Dal peschereccio alla tavola: gli elementi chiave per prevenire l’intossicazione da istamina

pesciUna ricerca condotta sui dati derivati da otto anni di controlli alimentari fotografa la situazione della sindrome sgombroide, un’intossicazione alimentare fortemente legata alla qualità del pesce e alla sua conservazione

Prurito su tutto il corpo, mal di testa, nausea, vomito e crampi addominali. Sintomi che, se compaiono dopo aver mangiato pesce, devono far sospettare la cosiddetta “sindrome sgombroide”, una intossicazione alimentare legata alla presenza di istamina nel cibo. Una ricerca dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo, esaminando i dati raccolti in otto anni di controlli istituzionali eseguiti nella regione Abruzzo, evidenzia l’importanza delle corrette procedure di lavorazione e conservazione del pesce, dalla rete del peschereccio al punto vendita. Ma non solo: si può fare molto anche a casa.

Presente naturalmente nel nostro organismo, l’istamina svolge un ruolo importante nella mediazione dei processi immunitari e infiammatori. In alcuni casi, come sanno bene le persone che soffrono di allergia, può contribuire alla comparsa di reazioni come asma, orticaria o rinite, anche in forma grave. Ma questa molecola può essere presente anche in alcuni alimenti e, se la dose ingerita risulta eccessiva, è capace di provocare una sintomatologia molto simile a quella di una forte reazione allergica.

Anche se diversi cibi sottoposti a fermentazione microbica (come i formaggi fermentati, il vino o la birra) possono contenere istamina, i casi di intossicazione sono soprattutto legati al consumo di pesce. I pesci vivi non contengono questa sostanza ma, una volta pescati, alcune specie batteriche iniziano subito a degradare l’aminoacido istidina, di cui sono ricchi soprattutto tonno, sgombro, sarde, sardine e acciughe. Il risultato è la formazione di istamina, della quale, se la conservazione non è corretta, possono formarsi quantità notevoli, fino a rappresentare un pericolo per la salute.

“La nostra ricerca – dice la dottoressa Loredana Annunziata, dirigente chimico presso il reparto di Bromatologia e Residui dell’IZSAM, prima autrice del lavoro scientifico pubblicato sulla rivista Food Control – ha preso in esame campioni raccolti nella regione Abruzzo dal 2013 al 2020. I campioni provenivano sia da normali controlli istituzionali condotti dalle ASL sul pesce in vendita, sia a seguito di segnalazioni dei cittadini, in alcuni casi per vere e proprie intossicazioni. Naturalmente, una volta individuati contenuti di istamina superiori ai limiti stabiliti dalla normativa europea, sono state rapidamente avviate tutte le procedure di controllo e tracciamento”.

Attività fondamentali, che rappresentano anche un aiuto importante per i produttori e per la catena di distribuzione e vendita. Infatti la qualità delle materie prime, il mantenimento della catena del freddo e il rispetto delle buone pratiche igieniche durante i processi di trasformazione sono fattori determinanti per il controllo della formazione di istamina. Senza dimenticare il ruolo che riveste l’attenzione dei consumatori, come sottolinea Annunziata: “La forte strategia di verifiche sui prodotti è uno strumento di prevenzione in cui l’Italia è tra i primi Paesi d’Europa. Oltre ai controlli istituzionali, questo rende possibile supportare le aziende nell’implementare procedure di sicurezza sempre aggiornate e rispondenti alle necessità. Allo stesso tempo la nostra ricerca evidenzia che anche il consumatore può fare molto per evitare che il pesce, una volta acquistato, possa andare incontro alla formazione di istamina. Le chiavi sono due: il tempo e il freddo. Nel caso del pesce congelato dobbiamo sottolineare che il processo di degradazione dell’istidina in istamina può riattivarsi molto rapidamente. Per questo motivo andrebbe scongelato immergendolo in acqua fredda, e non lasciandolo a temperatura ambiente. Non dimentichiamo poi che l’istamina è una molecola termostabile: una volta che si è formata non verrà distrutta dalla cottura”.

 Fonte: IZS Teramo



VETNEVE 2022 – Le iscrizioni sono aperte!

Vetneve 2022  sta per iniziare!

Il Convegno dal titolo  I regolamenti sui Controlli Ufficiali 625/2017 e di Sanità Animale (2016/429) nel contesto delle nuove emergenze di Sanità Pubblica e l’approccio One Health quest’anno si comporrà di 2 eventi ECM:

Scheda di iscrizione

 

  • Il Regolamento 2017/625
    10/11 marzo 2022, rivolto a Medici Veterinari, Dirigenti Medici (igiene degli alimenti e della nutrizione; igiene, epidemiologia e sanità pubblica; malattie infettive), Biologi e Tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro – Programma ECM 10/11 marzo 2022

 

Scheda di iscrizione

Scheda prenotazione alberghiera da inviare entro il 16 gennaio 2022




SARS-COV-2: più efficacia nella caccia alle varianti

 Un nuovo metodo di analisi matematica permette di tipizzare i campioni con alta precisione e maggiore velocità. Un contributo importante al tracciamento del virus e della sua evoluzione.

