Spillover e Spillback, andata e ritorno dei patogeni dall’uomo agli animali

In questi anni abbiamo sentito parlare parecchio di spillover, che letteralmente identifica un “salto di specie” ma che più spesso viene inteso come passaggio di un patogeno dagli animali all’uomo. Tale meccanismo può essere alla base  di malattie nuove o emergenti o vere e proprie epidemie/pandemie, come nel caso dell’influenza e probabilmente del SARS_CoV-2.

Si parla meno frequentemente, ma non è meno importante in ottica One Health, del fenomeno dello  “spillback” che identifica il processo inverso ovvero il “salto” del patogeno dall’uomo agli animali, talvolta a specie molto diverse da quelle che erano serbatoio o ospite occasionale/spillover del patogeno stesso. Lo spillback può determinare la comparsa e la stabilizzazione di un patogeno negli animali in un territorio dove prima non era presente, ed  essere causa di malattia in specie animali che loro volta possono diventare fonte di infezione per l’uomo.

Il meccanismo è meno complicato di quanto sembra se pensiamo al virus del vaiolo della scimmia, (monkeypox) che è sempre stato localizzato in Africa e in poche altre regioni, nelle quali è passato dalla scimmia ed altre specie di roditori che fungevano da serbatoio all’uomo, avendo però ben poche occasioni di passare in altre specie animali, anche domestiche.

Tuttavia, da quando il monkeypox virus si è diffuso tra gli umani in nuove aree più densamente popolate, come gli Stati Uniti e l’Europa, è sorto il problema della possibile infezione anche di nuove specie animali “domestiche” a contatto con esseri umani infetti (cani, roditori, lagomorfi etc.) e quindi anche del potenziale passaggio nelle specie selvatiche.

La mancanza di controllo e monitoraggio dei fenomeni di spillback può essere facilmente causa della costituzione di nuovi serbatoi animali di virus e della persistenza della malattia nelle nuove aree “conquistate”.

Per questo l’Organizzazione Mondiale della Salute animale (WOAH) ha prodotto una linea guida per indirizzare a conoscere e limitare il rischio di spillback dall’uomo agli animali selvatici, ai pet e ad altri animali.

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Covid: possibilità di trovare antenato del virus “quasi nulle”

coronavirusLe chance di rintracciare l’antenato di Covid-19 sono ormai quasi nulle. Questa, in estrema sintesi, è la conclusione a cui giunge un approfondimento pubblicato sulla rivista Nature, in cui si ripercorrono gli sforzi effettuati dalla ricerca per ricostruire le origini della pandemia. Stando alle conoscenze attuali, spiegano i virologi, SARS-CoV-2 potrebbe aver condiviso un antenato con i coronavirus dei pipistrelli più recentemente di quanto precedentemente ipotizzato. Individuare le origini dell’agente patogeno, però, è molto più complesso di quanto si possa immaginare. I virus possono infatti scambiare tra loro frammenti di RNA, attraverso un processo chiamato ricombinazione. In un’analisi presentata durante il World One Health Congress a Singapore, gli scienziati hanno confrontato frammenti di genomi di coronavirus per cercare di individuare le origini di Covid-19. L’indagine suggerisce che alcune sezioni di coronavirus di pipistrello e SARS-CoV-2 condividevano un antenato comune nel 2016, appena tre anni prima dell’inizio della pandemia. Questo lavoro, che non è ancora stato sottoposto a revisione paritaria, restringe l’arco di tempo intercorso tra l’antenato di SARS-CoV-2 originato nei pipistrelli e l’agente patogeno che ha provocato l’emergenza sanitaria globale. I risultati, tuttavia, non contribuiscono alla spiegazione puntuale di come e quando sia avvenuto il salto.

