basata su una grande quantità d’insetti nocivi per la vegetazione. La predazione da parte di questi due chirotteri risulta un vantaggio sia per il bosco in cui vivono sia per le aree coltivate circostanti. Tutelare il barbastello e l’orecchione bruno, quindi, significa salvaguardare non solo le foreste, con i servizi ecosistemici che ci offrono, ma anche l’agricoltura.

Su Scienza in rete abbiamo più volte scritto di come i pipistrelli, pur spesso percepiti negativamente (per esempio, in relazione alle zoonosi), abbiano in realtà un enorme valore per gli ecosistemi, per esempio per il controllo che possono esercitare sugli insetti nocivi. La maggior parte degli studi sul ruolo dei chirotteri insettivori si è finora svolta negli Stati Uniti e si è concentrata soprattutto su alcune specie piuttosto diffuse e sugli ambienti di maggior valore economico per le nostre attività, come le aree agricole. Ora, un lavoro condotto da ricercatori e ricercatrici dell’Università Federico II di Napoli, Università di Milano Bicocca e dell’Istituto per la protezione sostenibile delle piante del CNR inizia a raccogliere alcune informazioni importanti anche per l’Italia, informazioni tanto più preziose perché riguardano due specie di chirotteri già rare e minacciate.

Lo studio, che vede come primo autore Leonardo Ancillotto ed è guidato da Danilo Russo, entrambi dell’Università Federico II di Napoli, analizza la dieta del barbastello (Barbastella barbastellus) e dell’orecchione bruno (Plecotus auritus) mostrando come le due specie, pur essendo legate all’ambiente forestale – e in particolare quello delle foreste non gestite dagli umani – possano contribuire a tutelare tanto il bosco quanto le aree agricole circostanti, perché si nutrono di numerose specie di insetti nocivi per le piante.

Il rifugio nelle foreste antiche

«Questo studio s’innesta su due filoni di ricerca che abbiamo in corso, l’uno riguardante l’ecologia dei pipistrelli forestali, relativamente poco conosciuti, e l’altro sulla dieta dei chirotteri, per la quale le tecniche molecolari messe a punto negli ultimi vent’anni hanno consentito di raggiungere un dettaglio molto maggiore di quello possibile in precedenza», spiega Russo. «Sia il barbastello sia l’orecchione bruno sono insettivori strettamente legati alle foreste mature: per questa ragione, il nostro studio si è svolto nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, che comprende faggete rimaste indisturbate per almeno cinquant’anni».

In questo ecosistema si trovano quindi molte generazioni forestali, alberi morti e altri elementi che sostengono una notevole biodiversità (non a caso, si trovano qui anche altre specie rare come il picchio di Lilford e la rosalia delle Alpi). Si tratta di un ambiente non unico, ma certo non molto diffuso in Europa dove, sebbene la copertura forestale sia aumentata nel corso degli ultimi anni, le foreste indisturbate, cioè non soggette alla gestione umana da almeno cinquant’anni, si attesta solo intorno al 2,2%. Nelle faggete del Parco, la presenza di alberi maturi, dal tronco molto più spesso di quello che potrebbe trovarsi, per esempio, nei boschi cedui, consente ai pipistrelli di reperire rifugi idonei: in particolare, il barbastello è legato alle cavità di desquamazione dei tronchi morti, mentre l’orecchione bruno utilizza cavità più profonde, come quelle scavate dai picchi.

Una dieta ricca di specie nocive

Per un mese (tra giugno e luglio 2019), autori e autrici dello studio hanno catturato i pipistrelli e li hanno tenuti per breve tempo in borse di cotone, dalle quali hanno poi prelevato gli escrementi prima di liberare gli animali. Gli escrementi sono quindi stati analizzati per identificare il DNA degli insetti ingeriti, dal quale è stato poi possibile risalire alla specie, o almeno al genere.

«Ci aspettavamo che la dieta dei pipistrelli comprendesse molti insetti essenzialmente forestali, e potesse quindi avere un ruolo nella tutela del bosco dalle specie nocive», spiega Russo. «Ma dall’analisi sono emersi due elementi importanti. Il primo è che questi pipistrelli si alimentano di insetti che non sono nocivi solo per l’ecosistema forestale ma anche per le aree agricole circostanti, tra cui molti lepidotteri (l’ordine che comprende falene e farfalle), ditteri che sono noti per il loro impatto sulle coltivazioni e anche specie nocive emergenti, in particolare il Nysius cymoides o ligeide della colza, un emittero fitofago che ha creato importanti danni alle coltivazioni negli ultimi anni. E, anche se le tecniche molecolari impiegate non ci consentono di ottenere stime quantitative, abbiamo visto che la frequenza di questi insetti nella dieta dei pipistrelli è significativa e può avere un impatto importante nella tutela delle piante: per esempio, la dieta dell’orecchione bruno può includere fino all’85% di insetti nocivi».

Primo messaggio chiave che emerge dall’analisi, quindi, è che tutelare l’habitat dell’orecchione bruno e del barbastello significa non solo proteggere la foresta da questi insetti, ma anche le aree agricole circostanti che possono esserne danneggiate. Infatti, non solo alcuni di questi insetti popolano entrambi gli ecosistemi, ma almeno il barbastello si spinge a cacciare anche su areali ampi, uscendo dal bosco e nutrendosi sui campi intorno.

Diete complementari

«Un secondo elemento interessante emerso dall’indagine è che la dieta del barbastello e dell’orecchione bruno risultano complementari, cioè vi è una sovrapposizione solo parziale delle specie di cui si nutrono», spiega ancora Russo. Infatti, dei 71 gruppi d’insetti di cui si nutre il barbastello e dei 69 individuati per l’orecchione bruno, solo 52 sono “in comune”, predati da entrambe le specie.

Questo dipende, in parte, dalle diverse tecniche di caccia attuate dalle due specie. Alcune falene, per esempio, hanno evoluto organi timpanici che consentono loro di percepire l’arrivo del predatore e mettere in campo manovre evasive (per esempio lasciandosi cadere o effettuando dei loop in volo) e che le rendono relativamente resistenti alla predazione di numerose specie di chirotteri insettivori. Ma, nel caso del barbastello e dell’orecchione bruno, queste strategie non sono sufficienti: nella corsa agli armamenti che caratterizza le relazioni tra preda e predatore, anche i pipistrelli hanno evoluto dei sistemi che consentono loro di arrivare alla falena. Il barbastello, per esempio, emette ultrasuoni molto deboli (si parla di stealth echolocation, cioè di un’ecolocazione discreta, invisibile) che la falena può percepire solo quando ormai il predatore è vicino e la fuga impossibile; l’orecchione bruno, invece, è in grado di udire passivamente il rumore che la falena produce quando si posa sulla vegetazione.

«Unito al fatto che le due specie sfruttano territori di caccia parzialmente differenti, con l’orecchione più legato all’ambiente forestale e il barbastello in grado di allargarsi anche alle aree circostanti, queste diverse strategie di caccia sono probabilmente alla base della complementarità osservata nella dieta», continua il ricercatore. «Comunque, il fatto che B. barbastellus e P. auritus si nutrano di insetti differenti indica come, mantenendo in buona salute le comunità di pipistrelli, sia possibile massimizzare i vantaggi che offrono, agendo su numerosi gruppi diversi di insetti nocivi».

Due al prezzo di uno: la protezione di bosco e aree agricole

«Di solito, sono le specie più abbondati in un dato areale a fornire la maggior parte dei servizi ecosistemici. Per questa ragione, sono scarsi gli studi che si concentrano sul ruolo ecologico delle specie rare; tuttavia, da quanto emerge dal nostro lavoro, sia il barbastello che l’orecchione bruno sono dei veri e propri specialisti, delle “truppe d’assalto” per la protezione del bosco», commenta Russo. Lo studio della dieta non può dimostrare in modo inoppugnabile che la predazione da parte di queste due specie consenta di tenere sotto controllo, dal punto di vista demografico, le popolazioni d’insetti; per questa ragione, si preferisce parlare di ruolo di “soppressione”, piuttosto che di controllo vero e proprio. Tuttavia, il fatto che la dieta dei due pipistrelli sia così ricca di specie nocive suggerisce un ruolo comunque molto importante nella tutela degli ecosistemi forestali e degli agroecosistemi.

Tanto il barbastello quanto l’orecchione bruno sono specie a rischio in Italia: il primo è a oggi classificato come in pericolo dalla IUCN, mentre il secondo è classificato come prossimo alla minaccia: una delle ragioni principali è la perdita di habitat, proprio a causa della scarsità di boschi indisturbati presenti sul nostro territorio. Se si considerano insieme l’enorme valore delle foreste, in termini di servizi ecosistemici che ci forniscono, e il ruolo dei pipistrelli forestali nella protezione sia del bosco sia delle aree agricole circostanti, diventa particolarmente evidente quanto importante sia proteggere questi ecosistemi, messi spesso a rischio non solo da una gestione poco sostenibile ma anche dagli effetti del cambiamento climatico, come gli incendi, che favoriscono anche in molti casi la diffusione d’insetti nocivi.

«È noto che i pipistrelli che abitano le aree agricole siano una protezione per le coltivazioni, ma molto meno noto è il ruolo che hanno anche le specie forestali. La possibile azione di protezione di entrambi gli ecosistemi da parte delle due specie che abbiamo studiato, invece, sottolinea ancora una volta quanto la tutela della biodiversità possa portare a benefici che superano il singolo sistema tutelato. In più, vale la pena notare che di molti insetti non manifestano un comportamento da “nocivo” solo perché sono tenuti a bada dai loro nemici naturali, pipistrelli inclusi, ma possono diventare tali se i predatori diminuiscono o scompaiono », conclude il ricercatore.

Fonte: scienzainrete.it