Nella lotta alla pandemia una delle principali priorità è seguire l’evoluzione del virus, individuando la comparsa di nuove varianti e valutandone la diffusione. Precisione e velocità delle analisi genomiche sono elementi fondamentali di questa sorveglianza, gli stessi al centro di una recente ricerca dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Abruzzo e del Molise.

I ricercatori del “Centro di Referenza Nazionale per Sequenze Genomiche di microrganismi patogeni: banca dati e analisi di bioinformatica” (GENPAT) dell’IZSAM hanno sviluppato un nuovo metodo matematico per analizzare e confrontare il genoma di grandi quantità di campioni virali. Pubblicato sulla rivista scientifica BMC Genomics, il metodo proposto permette di identificare i diversi ceppi di virus e ricostruire la loro evoluzione (la cosiddetta analisi filogenomica) con livelli di precisione paragonabili ai metodi già in uso, ma in tempi estremamente più rapidi.

La caccia alle varianti è un procedimento molto complesso, che parte dai semplici tamponi. Il codice genetico dei campioni virali raccolti viene prima di tutto sequenziato con tecniche ad alta capacità (NGS, Next Generation Sequencing), poi deve essere tipizzato in modo da effettuare confronti tra i virus, trovare similitudini o differenze e, per queste ultime, stabilire le “distanze” genetiche tra un ceppo e l’altro. Un procedimento matematico il cui risultato è la classificazione delle varianti secondo la nomenclatura internazionale “PANGO”. Ma si può anche rendere graficamente: una serie di ramificazioni, quasi un cespuglio, che ci dicono la storia di una variante e, in qualche misura, come si sta diffondendo.

“I procedimenti comunemente in uso – dice Adriano Di Pasquale, Centro di Referenza Nazionale GENPAT – hanno il vantaggio di essere veloci, un elemento importante quando parliamo di una pandemia, ma non sono molto precisi. In altri termini, ci danno certamente una fotografia delle varianti e della loro evoluzione, ma è poco dettagliata. Aumentare la precisione, d’altro canto, richiede tempi molto lunghi, anche utilizzando computer potenti”.

L’algoritmo elaborato dai ricercatori IZSAM, invece, permette di aumentare notevolmente la risoluzione delle indagini genomiche mantenendo la rapidità necessaria. “Oltre ad individuare la diffusione di una variante – aggiunge Nicolas Radomski, GENPAT – ora possiamo seguirne la trasmissione, sia in termini di tempo che di spazio, osservando passo passo le ramificazioni che si stanno creando”.

Nato dall’analisi dei campioni di virus raccolti in Abruzzo e analizzati dallo Zooprofilattico di Teramo, il nuovo metodo matematico viene ora proposto a livello internazionale. “Pensiamo che possa essere un valido strumento per tutte le realtà che operano nel contesto della pandemia. – conclude Di Pasquale – È per questo che lo avevamo già messo a disposizione di tutti, sul portale Medrxiv. Abbiamo riscontrato un notevole interesse da parte di varie istituzioni, ed è già in corso una collaborazione con l’Istituto Nazionale di Sanità (INSA) portoghese”.

 Fonte: IZS Teramo



Zanzare ed epidemie: un modello per mappare il rischio

Il sistema sviluppato dall’Osservatorio Nazionale di Atene con Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, Fondazione Edmund Mach e Università di Trento è stato premiato dalla Commissione Europea come miglior modello per predire le epidemie trasmesse dalle zanzare. Grazie ai nuovi fondi, sarà perfezionato un prototipo in grado di fornire in anticipo preziose indicazioni sull’intensità e la localizzazione di malattie come la malaria o la dengue.

Controllare le zanzare (anche) dallo spazio. Sembra un paradosso e invece è il fulcro di Eywa (EarlY WArning System for Mosquito-borne diseases), il sistema avanzato di allerta precoce per le malattie trasmesse dalle zanzare. Un progetto multidisciplinare coordinato dall’Osservatorio Nazionale di Atene al cui sviluppo partecipano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), la Fondazione Edmund Mach (FEM) e l’Università di Trento (UniTrento).

