Mentre il betacoronavirus SARS-CoV-2 non smette di mostrarci la sua straordinaria capacità di soggiacere a mutazioni del proprio “make-up” genetico, risultando via via più abile ad eludere l’immunità conferita dalle pregresse infezioni e/o dalle vaccinazioni anti-COVID-19, oltre ad accrescere la propria affinità di legame nei confronti del recettore ACE-2 – come chiaramente testimoniato dalla sottovariante Omicron XBB.1.5, alias “Kraken” -, il virus AH5N1 è balzato ancora una volta agli onori della cronaca.
Infatti, dopo la prima apparizione nel sud-est asiatico, un quarto di secolo fa, di questo virus influenzale ad elevata patogenicita’ (“High Pathogenicity Avian Influenza virus“, “HPAI virus”), che a seguito dello “spillover” dai volatili domestici (polli) aveva già prodotto una serie di casi di malattia umana – numerosi dei quali anche ad esito fatale -, quello che al momento desta una certa preoccupazione e’ il ceppo virale noto con la sigla “2.3.4.4b”.
A testimonianza di ciò, la presenza di questo virus è stata finora segnalata in Asia, così come in Africa, Europa e Nord-America, in numerose specie di avifauna selvatica, attraverso le cui attività migratorie l’agente patogeno si sarebbe quindi trasmesso ad altre specie, ivi compresi i mammiferi marini ed i visoni d’allevamento. Questi ultimi, sulla scorta di quanto e’ stato recentemente documentato in un allevamento intensivo della regione spagnola della Galizia, avrebbero acquisito il virus da gabbiani infetti, dopodiché lo avrebbero diffusamente propagato in forma mutata tra i propri conspecifici. A tal proposito, non può non sovvenire in mente un parallelo rispetto a quanto accaduto durante la pandemia da SARS-CoV-2 in Danimarca e nei Paesi Bassi, nei cui allevamenti intensivi si sarebbe sviluppata la variante “cluster 5”, previa acquisizione del virus umano da parte dei visoni (“viral spillover“), che avrebbero successivamente propagato al proprio interno e quindi “restituito” lo stesso all’uomo in forma mutata (“viral spillback“).
Per quanto riguarda i mammiferi marini, il cui stato di salute e di conservazione risulta sempre più minacciato per mano dell’uomo e la cui suscettibilità nei confronti dei virus influenzali era già stata dimostrata da vari studi pubblicati nel corso degli ultimi 40 anni, il virus 2.3.4.4b e’ stato recentemente identificato in alcuni esemplari di focena e di tursiope, nonché in leoni marini ed in esemplari di foca rinvenuti spiaggiati lungo le coste statunitensi della Florida, oltre che su quelle del Perù e della Svezia.
Particolarmente degno di nota, in questi animali, lo spiccato neurotropismo del virus, denotato dai gravi quadri di meningo-encefalite emersi grazie alle approfondite indagini post mortem effettuate sui medesimi.
Per quanto riguarda la nostra specie, i casi d’infezione da HPAI virus AH5N1 documentati dal 2003 sino alla fine dello scorso anno ammonterebbero ad oltre 800, con la metà degli stessi ad esito infausto. Da notare, in un siffatto contesto, il caso recentemente accertato in una ragazza undicenne della Cambogia, il cui exitus non sarebbe stato tuttavia causato dal ceppo 2.3.4.4b.
Il consistente quanto rapido e progressivo ampliamento del “range” delle specie suscettibili al virus AH5N1 e, segnatamente, al “clade” 2.3.4.4b costituisce un motivo di fondato allarme, tanto più alla luce delle notevoli distanze filogenetiche intercorrenti fra volatili e mammiferi terrestri ed acquatici sensibili, oltre che della comparsa di uno stipite virale mutato nei visoni allevati intensivamente in Spagna, fra i quali l’agente patogeno si sarebbe diffusamente e celermente propagato.
Sebbene allo stato attuale delle conoscenze non risulti che il virus AH5N1 abbia finora acquisito la capacità di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo una volta che lo stesso sia stato acquisito ad opera di animali infetti (figure professionali particolarmente a rischio sarebbero rappresentate, in proposito, dai Medici Veterinari e dalle maestranze operanti negli allevamenti e nei macelli avicoli, nonché dagli addetti al trasporto di volatili vivi), la formidabile capacità di ricombinazione e riassortimento genetico insita nell’RNA multi-segmentato dei virus influenzali conferirebbe un’elevata plausibilita’ biologica ad una siffatta evenienza.
Il salvifico principio della “One Health” – la salute unica di uomo, animali ed ambiente – dovrebbe rappresentare ancora una volta, come la drammatica pandemia da SARS-CoV-2 ci ha insegnato, il “minimo comune denominatore”, alias la stella polare attorno alla quale dovrebbe svilupparsi la sorveglianza epidemiologica nei confronti dell’infezione sostenuta dal virus AH5N1, in un clima di piena, mutua ed incondizionata trasparenza e collaborazione interdisciplinare, a garanzia del quale la divulgazione e lo scambio di sequenze virali fra i vari laboratori pubblici coinvolti su scala globale costituisce un fondamentale, ineludibile presupposto.
Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo