H5N1 corre e acquisisce mutazioni di adattamento ai mammiferi

Il virus dell’influenza aviare H5N1 corre e acquisisce mutazioni di adattamento ai mammiferi con il rischio di una nuova potenziale pandemia.

Lo conferma un recente studio pubblicato su Nature.

Il virus HPAI H5N1 derivato da bovini da latte si trasmette attraverso goccioline respiratorie nei mammiferi senza previo adattamento e causa infezioni letali in modelli animali.

Un team dell’Università del Wisconsin e del Giappone ha riferito che un isolato di H5N1 dall’occhio di un lavoratore del settore lattiero-caseario mostra una mutazione PB2-E627K legata alla replicazione nei mammiferi. Il lavoratore aveva mostrato una congiuntivite dopo l’esposizione a vacche infette.

I test hanno dimostrato la capacità del virus H5N1 di replicare sulla cornea umana e sulle cellule polmonari. Negli esperimenti sui tessuti di topo, il virus ha infettato 15 tessuti diversi, con i livelli più alti riscontrati nel tessuto respiratorio.

Il team ha infettato i furetti con un’alta carica del virus isolato dal lavoratore lattiero-caseario, trovando un modello di infezione simile a quello dell’uomo, non dei topi. Ricordo che i furetti sono modelli ideali per lo studio dell’influenza a causa dei sintomi clinici e trasmissione simili.

Tutti i furetti infetti sono morti entro cinque giorni e il campionamento dei tessuti ha mostrato la presenza del virus in tutti i tipi, in particolare nei tessuti respiratori. Al contrario, ricerche precedenti che utilizzavano un virus H5N1 bovino hanno rilevato gravi infezioni nei furetti, ma non così letali.

Tra il 17% e il 33% dei furetti nelle gabbie adiacenti sono stati infettati da goccioline respiratorie, indicando che il virus può diffondersi tra i mammiferi con questa modalità anche se con un’efficienza limitata. Tutti i furetti direttamente infetti sono morti entro sei giorni.

Maurizio Ferri,
Responsabile scientifico SIMeVeP




Le micro-nanoplastiche, una sempre più consistente minaccia per le balene, i giganti del mare!

L’ingente e progressivamente crescente contaminazione da micro-nanoplastiche (MNP) degli ecosistemi acquatici e terrestri del nostro Pianeta rappresenta senza dubbio un’emergenza di rilevanza prioritaria, come peraltro risulta testimoniato dalla lapidaria “sentenza” emessa qualche anno fa dal “World Economic Forum”, che recita testualmente: “Nel 2050 (vi sarà) più plastica che pesci nei mari e negli oceani del mondo” (World Economic Forum Report, 2016).

A rendere un siffatto scenario ancora più allarmante contribuisce il comprovato ruolo di potenti “attrattori e concentratori” esplicato dalle MNP nei confronti di una vasta gamma di “contaminanti ambientali persistenti”, ivi compresi metalli pesanti quali il metil-mercurio (MeHg), oltre a numerose categorie di xenobiotici di natura organica quali le diossine, i policlorobifenili (PCB), gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e le sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate (PFAS) (Xiang et al., 2022).

Fra le conseguenze negative di tale fenomeno, ritengo opportuno segnalare la consistente “destabilizzazione” arrecata alle catene trofiche in ambito marino e oceanico, con particolare riferimento alle balene, che da “consumatori secondari” (visto e considerato che di zooplancton normalmente si nutrono) si ritroverebbero “improvvisamente” a scalare numerose posizioni della catena alimentare, attestandosi in pratica sui livelli di “predatori apicali” quali delfini, orche ed orsi polari (Berta et al., 2022).

Le ricadute sulla salute e sulla conservazione di queste gigantesche quanto iconiche creature del mare, sempre più minacciate per mano dell’uomo, sarebbero particolarmente gravi in quei contesti geografici ove si registrano alti livelli di contaminazione chimico-ambientale, quali ad esempio il Mar Mediterraneo (Concato et al., 2023).

Ciò a motivo dei documentati effetti immunotossici e neurotossici prodotti da molti contaminanti ambientali persistenti, nonché dai variegati “cocktail” fra gli stessi, senza peraltro tralasciare la rilevante “interferenza” da essi esplicata nei confronti di molteplici attività e funzioni endocrine dell’ospite (Jeong et al., 2024).

Tale quadro risulterebbe ulteriormente aggravato dalla comprovata azione vettrice esercitata dalle MNP nei confronti di svariati agenti patogeni, ivi compresi batteri antibiotico-resistenti che potrebbero trasferire ad altri microorganismi una serie di geni coinvolti nel fenomeno dell’antibiotico-resistenza (Di Guardo, 2023).

Alla luce di quanto sopra esposto ed in considerazione della grande rilevanza e complessità della problematica qui rappresentata, ritengo che un approccio multidisciplinare, ispirato al principio/concetto della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente -, possa verosimilmente costituire la migliore strategia sia per quantificare la reale “magnitudo” di tali fenomeni sia per mitigare le conseguenze deleterie connesse alla crescente esposizione alle MNP della cetofauna popolante i mari e gli oceani del nostro Pianeta.

Bibliografia consultata

1) Berta A., Kienle S.S., Lanzetti A. Evolution: Killer whale bites and appetites. Curr. Biol. 2022; 32(8):R375-R377. DOI: 10.1016/j.cub.2022.03.001.
2) Concato M., et al. Detection of anthropogenic fibres in marine organisms: Knowledge gaps and methodological issues. Mar. Pollut. Bull. 2023; 191:114949. DOI: 10.1016/j.marpolbul.2023.114949.
3) Di Guardo G. Flood-Associated, Land-to-Sea Pathogens’ Transfer: A One Health Perspective. Pathogens 2023; 12(11):1348. DOI: 10.3390/pathogens12111348.
4) Jeong H., Ali W., Zinck P., Souissi S., Lee J.S. Toxicity of methylmercury in aquatic organisms and interaction with environmental factors and coexisting pollutants: A review. Sci. Total Environ. 2024; 943:173574. DOI: 10.1016/j.scitotenv.2024.173574.
5) Xiang Y., et al. Microplastics and environmental pollutants: Key interaction and toxicology in aquatic and soil environments. J. Hazard. Mater. 2022; 422:126843. DOI: 10.1016/j.jhazmat.2021.126843.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Pillole ambientali e sanitarie sulle zanzare

Si svolgerà il 16 settembre a Piombino (LI) con il patrocinio del Comune e della SIMeVeP, l’evento “Pillole ambientali e sanitarie sulle zanzare” organizzato dall’Azienda Usl Toscana Nord ovest, pensato per sensibilizzare la cittadinanza sulla problematica delle zanzare e delle malattie che possono trasmettere, cercando di fornire informazioni e strumenti utili per prevenire e contrastare la diffusione di questi insetti molesti.

L’appuntamento è per le ore 17.00 presso il Centro Giovani di Piombino

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Carne coltivata: cosa possiamo aspettarci?

carne rossa cucinataLa carne coltivata sta diventando realtà: a fine luglio il governo britannico ne ha autorizzato la produzione, anche se per ora si tratta solo di alimenti destinati agli animali domestici. Ma l’interesse delle aziende e delle agenzie legislative fa pensare che in futuro dovremmo farci i conti: entro il 2040 il 60% del consumo di carne potrebbe essere coperto da sostituti, tra cui anche la carne coltivata. Per capirne di più “Il fatto Alimentare” ne ha parlato con Maurizio Ferri, coordinatore scientifico SIMeVeP e autore di un ampio rapporto sul tema.