Oggi l’80% della popolazione mondiale vive in aree dove è presente almeno una delle principali malattie trasmesse dalle zanzare, territori dove patologie come malaria, Chikungunya, dengue, febbre gialla o Zika causano oltre 700.000 morti all’anno.

Per contribuire a prevenire e mitigare l’impatto di queste malattie, la Commissione europea ha indetto un premio per finanziare il miglior prototipo che, basandosi dati geo-spaziali, consentisse di monitorarle e prevenirne la trasmissione all’uomo.

Una selezione nella quale il sistema Eywa è risultato il migliore, conquistando il primo premio e ricevendo una sovvenzione di 5 milioni di euro. Basato sulla combinazione di attività di campionamento e sorveglianza sul campo, su analisi di laboratorio, sviluppo di modelli matematici e mappe dinamiche, l’obiettivo di Eywa è quello di combinare i big data derivanti dall’osservazione della Terra e parametri ambientali, climatici, meteorologici, socioeconomici, demografici raccolti sul campo, definendo così un’infrastruttura capace di disegnare modelli predittivi di diffusione affidabili.

L’approccio interdisciplinare di Eywa – che incrocia i dati spaziali del portale Geoss, quelli raccolti dal programma di osservazione satellitare terrestre Copernicus e quelli ottenuti con attività sul campo – è stato possibile attraverso l’incrocio di varie competenze e professionalità. Una sinergia tra diversi attori che potrà ora beneficiare di un importante finanziamento per crescere e perfezionarsi, un percorso di affinamento al quale saranno chiamati anche i partner italiani del progetto, a cominciare dal Laboratorio di parassitologia, micologia ed entomologia sanitaria dell’IZSVe.

“Il progetto ha visto la collaborazione fra vari paesi, e il suo successo si basa sull’incontro di professionalità molto diverse, dagli entomologi ai matematici” dichiara Gioia Capelli, direttore sanitario dell’IZSVe “Ancora una volta le malattie trasmesse da vettori ci insegnano quanto l’approccio multidisciplinare settoriale alla salute unica sia oggi necessario. Il ruolo del nostro Laboratorio è stato quello di fornire i dati derivanti dal sistema di sorveglianza entomologica della West Nile Disease. Il dataset è stato utilizzato per confrontare e validare i dati predittivi sviluppati dai modelli matematici del sistema Eywa con dati reali di presenza e densità di zanzare Culex pipiens e del genere Anopheles in Veneto, vettori rispettivamente di West Nile virus e malaria”.

Tra i numerosi dati che compongono il sistema Eywa e partecipano alla definizione di un modello accurato, quelli ottenuti attraverso l’attività di campionamento entomologico in Trentino, un’azione svolta dalla Fondazione Edmund Mach, con particolare attenzione per le specie di zanzare di maggior interesse per la sanità del territorio.

“L’attività di ricerca della FEM che coordina il tavolo provinciale sul monitoraggio della zanzara tigre e di altre specie di vettori di interesse sanitario – spiega Annapaola Rizzoli, responsabile dell’Unità Ecologia applicata alla salute del Centro Ricerca e Innovazione – prevede di effettuare campionamenti sulle specie di zanzare di maggior interesse per la sanità, ma anche analisi di laboratorio finalizzate allo studio dei parametri vitali delle specie, incluso lo studio delle preferenze alimentari, e lo sviluppo di modelli matematici di previsione. Questa iniziativa senz’altro permetterà nuove collaborazioni scientifiche dalle potenziali importanti ricadute per la salute pubblica, non solo locale ma anche internazionale.

Quanti più sono i dati raccolti, e più ricca è la loro provenienza, tanto più sono necessari modelli matematici capaci di leggerli.

“Il nostro gruppo – chiarisce Andrea Pugliese, matematico di UniTrento – lavorava da tempo sulla modellizzazione dell’infezione del virus West Nile, una delle malattie trasmesse dalle zanzare. Cercavamo di capire come il clima, le temperature o altri fattori rendessero tali epidemie alcuni anni più pesanti e altri meno. Una expertise che abbiamo messo al servizio di Eywa per creare un sistema che avesse buoni livelli di predittività, per studiare le incidenze dei virus nelle varie zone. Un sistema che funziona abbastanza bene e che, con i nuovi fondi della Commissione europea, dovremo ora affinare ulteriormente”.

Il sistema EYWA è in fase di attuazione operativa in nove regioni europee e, da quest’anno, sarà trasferito nei paesi extra UE, Costa d’Avorio e Thailandia.

Fonte: IZS Venezie




Peste suina africana (PSA): le indicazioni di ISPRA

Peste Suina AfricanaIl 7 gennaio scorso è stata confermata dal Centro di Referenza Nazionale per le Pesti suine dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell’Umbria e delle Marche “Togo Rosati”  la presenza della peste suina africana (PSA) al confine tra Piemonte e Liguria.

Il Ministero della Salute con il supporto dell’Unità di Crisi Centrale e il Gruppo di Esperti in materia di PSA, ai quali ISPRA partecipa, sta attivando con urgenza le procedure sia per la delimitazione dell’area infetta sia per contrastare l’ulteriore diffusione della malattia.

In considerazione delle possibili gravi ripercussioni per il comparto suinicolo e i settori produttivi ad esso collegati, è infatti di cruciale importanza limitare la diffusione della PSA attraverso l’adozione di drastiche misure di biosicurezza, che dovranno riguardare anche lo svolgimento dell’attività venatoria. Si apre una fase in cui la gestione del cinghiale nelle aree infette e nelle zone circostanti richiederà uno sforzo molto impegnativo alle Regioni e alle Aree protette interessate, alle quali ISPRA garantisce fin da subito il proprio supporto tecnico, in stretto coordinamento con le autorità sanitarie.

La PSA è una malattia infettiva altamente contagiosa in grado di provocare un’elevata mortalità nei suidi sia domestici sia selvatici di qualsiasi età e sesso. Il virus rimane vitale per lungo tempo anche dopo la morte dell’animale, rendendo le carcasse ancora infettanti e in grado di trasmettere il virus. Per tale motivo è di cruciale importanza la segnalazione immediata del ritrovamento di cinghiali morti, anche se incompleti o in avanzato stato di decomposizione, ai Servizi Veterinari localmente competenti (anche per tramite di Carabinieri forestali, Polizia provinciale, Polizia locale).

Chiarimenti di ISPRA in materia di gestione della Peste suina africana
Perché è importante sospendere qualsiasi tipo di attività venatoria nella zona infetta da Peste suina africana?

Perché si tratta di attività che comportano un duplice rischio: la movimentazione di cinghiali potenzialmente infetti sul territorio, soprattutto conseguente al ricorso di tecniche che utilizzano i cani, e la diffusione involontaria del virus attraverso calzature, indumenti, attrezzature e veicoli.

Perché è importante regolamentare qualsiasi tipo di attività venatoria nell’area confinante con la zona infetta (entro 10 km dal confine)?

Perché, considerati i rischi che comporta per la diffusione della Peste suina africana, è importante che siano adottate modalità di prelievo venatorio, volte a limitare al massimo il disturbo ai cinghiali per non aumentarne la mobilità, unitamente a misure di biosicurezza in grado di ridurre il rischio di diffusione del virus come effetto della contaminazione di indumenti, scarpe, materiali e veicoli.

La comparsa della Peste suina africana è dovuta alle elevate densità di cinghiale?

No, la comparsa del virus è totalmente indipendente dalle densità di cinghiale. Le popolazioni di cinghiale infette più vicine all’Italia vivono a diverse centinaia di km di distanza. La comparsa dell’infezione nel cinghiale in Piemonte e Liguria è sicuramente dovuta all’inconsapevole introduzione del virus da parte dell’uomo.

L’elevata densità del cinghiale favorisce la persistenza del virus?

La densità del cinghiale non ha effetti significativi sulla persistenza in natura della Peste suina africana. La notevole resistenza del virus nell’ambiente fa sì che la malattia continui a circolare per anni, anche in popolazioni di cinghiale a densità bassissime (es. circa 0,5/km2).

Allungare il periodo consentito per la caccia in braccata in questa fase epidemiologica è utile a prevenire la diffusione delle Peste suina africana?

No. In questa fase in cui è ancora in corso di definizione l’area effettivamente interessata dall’infezione, è anzi fortemente consigliato evitare qualsiasi attività che possa causare la dispersione degli animali sul territorio e con essa la possibile diffusione del virus, sia in modo diretto, aumentando la mobilità di eventuali cinghiali infetti, sia in modo indiretto, come effetto della contaminazione di indumenti, scarpe, materiali e veicoli.

Secondo le simulazioni effettuate, per poter rallentare significativamente la diffusione della Peste suina africana si dovrebbe rimuovere nel brevissimo periodo la quasi totalità della popolazione di cinghiale (circa il 90%), obiettivo irrealistico da raggiungere nella gran parte dei contesti presenti sul territorio nazionale.

La presenza del lupo contribuisce alla diffusione della Peste suina africana?

La presenza del lupo non appare avere effetti rilevanti sulla diffusione della Peste suina africana. Recenti studi effettuati in aree infette della Polonia, hanno verificato l’assenza totale del virus nelle feci di lupo, dimostrando che il passaggio nel tratto intestinale ne provoca la degradazione completa. Inoltre gli enzimi presenti nella saliva danneggiano la superficie esterna del virus limitandone l’infettività. Al contrario, il lupo potrebbe contribuire a limitare la circolazione della Peste suina africana sia predando di preferenza gli individui malati, sia consumando le carcasse infette.