“Le possibilità di trovare un antenato diretto di Covid-19 sono quasi nulle – afferma Edward Holmes, virologo evoluzionista presso l’Università di Sydney – l’agente patogeno che ha raggiunto l’umanità nel 2019 potrebbe essere stato il frutto di una serie di ricombinazioni e mutazioni. È ormai praticamente impossibile ricostruire le origini della pandemia”. Dall’inizio della diffusione di Covid-19, moltissimi esperti hanno sequenziato i genomi dei coronavirus dei pipistrelli, esaminando campioni di tessuti conservati nella speranza di individuare l’antenato di SARS-CoV-2, ma tutti gli sforzi si sono rivelati poco proficui. Alcuni hanno anche ipotizzato che il virus sia sfuggito dal Wuhan Institute of Virology, ma questa teoria non è stata convalidata da evidenze scientifiche. Finora sono stati isolati più di una dozzina di virus strettamente correlati al SARS-CoV-2 da pipistrelli e pangolini. Questo approccio ha portato all’individuazione di due parenti stretti dell’agente patogeno: un virus di pipistrello trovato in Laos chiamato BANAL-52, il cui genoma è identico al 96,8 per cento a quello di SARS-CoV-2, e un virus chiamato RaTG13, trovato nello Yunnan, nella Cina meridionale, che condivide il 96,1 per cento del proprio genoma con il responsabile della pandemia. “Per tradurre in arco temporale queste differenze – afferma Spyros Lytras, dell’Università di Glasgow – abbiamo confrontato 18 virus di pipistrello e pangolino strettamente correlati a SARS-CoV-2 e li abbiamo uniti in 27 segmenti, ognuno dei quali ha una storia evolutiva diversa”. Per ogni tratto, i ricercatori hanno utilizzato un sottoinsieme più ampio di 167 virus correlati per stimare quanto recentemente SARS-CoV-2 abbia condiviso un antenato comune con il virus considerato. L’analisi ha rivelato che alcuni segmenti condividevano un antenato comune con SARS-CoV-2 solo pochi anni fa, con i frammenti più giovani associati a tessuti di pipistrelli campionati nello Yunnan e nel Laos. “Alcuni frammenti esaminati – conclude Lytras – erano piuttosto corti, il che rende le stime meno affidabili. Questo approccio è stato molto interessante, e potrebbe averci avvicinato un po’ alla risoluzione del mistero sulle origini di Covid-19, che però potrebbero essere troppo complesse da ricostruire”.

Fonte: AGI




Il batterio Listeria Monocytogenes individuato per la prima volta in una tartaruga marina

Un passo in avanti fondamentale per capire il ruolo di questo microrganismo patogeno nell’ecosistema marino

 Una tartaruga spiaggiata recuperata sulle coste abruzzesi, morta dopo pochi giorni, ha rappresentato il punto di partenza per una ricerca che ha portato all’isolamento di Listeria monocytogenes . Si tratta della prima volta nella quale questo microrganismo viene individuato in un rettile marino, aprendo la strada a nuove ricerche per capire meglio la sua diffusione nell’ambiente.

Lo studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo e pubblicato sulla rivista scientifica Animals , ha preso in esame una tartaruga della specie Caretta caretta, la più diffusa nel Mediterraneo. L’animale, trovato su una spiaggia del comune di Ortona, in Abruzzo, era stato raccolto dal Centro Studi Cetacei ONLUS e trasferito al Centro di Recupero e Riabilitazione Tartarughe Marine di Pescara. Le sue già gravi condizioni lo avevano portato a morte nel giro di sei giorni.

A questo punto sono iniziate le indagini da parte dei laboratori dell’IZS, dove la carcassa era stata trasferita. Con un risultato piuttosto sorprendente: la tartaruga era affetta da listeriosi, infezione che ne aveva causato la morte. Potenziale responsabile di contaminazione alimentare e, seppur raramente, causa di infezioni anche gravi negli esseri umani, l’attenzione verso questo batterio deve essere sempre mantenuta alta.

Listeria monocytogenes – dice Ludovica Di Renzo, prima autrice del lavoro scientifico – è largamente diffusa, sia nel suolo che nelle acque dolci. Inoltre il batterio è anche capace di sopravvivere per settimane nell’ambiente marino. Questo rilevamento in un rettile come la Caretta caretta, animale che consideriamo uno dei migliori indicatori della salute dei mari, ci apre prospettive nuove per capire meglio la diffusione di Listeria monocytognes e le sue capacità di adattamento. Siamo stati in grado di studiare la tartaruga entro pochissimo tempo dalla morte, un risultato che è reso possibile grazie all’esistenza in Abruzzo della Rete Regionale Spiaggiamenti e del Centro Studi Cetacei”.

Dagli studi condotti sul genoma è risultato che il ceppo di Listeria monocytogenes isolato dall’IZS presenta geni di virulenza, che lo rendono capace di causare infezioni gravi negli animali, e potenzialmente nell’uomo. “Da questo punto di vista – continua la ricercatrice – le nostre osservazioni confermano l’ipotesi che gli ambienti selvatici, compreso quello marino, favoriscano il mantenimento e la diffusione di ceppi potenzialmente virulenti di Listeria monocytogenes. I nostri prossimi passi, ora, riguarderanno studi genomici che potranno darci informazioni preziose sulla distribuzione in natura del patogeno e geni di virulenza ad esso associati.

La presenza di un batterio potenzialmente pericoloso come Listeria monocytogenes in animali marini sottolinea anche un aspetto più ampio, come evidenzia Di Renzo: “Per molti il concetto di ‘One health’, di una salute globale che comprenda uomo, animali e piante, è limitato agli ambienti terrestri. Invece vediamo sempre di più che è arrivato il momento di includere anche il mare nell’idea di questo sistema unico ed integrato”.

Il lavoro scientifico pubblicato su Animals, infine, rappresenta l’occasione di raccomandare a tutti l’adozione di misure di precauzione quando si ha a che fare con animali spiaggiati, spesso oggetto della curiosità di bagnanti, soprattutto bambini. Il potenziale pericolo di infezioni deve infatti sempre essere considerato. “La cautela e l’adozione di buone pratiche nell’approccio a un animale spiaggiato, anche se si tratta di una piccola tartaruga – conclude la ricercatrice – vale non solo per gli specifici operatori impegnati nel recupero, ma anche per tutti i cittadini”.

Fonte: IZS Teramo



Combattere la Listeria Monocytogenes studiando le sue grandi capacità di adattamento

Listeria monocytogenesUna ricerca per capire come questo pericoloso batterio sia capace di sopravvivere, anche in condizioni molto difficili, mediante la produzione di determinate proteine, alcune delle quali attualmente prive di funzione nota

Listeria monocytogenes , uno dei più pericolosi microrganismi patogeni trasmessi attraverso gli alimenti, è un batterio decisamente resistente, capace di sopravvivere e persino riprodursi in condizioni ambientali particolarmente dure, dalla temperatura al sale, dall’acidità alla scarsità di acqua. Grazie a queste caratteristiche, non solo Listeria è largamente diffuso nell’ambiente, ma può contaminare gli ambienti delle industrie alimentari, dove la sua eliminazione può diventare particolarmente difficile.

La chiave è nell’adattabilità: di fronte agli stress ambientali il batterio attiva specifiche parti del suo codice genetico, che porta alla sintesi di proteine che lo rendono capace di fronteggiare situazioni avverse. Proprio la comprensione di come Listeria si adatti all’ambiente è alla base di un nuovo lavoro scientifico realizzato dal Laboratorio Nazionale di Riferimento per Listeria monocytogenes dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo (IZSAM) e pubblicato sulla rivista Proteomics.

Lo studio ha preso in esame un particolare ceppo di Listeria, denominato ST7, che negli anni passati è stato responsabile di una serie di focolai di listeriosi nell’Italia centrale, con casi anche molto gravi. I ricercatori hanno sottoposto i batteri a condizioni ambientali moderatamente stressanti variando la temperatura, il livello di acidità e la concentrazione di sale. “Le condizioni che abbiamo scelto – dice Federica D’Onofrio, dottoranda presso la Facoltà di Bioscienze e tecnologie agro-alimentari e ambientali dell’Università di Teramo, prima firmataria del lavoro – sono le stesse che possono verificarsi nelle fasi di produzione, distribuzione e vendita di prodotti alimentari. In altri termini, sono molto vicine alla realtà dei cibi che possiamo trovare in negozi o supermercati”.

Per ogni diversa situazione gli autori dello studio hanno quindi analizzato i batteri mediante tecniche di immunoproteomica e bioinformatica. Questo ha permesso di individuare quali geni si erano attivati in risposta agli stress, sintetizzando le proteine corrispondenti. “Abbiamo visto – continua D’Onofrio – che, rispetto ai batteri cresciuti in condizioni ottimali, quelli sottoposti a stress producevano specifiche proteine, alcune delle quali attualmente prive di funzione nota. I meccanismi biologici coinvolti in questa risposta sono quelli della motilità cellulare, del metabolismo dei carboidrati, dello stress ossidativo e della riparazione del DNA”.

In altre parole, come avviene per ogni organismo vivente,  Listeria cerca di adattarsi per sopravvivere. Solo che riesce a farlo in modo particolarmente efficiente. “La produzione di proteine determinata dall’attivazione di specifici geni in condizioni stressanti – dice Mirella Luciani, Reparto Immunologia e Sierologia IZSAM, tutor di Federica D’Onofrio per il dottorato – è  l’elemento alla base della capacità di questi batteri di diffondersi nell’ambiente e, in certi casi, di persistere anche negli impianti di produzione alimentare. Considerando quanto la listeriosi possa essere pericolosa per alcune categorie particolarmente vulnerabili come i bambini, gli anziani, gli immunodepressi e le donne in gravidanza, approfondire i meccanismi di difesa dei batteri ci potrà aiutare nello studio di nuove strategie per combatterli”.

Fonte: IZS Teramo




Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura 2022: sfruttare l’automazione per trasformare i sistemi agroalimentari

FAOL’automazione agricola, che spazia dai trattori fino all’intelligenza artificiale, può contribuire enormemente a rendere la produzione alimentare più efficiente ed ecologica. Il fatto, tuttavia, che sia sfruttata in maniera disomogenea può addirittura inasprire le disuguaglianze, soprattutto se rimane inaccessibile ai piccoli produttori e ad altri gruppi emarginati, come i giovani e le donne.

L’edizione 2022 del rapporto “Lo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura” (SOFA), uno dei rapporti faro pubblicati ogni anno dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), esamina in che modo l’automazione nei sistemi agroalimentari può concorrere al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile e formula raccomandazioni destinate ai responsabili politici su come ottimizzare i benefici e ridurre al minimo i rischi.

Dai servizi di noleggio di trattori in Ghana fino alle casse di gamberetti che utilizzano l’apprendimento automatico e la robotica in Messico, il rapporto passa in rassegna 27 studi di casi in tutto il mondo, che illustrano tecnologie a vari stadi di sviluppo e capaci di rispondere alle esigenze di aziende agricole di diverse dimensioni e livelli di reddito.

Il rapporto analizza i fattori che muovono lo sviluppo di tali tecnologie e individua alcune barriere che ne ostacolano l’adozione, in particolare, da parte dei piccoli produttori. Alla luce di tale analisi, la pubblicazione suggerisce politiche per garantire che l’automazione agricola sia inclusiva e contribuisca alla creazione di sistemi agroalimentari sostenibili e resilienti.

Infine, il rapporto esamina anche uno dei più frequenti timori legati all’automazione, ossia la possibilità che essa crei disoccupazione, concludendo che tali preoccupazioni non sono supportate dai fatti.