Non è facile fare previsioni, – esordisce Ferri. – Le stime fornite dalla società di consulenza AT Kearney prevedono che tra venti anni la carne coltivata rappresenterà il 35% del mercato della carne, mentre quella convenzionale solo il 40%, e Uma Valeti, fondatore e CEO dell’azienda Upside Foods, ha dichiarato al Wall Street Journal che tra venti anni la maggior parte della carne venduta nei negozi sarà coltivata, o comunque in forma ibrida. Anche se ci sono start up che dopo l’entusiasmo iniziale sono state costrette a chiudere”.

Leggi l’intervista completa




Vaiolo delle scimmie, non proprio tutto ci viene raccontato dai media!

La recente segnalazione, in Svezia, del primo caso d’infezione registrato al di fuori del Continente Africano e sostenuto dal clade Ib del virus del vaiolo delle scimmie (Monkeypox virus, MPXV) ha destato notevole clamore mediatico, che e’ risultato ulteriormente accresciuto a seguito dell’accertamento di un secondo caso di malattia (anch’esso d’importazione) in Thailandia.

In effetti il succitato ceppo virale, imparentato con il clade I (Ia) di MPXV, dal quale potrebbe essersi evoluto centinaia di anni fa (Kupferschmidt, 2024), sarebbe emerso nella Repubblica Democratica del Congo – ove sarebbero stati gia’ segnalati almeno 18.000 casi con oltre 600 decessi, soprattutto fra i bambini (Reardon, 2024) -, per poi diffondersi rapidamente ai Paesi limitrofi, rappresentati da Kenya, Uganda, Ruanda e Burundi. Si tratta, nello specifico, di un ceppo virale ben più patogeno e virulento rispetto al clade II di MPXV, precedentemente emerso in Africa occidentale e responsabile di un’epidemia già dichiarata nel Luglio 2022 dall’OMS “emergenza internazionale di sanita’ pubblica”, epidemia che “illo tempore” aveva coinvolto quasi 100.000 individui in 116 Paesi, con circa 200 casi di malattia ad esito fatale.

A differenza di quest’ultimo, il clade Ia di MPXV colpirebbe in misura rilevante la popolazione in età pediatrica, al cui interno si registrerebbe un indice di letalita’ pari al 10% (a fronte di una mortalita’ pari a non più dell’1% nelle infezioni sostenute dal clade II, comunque più diffusivo e contagioso rispetto al clade Ib), caratterizzandosi altresì per una modalità di trasmissione sia omo- ed etero-sessuale sia per contatto diretto con la cute e/o le mucose di individui infetti (Reardon, 2024).

Se è vero come è vero che tutte queste informazioni – sulla cui fondamentale rilevanza non vi è alcunché da eccepire – sono divenute di dominio pubblico grazie alle incessanti campagne di comunicazione poste in essere dai mass media nazionali ed internazionali, non altrettanto si può affermare a proposito della straordinaria resistenza ambientale di MPXV, che in ciò risulterebbe accomunato a tutti gli altri membri della Famiglia Poxviridae, di cui lo stesso fa parte.

Infatti, come ho già avuto modo di richiamare in una mia lettera all’Editore recentemente pubblicata sulla prestigiosa Rivista internazionale “Veterinary Record” (Di Guardo, 2024), l’elevata resistenza di tali DNA-virus nei confronti dell’inattivazione chimico-fisica li renderebbe pienamente capaci di persistere al di fuori dei propri ospiti e per lunghi periodi di tempo nell’ambiente esterno.

Ciò potrebbe giustificare il trasferimento, anche a notevole distanza rispetto al sito in cui ne sarebbe avvenuta l’eliminazione ad opera di uno o più individui infetti, di MPXV – cosi’ come di altri Poxvirus ed, in generale, di tutti gli agenti biologici, virali e non, dotati di un’elevata resistenza ambientale -, complici gli aerosol originatisi dalla terraferma (al pari di quelli provenienti dagli ambienti marini, c.d. “sea spray aerosols“) a seguito di eventi/fenomeni meteo-climatici estremi quali trombe d’aria, uragani e tempeste, di sempre piu’ frequente riscontro negli oggettivi contesti di “crisi climatica” e di “riscaldamento globale” che contraddistinguono la presente era dell’Antropocene (Di Guardo, 2024).

A tal proposito, andrebbe adeguatamente sottolineato che gli ultimi nove anni (2015-2023) sono stati quelli più caldi vissuti da nostra Madre Terra nel corso degli ultimi duemila anni, uno scenario drammatico rispetto al quale il 2023 si è caratterizzato come l’anno decisamente più caldo (Esper et al., 2024).

E, mentre il 2024 avrebbe a sua volta tutte le carte in regola per infrangere un siffatto record (Witze, 2024), assai poco invidiabile per la verità, sovviene in mente il “grido di dolore” di Papa Francesco, che già in una Sua eloquente missiva del 2020, indirizzata al Presidente della Colombia in occasione della “Giornata Mondiale dell’Ambiente” ed in piena pandemia da CoViD-19, scriveva testualmente: “Come possiamo immaginare di vivere sani in un mondo malato?“.

Sarebbe “cosa buona e giusta” che anche alle succitate (e mediaticamente ignorate) caratteristiche eco-epidemiologiche del virus MPXV e dell’infezione dallo stesso sostenuta nell’uomo, così come negli animali – tenendone bene a mente, in proposito, il duplice comportamento “zoonosico” ed “antroponosico” -, si facesse riferimento nel decifrare l’origine dei vari focolai di malattia, soprattutto in quei casi in cui dovesse risultare particolarmente difficile individuare le vie/modalità di acquisizione/trasmissione dell’infezione e, più in generale, in quella che in gergo epidemiologico si è soliti definire “analisi del rischio”.

E, poiché anche il virus MPXV fa parte del lunghissimo elenco degli agenti patogeni, virali e non, dotati di comprovata capacità zoonosica, viene avanti ancora una volta, in maniera quantomai forte e prioritaria, la necessità di porre in essere un approccio ispirato al principio/concetto della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – al precipuo fine di gestire, prevenire e contrastare efficacemente la comparsa di nuovi focolai di malattia nell’uomo e negli animali, facendo tesoro delle memorabili lezioni che la pandemia da CoViD-19 ci ha consegnato.

Repetita iuvant, mai come in questo caso!

 

 

Bibliografia

Di Guardo G. (2024). Consideration of environmental aerosols. Veterinary Record 194(3):119. doi: 10.1002/vetr.3930.
Esper J., Torbenson M., Büntgen U. (2024). 2023 summer warmth unparalleled over the past 2,000 years. Nature 631, 94–97 (2024). https://doi.org/10.1038/s41586-024-07512-y
Kupferschmidt K. (2024). Confused about the mpox outbreaks? Here’s what’s spreading, where, and why. Science DOI: 10.1126/science.zbye5pv.
Reardon S. (2024). Mpox is spreading rapidly. Here are the questions researchers are racing to answer. Nature DOI: https://doi.org/10.1038/d41586-024-02793-9.
Witze A. (2024). Earth boiled in 2023. Will it happen again in 2024? Nature 625: 637-639. DOI: https://doi.org/10.1038/d41586-024-00074-z.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP, Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Le nuove, intriganti traiettorie di SARS-CoV-2 nel mondo animale

E’ di poche settimane fa la notizia relativa ad un ulteriore ampliamento del già ampio spettro d’ospite posseduto dal betacoronavirus SARS-CoV-2, il famigerato agente responsabile della pandemia da CoViD-19.

Nello specifico, ben 6 nuove specie di mammiferi selvatici (opossum, procione, marmotta, topo cervo, silvilago orientale e pipistrello rosso) si sono aggiunte all’elenco di quelle, sia domestiche sia selvatiche, già dichiarate suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, mentre una sin qui inedita mutazione sarebbe stata descritta a carico del gene codificante per la “Spike (S) protein” – grazie alla quale si realizza l’interazione del virus con il recettore ACE2 posto sulla superficie delle cellule-ospiti – nell’opossum, analogamente a quanto avvenuto verso la fine del 2020 nei visoni degli allevamenti danesi e olandesi per il ceppo virale denominato “Cluster 5”.

E come non citare, in proposito, il ben noto caso dei cervi a coda bianca (Odocoileus virginianus) statunitensi nella cui popolazione il virus, previamente acquisito da Homo sapiens sapiens (c.d. “spillover“), si sarebbe diffuso in lungo e in largo per “ritornare” successivamente all’uomo (c.d. “spillback” o “zoonosi inversa”) in forma mutata, come già accaduto nei visoni d’allevamento in Danimarca e nei Paesi Bassi?

A fronte dell’elevato e progressivamente crescente numero di specie suscettibili nei confronti dell’infezione dal SARS-CoV-2, che a tutt’oggi supererebbe le 50 unità, ciò che maggiormente preoccupa (o, per meglio dire, ci dovrebbe preoccupare) è la distanza filogenetica esistente fra le stesse, che in una normale dinamica d’interazione ospite-parassita (ospite-virus, nella fattispecie) costituisce un fondamentale determinante biologico e prerequisito rispetto alla cosiddetta “barriera di specie”.

Quest’ultima, nel caso del betacoronavirus responsabile della CoViD-19, sarebbe definita dal livello di omologia esistente fra il recettore ACE2 umano e quello della specie animale di volta in volta considerata, con particolare riferimento alla regione/sequenza del succitato recettore direttamente interagente con il “receptor-binding domain” (RBD) situato all’interno della (glico)proteina S del virus.

Evidentemente, nello specifico caso di SARS-CoV-2, questa barriera di specie risulterebbe oltremodo “permeabile”, così da consentire il trasferimento dell’agente virale a numerose specie animali (anche) filogeneticamente distanti fra loro, una situazione quest’ultima che risulterebbe esacerbata dal progressivo quanto persistente emergere di nuove varianti e sottovarianti virali sempre più diffusive e contagiose (vedi, a puro titolo esemplificativo, quelle più recenti denominate “FLiRT” quali JN.1, KP.2, KP.3 e LB.1).

In un siffatto contesto, va da sè che il rischio relativo all’emergere di nuove varianti possa risultare sensibilmente accresciuto dal passaggio del virus a nuove specie animali, soprattutto in ambito selvatico – ove le dinamiche evolutive del rapporto ospite-parassita risulterebbero oggettivamente più difficili da controllare -, parallelamente a quanto sta avvenendo anche nel caso del virus dell’influenza aviaria A(H5N1), che in virtù dei recenti quanto numerosi “salti di specie” dallo stesso operati potrebbe acquisire la capacità (sin qui non ancora dimostrata, per nostra fortuna) di diffondersi in maniera efficace da uomo a uomo.

A tal proposito, come ben si sa, più un agente virale replica all’interno delle cellule di una determinata specie sensibile nei confronti dello stesso, maggiore diviene la probabilità che si realizzino, di pari passo, eventi mutazionali a carico del proprio genoma, con la conseguente comparsa di varianti più diffusive e contagiose di quelle precedenti.

Ciò descrive con esattezza quel che è accaduto, sta tuttora accadendo e, con ogni probabilità, continuerà ad accadere nel caso di SARS-CoV-2, un betacoronavirus il cui genoma consta di circa 30.000 nucleotidi, con una frequenza di mutazioni (sia “silenti” o “sinonime” che “non silenti” o “non sinonime”) pari all’incirca ad una ogni 10.000 basi azotate coinvolte in ciascun ciclo replicativo virale.

In ultima analisi, la notevole “plasticità’ di SARS-CoV-2, che ha già consentito e continua a permettere al virus di trasferirsi ad un così elevato e crescente numero di specie animali domestiche e selvatiche, anche filogeneticamente distanti le une dalle altre, costituirebbe a mio avviso un ulteriore elemento a favore dell’origine naturale di SARS-CoV-2, visto e considerato che un siffatto comportamento mal si concilierebbe in termini di plausibilita’ biologica con quello di un agente creato artificialmente in laboratorio.

Concludo queste mie riflessioni e considerazioni ponendo in particolare risalto, ancora una volta (e mai abbastanza, comunque!), la fondamentale rilevanza del concetto/principio della One Health – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – non soltanto nella complessa ed articolata gestione eco-epidemiologica dell’infezione da SARS-CoV-2 – così come di quella da virus dell’influenza aviaria A(H5N1) -, ma in generale di tutte le c.d. “malattie infettive emergenti”, il 70% delle quali, è bene ricordarlo, riconoscono la loro origine, comprovata o sospetta che sia, in uno o più serbatoi animali.

Giovanni Di Guardo, DVM, Dipl. ECVP
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo




Aviaria: può essere trasmessa da mucche anche a topi e furetti

influenza aviariaIl virus altamente patogeno dell’influenza aviaria H5N1, che negli Stati Uniti ha raggiunto anche la popolazione bovina, si trasmette nei mammiferi attraverso il latte vaccino, infettando i topi, che, per esposizione, possono passarlo ai furetti. Questo, in estrema sintesi, è quanto emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati dell’Università del Wisconsin-Madison.

Il team, guidato da Yoshihiro Kawaoka, ha caratterizzato l’agente patogeno dell’influenza H5N1, rivelando che il virus viaggia verso le ghiandole mammarie degli animali infetti.

Nella primavera 2024, negli USA, è stato documentato il primo focolaio di influenza aviaria in un allevamento di bovini da latte, seguito da casi in altri mammiferi, compreso l’uomo. Si ipotizza che l’infezione della ghiandola mammaria e le attrezzature di mungitura contaminate siano coinvolte nella trasmissione tra mucche. Sono stati anche rilevati virus nel latte vaccino, ma le caratteristiche di base dell’H5N1 bovino sono piuttosto sconosciute.

Per colmare le lacune esistenti, gli autori hanno caratterizzato il materiale genetico di un virus isolato dal latte di una mucca infetta nel New Mexico.

I ricercatori hanno osservato il virus replicarsi e provocare la malattia nei topi e nei furetti. Gli scienziati hanno dimostrato che il virus si diffonde sistematicamente, anche alle ghiandole mammarie di entrambi gli animali, una caratteristica precedentemente trascurata dell’infezione dei mammiferi con questi virus aviari.

Il gruppo di ricerca ha inoltre scoperto che l’H5N1 bovino si lega sia ai recettori dell’acido sialico di tipo aviario che a quelli di tipo umano. Questa specificità di legame del recettore duale non è stata osservata per i virus H5N1 circolanti più vecchi.

Tra furetti, invece, la trasmissione poteva avvenire tramite aerosol e goccioline respiratorie, anche se la carica virale sembrava più bassa in questi casi.

Questo lavoro, concludono gli scienziati, rivela nuove caratteristiche del virus H5N1, che potrebbero essere particolarmente utili nella definizione di strategie di contenimento di potenziali focolai di infezione.




IIZZSS, influenza aviaria: allo studio test specifici per i bovini e il latte crudo

A seguito della diffusione del virus influenzale H5N1 ad alta patogenicità (HPAI) negli allevamenti degli Stati Uniti, gli Istituti Zooprofilattici Sperimentali delle Venezie (IZSVe) e della Lombardia ed Emilia-Romagna (IZSLER), in accordo con il Ministero della Salute, si sono resi disponibili ad organizzare test sperimentali su bovini e latte crudo allo scopo di produrre dati scientifici utili ad una valutazione del rischio e per una precisa diagnosi, qualora dovessero presentarsi eventuali riscontri sul territorio nazionale di casi analoghi a quelli statunitensi.

 

Questi studi mirano ad ampliare il quadro delle conoscenze scientifiche attualmente a disposizione e a fornire una risposta efficace e tempestiva in caso di rischio sanitario, attraverso metodi di laboratorio validati. Allo stato attuale non vi è alcuna evidenza di infezione, neanche pregressa, nella popolazione bovina in Europa. La circolazione del virus H5N1 nelle vacche da latte ad oggi è stata segnalata solo negli Stati Uniti.

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Salmonella in insetti ad uso alimentare: cosa dice la letteratura scientifica?

InsettiLa crescente domanda di proteine alimentari, dovuta alla continua crescita della popolazione mondiale, ha spinto la ricerca di fonti alimentari alternative per soddisfare requisiti di nutrizione, sostenibilità ed efficienza. Nel 2013 l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha pubblicato un documento che evidenzia il potenziale degli insetti come mangimi e alimenti.

Anche se gli insetti hanno caratteristiche biologiche ed ecologiche molto diverse da quelle degli animali tradizionalmente allevati per il consumo umano, possono presentare rischi microbiologici, chimici e tossicologici. Come per gli altri animali allevati, i patogeni alimentari dovranno essere monitorati anche all’interno della filiera di produzione degli insetti. Salmonella, ad esempio, rappresenta un rischio importante negli alimenti di origine animale essendo la prima causa di focolai di malattie alimentari in Europa.

Fattori come la specie di insetti, il substrato di allevamento e i metodi di lavorazione possono influenzare la presenza di patogeni. L’allevamento di insetti può essere contaminato da Salmonella se le procedure di igiene non sono adeguate; pertanto, comprendere la persistenza di Salmonella negli insetti allevati è cruciale per la valutazione e la mitigazione del rischio. Ed è altrettanto importante raccogliere dati sulla presenza di Salmonella nelle specie di insetti autorizzati per il consumo umano, come Acheta domesticus (grillo domestico) e Tenebrio molitor (tarma della farina).

Nell’ambito di un progetto di ricerca corrente finanziato dal Ministero della salute (RC IZSVe 03/21), l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) ha condotto due revisioni sistematiche della letteratura scientifica:

  • la prima con lo scopo di esaminare la letteratura scientifica sulla persistenza di Salmonella in differenti specie di insetti, al fine di fornire indicazioni sulle misure di sicurezza necessarie nella produzione alimentare a base di insetti;
  • la seconda, invece, con l’obiettivo di raccogliere le evidenze disponibili nella letteratura scientifica riguardanti la presenza di Salmonella negli insetti Acheta domesticus e Tenebrio molitor allevati e nei prodotti derivati.

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Valutare l’efficacia del trattamento ad alta pressione nei salumi contro la peste suina africana: il progetto ASFree M.e.a.t

La Peste suina africana (PSA) è comparsa in Italia nel 2022 nella popolazione di cinghiali tra Piemonte e Liguria, e si è diffusa progressivamente verso est coinvolgendo più di recente Lombardia ed Emilia Romagna, con alcuni focolai in allevamenti di suini.

Pur non essendo una malattia trasmissibile all’uomo, la PSA rappresenta comunque un rischio per la salute degli animali, oltre che per il comparto produttivo suinicolo. Infatti, il fronte di avanzamento in Italia continentale rischia oggi di minacciare l’industria dei salumi italiani, un settore con molte eccellenze DOP e IGP, che impiega circa 30 mila lavoratori, per un fatturato di circa 9 miliardi di euro, di cui 2 dall’export.

Il progetto ASFree M.e.a.t

Per far fronte a questo scenario preoccupante, il Ministero della Salute ha finanziato il progetto ASFree M.e.a.t – African Swine Fever free M.e.a.t. (Meet export agreement on trading), coordinato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche, che si focalizza su tre grandi temi:

Il progetto ASFree M.e.a.t mira a generare dati aggiornati sulla presenza del virus della PSA nei prodotti a base di carne stagionati, e valutare l’efficacia dell’applicazione del trattamento ad alta pressione (HPP) per la totale devitalizzazione del virus della PSA. Il progetto punta a rafforzare la posizione dell’Italia nel mercato globale dell’export di salumi, promuovendo la qualità e la sicurezza dei prodotti italiani.

  • Sicurezza alimentare. Il progetto intende offrire garanzie sanitarie ai paesi importatori circa l’assenza del virus della PSA nei prodotti stagionati italiani, grazie all’impiego del trattamento ad alta pressione (High Pressure Processing – HPP).
  • Innovazione tecnologica. L’impiego delle tecnologie HPP rappresenta un avanzamento significativo nel campo della conservazione alimentare, che mira a stabilire nuovi standard per la devitalizzazione di agenti patogeni senza alterare le qualità organolettiche dei prodotti.
  • Espansione dell’export. Il progetto punta a rafforzare la posizione dell’Italia nel mercato globale dell’export di salumi, promuovendo la sicurezza dei prodotti italiani come fattore chiave per l’accesso a nuovi mercati internazionali.

Questi temi riflettono l’obiettivo del progetto di combinare tradizione e innovazione per promuovere l’eccellenza italiana nel mondo. Attraverso una collaborazione multidisciplinare tra Istituti Zooprofilattici Sperimentali, aziende e associazioni leader nel settore, ASFree M.e.a.t. mira a definire nuovi standard di eccellenza, promuovendo i salumi italiani come esempio di sicurezza e affidabilità, e non solo come simbolo di gusto e tradizione

Il trattamento ad alta pressione (HPP) contro la PSA

I ricercatori del progetto ASFree M.e.a.t avranno a disposizione le più moderne tecnologie di trattamento ad alta pressione (High Pressure Processing, HPP) per garantire la totale assenza del virus della PSA nei prodotti di salumeria destinati al mercato internazionale.

Il trattamento HPP, anche definito “pascalizzazione”, è una tecnica di conservazione non termica che si applica ad alimenti solidi e liquidi già confezionati, quindi non passibili di successiva contaminazione. Si tratta di una tecnologia innovativa basata sull’applicazione di pressioni idrostatiche nettamente superiori a quella atmosferica (fino a 6.000 bar) che consentono di raggiungere l’inattivazione dei microrganismi presenti e rendere i prodotti alimentari stabili, conservabili e sicuri.

Il progetto si prefigge, pertanto, di generare dati aggiornati sulla presenza del virus della PSA in prodotti a base di carne stagionati maggiormente esportati, durante le principali fasi di lavorazione e stagionatura, utilizzando ceppi virali attualmente circolanti in Italia, e valutare l’efficacia dell’applicazione del processo HPP per la totale devitalizzazione del virus della PSA.

Partner

I partner del progetto sono:

L’IZSUM, in qualità di sede del Centro di Referenza Nazionale Pesti Suine (CEREP), metterà in campo tutto il know-how acquisito negli anni sulla PSA per il coordinamento del progetto.

L’IZSVe sarà coinvolto principalmente nello sviluppo e validazione di metodi di biologia molecolare quali/quantitativi per la rilevazione del virus della PSA in prodotti stagionati.

IZSLER  invece coinvolto principalmente nello sviluppo e validazione dei metodi virologici per la rilevazione del virus nelle matrici alimentari oggetto di studio e nella realizzazioni di prove di abbattimento tramite contaminazioni artificiali (Challenge test) di prodotti di salumeria.

L’IZS dell’Abruzzo e del Molise sarà coinvolto nello sviluppo del protocollo sperimentale per la contaminazione artificiale dei prodotti stagionati con il virus della PSA, nella valutazione dei rischi sanitari insiti nell’attuale gestione del settore produttivo suinicolo come anche nello sviluppo e validazione di metodi di biologia molecolare quali/quantitativi per la rilevazione del virus della PSA in prodotti stagionati