Cosa fare se si trova una carcassa di cinghiale in un’area al di fuori della zona infetta?

Segnalarla immediatamente ai Servizi veterinari regionali, mediante il numero appositamente creato da ciascuna regione o eventualmente utilizzando il 112, fornendo indicazioni sull’ubicazione precisa e opportuna documentazione fotografica del ritrovamento.

***

ISPRA sottolinea la necessità di seguire rigorosamente le indicazioni tecniche della autorità nazionali competenti (con le quali ISPRA collabora costantemente) e l’importanza cruciale della ricerca attiva delle carcasse di cinghiale, da segnalare immediatamente ai Servizi veterinari regionali in caso di ritrovamento.

Le indicazioni della autorità nazionali competenti sono articolate nei tre livelli territoriali individuati: zona infetta; area confinante con la zona infetta (entro 10 km dal confine); intero territorio nazionale.

Nella zona infetta è prioritario assicurare una gestione della popolazione di cinghiale coordinata e efficace, con l’unico scopo di ottenere nel breve periodo l’eradicazione del virus, condizione essenziale per riprendere le normali attività di allevamento, caccia, trekking, mountain biking, utilizzo del bosco e fruizione pubblica delle aree naturali in essere precedentemente all’epidemia.

Al di fuori della zona infetta e dell’area confinante, al momento l’unica prescrizione delle autorità nazionali competenti riguarda la movimentazione dei cinghiali vivi; resta ferma per le autorità locali competenti la possibilità di introdurre ulteriori misure restrittive.

Misure inerenti all’ambito faunistico

 Fonte: ISPRA




Escherichia coli resistenti agli antibiotici: un confronto genetico per comprendere la trasmissione della resistenza tra animali e uomo

antibioticoresistenzaI cloni di Escherichia coli che infettano o colonizzano l’uomo e gli animali allevati per la produzione di alimenti potrebbero circolare fra le diverse specie che li ospitano, scambiandosi geni che conferiscono meccanismi di resistenza agli antibiotici. Per questo è importante adottare un approccio One Health nella sorveglianza dell’antibiotico-resistenza dei batteri patogeni, analizzando e confrontando con metodi armonizzati il genoma di batteri isolati da matrici umane e animali.

A suggerirlo sono anche i risultati di un progetto di ricerca finanziato nel 2015 dal Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) e realizzato da 15 istituti italiani di sanità pubblica tra cui l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe). Lo studio è stato pubblicato di recente dalla rivista scientifica International Journal of Antimicrobial Agents.

Il problema sanitario degli E. coli resistenti agli antibiotici

Le beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) sono enzimi in grado di conferire ai batteri la capacità di resistere all’azione di vari antibiotici, in particolare alle cefalosporine di terza e quarta generazione. A partire dagli anni 2000 la ricerca scientifica ha evidenziato una progressiva diffusione di alcuni cloni di Escherichia coli in grado di produrre ESBL, isolati sia nell’uomo che in animali allevati per produrre alimenti. La ricerca scientifica sta quindi cercando di stabilire se i geni codificanti ESBL possono trasmettersi da un isolato all’altro di E. coli, venendo acquisiti dai ceppi che infettano maggiormente l’uomo.

Le beta-lattamasi a spettro esteso (Extended-Spectrum Beta-Lactamases, ESBL) sono enzimi in grado di conferire ai batteri la capacità di resistere all’azione di vari antibiotici, in particolare alle cefalosporine di terza e quarta generazione. Questi antibiotici sono utilizzati per il trattamento di alcune importanti infezioni batteriche umane, tra cui quelle sostenute da Klebsiella pneumoniae e quelle extra-intestinali causate da E. coli.

A partire dagli anni 2000 la ricerca scientifica ha evidenziato una progressiva diffusione di alcuni cloni di E. coli in grado di produrre ESBL, fra cui in particolare il clone denominato ST131, che hanno complicato considerevolmente la terapia di queste infezioni sia in comunità che in ambito ospedaliero.

Negli ultimi anni sono inoltre in aumento le segnalazioni di E. coli ESBL-produttori negli animali allevati per la produzione di alimenti.  Anche se il clone ST131 viene sporadicamente isolato in queste specie, i geni codificanti ESBL potrebbero trasmettersi da un isolato all’altro di E. coli, venendo acquisiti dai ceppi che infettano maggiormente l’uomo.

Su questa ipotesi la letteratura scientifica ha fornito sinora evidenze contrastanti: alcuni studi hanno rilevato in E.coli isolati dagli animali e dall’uomo i medesimi geni codificanti ESBL, mentre altri hanno evidenziato differenze fra i geni codificanti questi enzimi in relazione alle specie animali da cui i batteri erano isolati.

E. coli può inoltre disporre di altri geni che producono ulteriori meccanismi di resistenza agli antibiotici. Tra questi i geni che codificano le carbapenemasi, enzimi che conferiscono resistenza a diversi principi attivi tra i quali i carbapenemi, utilizzati nell’ambito della clinica umana per il trattamento di E. coli resistente alle cefalosporine di terza generazione, oppure i geni in grado di conferire resistenza alla colistina (mobile colistin resistancemcr), antibiotico salvavita somministrato per contrastare i batteri resistenti proprio ai carbapenemi, oltre che ad altri antibiotici.

Uno studio One Health sugli E.coli resistenti

Tra marzo 2016 e settembre 2017 è stato realizzato un ampio studio sulle caratteristiche di E. coli ESBL-produttori isolati in Italia sia dall’uomo che da diverse specie di animali allevati per la produzione di alimenti. Sono stati analizzati 925 isolati di E. coli ESBL-produttori raccolti da 12 ospedali e di 3 istituti zooprofilattici diversi, tra cui l’IZSVe. Gli isolati sono stati sottoposti a screening molecolare per verificare la presenza di geni codificanti ESBL, quindi classificati con ulteriori metodi molecolari in gruppi filogenetici e cloni.

Per comprendere quindi se gli animali e gli alimenti da essi derivati possono contribuire alla trasmissione delle resistenze verso le cefalosporine di terza e quarta generazione in batteri patogeni per l’uomo, tra marzo 2016 e settembre 2017 è stato realizzato un ampio studio sulle caratteristiche di E. coli ESBL-produttori isolati in Italia sia dall’uomo che da diverse specie di animali allevati per la produzione di alimenti.

Il progetto, che rappresenta uno dei primi esempi in Italia di approccio One Health nella ricerca sulle resistenze batteriche agli antimicrobici, ha coinvolto i laboratori di 12 ospedali e di 3 istituti zooprofilattici sperimentali situati in 6 diverse regioni italiane: Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto, Lombardia, Lazio e Sicilia.

I partner del progetto hanno contribuito alla raccolta di 925 isolati di E. coli ESBL-produttori individuati durante le loro attività diagnostiche di routine. Di questi, 480 provenivano da matrici umane (urine o sangue) e 445 da matrici animali (feci o intestino). In particolare, gli isolati di origine animale sono stati prelevati da bovini (29,4%), suini (27,0%) e specie avicole (43,6%).

Questi isolati sono stati sottoposti a screening molecolare per verificare la presenza di geni codificanti ESBL e carbapenemasi; quindi sono stati tipizzati con ulteriori metodi molecolari per poterli classificare prima in gruppi filogenetici e successivamente, mediante Multilocus Sequence Typing (MSLT), in cloni. Negli isolati risultati resistenti alla colistina sono stati ricercati anche i geni da mcr-1 a mcr-5.

Screening molecolare

Nella quasi totalità degli isolati (97,7%) è stato possibile identificare uno o più geni codificanti ESBL. I geni del gruppo CTX-M sono risultati i più frequenti sia negli isolati umani che in quelli animali. In particolare, CTX-M-15 è risultato il gene più frequente nell’uomo (75,0%) e nei bovini (51,1%), CTX-M-1 era più diffuso nei suini (58,3%), mentre nel pollame è stato individuato con maggiore frequenza il gene CTX-M-15 (36,6%), unitamente a geni di tipo diverso (SHV e CMY-2, 29,9%).

Nella quasi totalità degli isolati (97,7%) è stato possibile identificare uno o più geni codificanti ESBL. I geni del gruppo CTX-M sono risultati i più frequenti sia negli isolati umani che in quelli animali. Gli isolati di origine umana appartenevano per lo più al filogruppo B2 (76,5%), mentre solo pochi isolati di origine animale (quasi tutti da pollame) sono stati classificati in questo gruppo (4,3%). I dati emersi dallo studio indicano che i cloni umani e animali di E. coli possono essere portatori degli stessi geni codificanti ESBL, per cui lo scambio di geni responsabili della codifica di meccanismi di resistenza tra ceppi batterici che infettano specie diverse è un fenomeno probabile.

Tra gli isolati di E.coli ESBL-produttori analizzati 14 (di cui solo uno di origine animale) sono risultati resistenti anche ai carbapenemi, anche se in nessuno di essi sono stati rilevati geni codificanti carbapenemasi. I ricercatori spiegano questa apparente contraddizione con la possibilità che all’origine della resistenza ci fossero geni o meccanismi di resistenza diversi da quelli investigati nello studio.

Gruppi filogenetici e cloni

L’analisi filogenetica ha permesso di classificare gli isolati in 7 diversi gruppi filogenetici (A, B1, B2, C, D, E, F). Come già noto, gli isolati di origine umana appartenevano per lo più al filogruppo B2 (76,5%), mentre solo pochi isolati di origine animale (quasi tutti da pollame) sono stati classificati in questo gruppo (4,3%). Gli isolati animali si distribuivano invece prevalentemente tra i gruppi A (35,7%), B1 (26,1%) e C (12,4%).

La tipizzazione effettuata con la tecnica MSLT ha rivelato poi che la maggior parte degli isolati di origine umana (83,4%) apparteneva al clone pandemico ST131, che era frequentemente portatore del gene CTX-M-15 (75,9%). Questo clone è stato rilevato solo raramente negli isolati di origine animale (solo 3 isolati, originati tutti da pollame).

Scambi genetici, un’ipotesi da approfondire

I dati emersi dallo studio indicano che gli isolati ESBL-produttori di E. coli responsabili di infezioni extra-intestinali nell’uomo e quelli che colonizzano gli animali allevati per la produzione di alimenti sono per lo più diversi, con il clone ST131 che si conferma poco diffuso negli animali.  Tuttavia, come già evidenziato in altri studi, i cloni umani e animali di E. coli possono essere portatori degli stessi geni codificanti ESBL.

Lo scambio di geni responsabili della codifica di meccanismi di resistenza tra ceppi batterici che infettano specie diverse è quindi un fenomeno probabile, soprattutto se sussistono fattori di rischio come l’impiego non prudente di antimicrobici; dovrà quindi essere indagato ulteriormente dalla comunità scientifica e monitorato dalle autorità sanitarie.

Infine 42 isolati analizzati nello studio sono risultati resistenti anche alla colistina; di questi 29 (3 provenienti da matrici umane e 26 da matrici animali) erano portatori del gene mcr-1, veicolato su elementi genetici mobili (i cosiddetti plasmidi) facilmente interscambiabili fra batteri diversi. Uno degli isolati da matrici umane apparteneva al clone ST131. Sulla base di queste evidenze, gli autori dello studio sottolineano l’importanza di mantenere una sorveglianza anche verso questo tipo di resistenza.

Fonte: IZS delle Venezie




Raccomandazioni per l’UE sulla normativa concernente ricerca e sviluppo del Genome editing per piante e animali da allevamento

laboratorio

L’Unione Europea delle Accademie Agricole (UEAA), attraverso un gruppo di lavoro ha formulato e trasmesso alla Commissione dell’UE alcune raccomandazioni per la revisione della normativa, attualmente in vigore, sul Genome editing. L’Italia aderisce all’UEAA attraverso l’Accademia dei Georgofili con la quale mantiene stretti rapporti, anche in collegamento con UNASA (Unione Nazionale delle Accademie per le Scienze Applicate allo Sviluppo dell’Agricoltura).
Lo scorso mese di Ottobre l’UNASA, rispondendo alla “Consultazione pubblica sulla normativa europea per le piante prodotte con alcune Nuove Tecniche Genomiche”, ha preparato e trasmesso una nota nella quale, sulla base di articolate argomentazioni, si chiedeva il cambiamento delle normativa oggi in vigore nell’UE che fa considerare i prodotti ottenuti con il Genome editing uguali agli OGM, riconoscendo che, ogni qualvolta le nuove tecniche genomiche portano a ottenere un prodotto che è analogo, o addirittura non distinguibile, da qualcosa che si sarebbe potuto ottenere per mutagenesi spontanea e per incrocio, questo venga considerato alla pari delle varietà ottenute per incrocio e selezione. Tale documento è stato anche trasmesso all’UEAA, la quale, come si è anticipato, ha a sua volta ora inviato all’UE una serie di raccomandazioni per il Genome editing che sostanzialmente vanno nella stessa direzione di quelle espresse dall’UNASA.
Il documento dell’UEAA, infatti, ha come premessa generale la messa in evidenza della potenzialità delle Nuove Tecniche Genomiche, come il Genome editing, nel contribuire alla sostenibilità del sistema agroalimentare. Si sostiene, pertanto, che l’agricoltura europea deve fare affidamento sulle nuove tecnologie genomiche per produrre di più e meglio al fine di garantire l’alimentazione della popolazione e la tutela ambientale.
Le raccomandazioni sono formulate distinguendo tra: piante e animali da allevamento.
Per quanto attiene le piante si fa riferimento al sistema CRISPR associato all’enzima CAS9 (CRISPR/CAS9) e le richieste ricalcano sostanzialmente quelle contenute nel documento dell’UNASA. Per gli animali da allevamento, si sottolineano le ragioni e l’importanza della selezione genomica e si sostiene l’urgente necessità di regolare in Europa Ricerca e Sviluppo sulle Nuove Tecnologie Genomiche per gli animali da allevamento. Al riguardo si segnala l’incontro su “La genetica e le sfide future della zootecnia” tenutosi nell’ambito degli eventi promossi dall’Accademia dei Georgofili lo scorso mese di Settembre in occasione dell’incontro a Firenze dei Ministri dell’agricoltura dei G 20, i cui Atti sono disponibili sul sito dei Georgofili (https://www.georgofili.it/contenuti/genetica-sfide-zootecnia/9342)

Il documento dell’UEAA è consultabile sul sito dell’UNASA: http://www.unasa.net/notizie/

Fonte: gergofili.info




Pubblicati gli atti del Convegno “Firenze per gli animali”

Pubblicati gli atti del Convegno “Firenze per gli animali” che si è tenuto a Firenze lo scorso 8 novembre.

 

Scarica gli atti




VetNeve 2022 – Food and Animal Health Law: una valanga di regolamenti

Ritorna finalmente nel 2022 la formazione invernale!

Vetneve 2022 – I regolamenti sui Controlli Ufficiali 625/2017 e di Sanità Animale (2016/429) nel contesto delle nuove emergenze di Sanità Pubblica e l’approccio One Health vi aspetta come sempre a Folgaria (TN).

Quest’anno gli eventi ECM saranno 2:

  • Il Regolamento 2016/429: Animal Health  Law
    7/8 marzo 2022, rivolto a Medici Veterinari
  • Il Regolamento 2017/625
    10/11 marzo 2022, rivolto a Medici Veterinari, Dirigenti Medici (igiene degli alimenti e della nutrizione; igiene, epidemiologia e sanità pubblica; malattie infettive), Biologi e Tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro

Scheda prenotazione alberghiera da inviare entro il 16 gennaio 2022




Nuova definizione One Health promossa dal tripartito e l’ UNEP

L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione mondiale per la salute animale (OIE), il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), collaborano da tempo  per essere pronti nel  prevenire, prevedere, rilevare e rispondere alle minacce per la salute globale e promuovere uno  sviluppo sostenibile.

In quest’ ottica di  integrazione raccolgono  la nuova definizione operativa di ONE HEALTH proposta dal loro comitato consultivo  OHHLEP (One Health High Level Expert Panel), costituito da esperti di alto livello  nei diversi settori politici e scientifici mondiali  inerenti il tema del ONE HEALTH.

Questa la definizione elaborata dal gruppo di esperti:

One Health è un approccio integrato e unificante che mira a bilanciare e ottimizzare in modo sostenibile la salute di persone, animali ed ecosistemi. Riconosce che la salute degli esseri umani, degli animali domestici e selvatici, delle piante e dell’ambiente in generale (compresi gli ecosistemi) sono strettamente collegati e interdipendenti. L’approccio mobilita più settori, discipline e comunità a vari livelli della società per lavorare insieme per promuovere il bene -essere e affrontare le minacce alla salute e agli ecosistemi, affrontando nel contempo la necessità collettiva di acqua, energia e aria pulite, cibo sicuro e nutriente, intervenendo sui cambiamenti climatici e contribuendo allo sviluppo sostenibile.

L’ OHHLEP ha sollevato per primo l’ importanza di introdurre una definizione completa di One Health, allo scopo di promuovere una comune  comprensione di quello che concerne l’ applicazione del suo approccio in tutti i settori e aree di competenza.

Il proseguio di attività specialistiche previste nei settori come salute, cibo, acqua, energia e ambiente si assocerà ad una  collaborazione tra le diverse  discipline al fine di proteggere la salute globale,  affrontando sfide sanitarie come la diffusione di zoonosi emergenti  e della resistenza antimicrobica,  promuovendo nel contempo la conservazione e la tutela  dell’ ecosistema.

L’ approccio adottato si può applicare su più livelli (regionale, nazionale, comunitario, globale) e si basa su più elementi come governance, comunicazione, collaborazione e coordinamento condivisi ed efficaci.

Come riportato sul sito dell’ OIE, il  Tripartito ( FAO, OIE, OMS) e l’UNEP continueranno a coordinare e implementare le attività in linea con lo spirito della nuova definizione OHHLEP di One Health.

Fonte: IZS Lazio e Toscana