Al contrario, secondo il rapporto, l’automazione, in generale, riduce la carenza di manodopera e può rendere la produzione agricola più resiliente e dinamica, migliorare la qualità dei prodotti, accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, promuovere un’occupazione dignitosa e incrementare la sostenibilità ambientale.

“La FAO è realmente convinta che, senza il progresso tecnologico e un aumento della produttività, non sia possibile affrancare centinaia di milioni di persone dalla povertà, dalla fame, dall’insicurezza alimentare e dalla malnutrizione,” scrive il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu, nella prefazione al rapporto. “Il nocciolo della questione è capire, non tanto se l’automazione troverà o meno applicazione in agricoltura, quanto in che modo essa sia portata avanti nella pratica.  Dobbiamo, cioè, garantire che l’automazione dei processi produttivi avvenga in maniera inclusiva e tale da promuovere la sostenibilità.”

Progressi nel campo dell’automazione

Fin dall’antichità, gli esseri umani hanno cercato di ridurre la fatica del lavoro agricolo sviluppando strumenti ingegnosi e sfruttando la forza del fuoco, del vento, dell’acqua e degli animali. Nel 4000 a.C., gli agricoltori mesopotamici utilizzavano già l’aratro trainato da buoi, mentre i primi mulini idraulici hanno fatto la loro comparsa, in Cina, intorno al 1000 a.C.

Negli ultimi due secoli, il ritmo del cambiamento tecnologico ha subito una drastica accelerazione, innescata dalla scoperta del motore a vapore e, successivamente, sostenuta dall’avvento dei trattori alimentati da combustibili fossili.

Al giorno d’oggi, è in corso una nuova rivoluzione, che è guidata dalle tecnologie digitali. Tra queste, si annoverano l’intelligenza artificiale, i droni, la robotica, i sensori e i sistemi satellitari globali di navigazione, accanto alla vasta proliferazione di dispositivi portatili, come i cellulari e un’infinità di nuovi dispositivi collegati a Internet, il cosiddetto Internet delle cose. Un altro importante sviluppo riguarda l’ambito dell’economia della condivisione. In Africa e in Asia, per esempio, i servizi di beni condivisi adottano un modello simile all’applicazione dei taxi Uber, che permette agli agricoltori di piccole e medie dimensioni di accedere a macchinari costosi, come un trattore, senza doverli necessariamente acquistare.

L’enorme disparità che si osserva nella diffusione dell’automazione tra vari paesi e all’interno degli stessi è un fattore cruciale, soprattutto nelle regioni, come l’Africa subsahariana, dove l’adozione di tali strumenti è particolarmente limitata. Per esempio, già nel 2005, si calcolava che in Giappone erano disponibili oltre 400 trattori per 1 000 ettari di terra arabile, rispetto agli appena 0,4 trattori presenti in Ghana.

Alcune tecnologie, inoltre, sono ancora in fase di prototipazione, mentre la diffusione di altre è ostacolata da scarse infrastrutture di appoggio (come la connettività e l’elettricità), soprattutto nei paesi a basso e medio reddito.

È bene, infine, ricordare che alcune tecnologie, come i grandi macchinari motorizzati, possono avere effetti ambientali negativi, poiché contribuiscono alla monocultura e all’erosione del suolo. Ad ogni modo, la recente diffusione di macchinari di più piccole dimensioni sta aiutando a superare tali criticità.

Raccomandazioni politiche

Il principio cardine su cui poggiano le raccomandazioni politiche formulate nel rapporto ruota attorno all’idea di un cambiamento tecnologico responsabile. Tale prospettiva comporta, per un verso, la necessità di prevedere l’impatto delle tecnologie sulla produttività, la resilienza e la sostenibilità, e, per un altro verso, la disponibilità a concentrarsi sui gruppi vulnerabili ed emarginati.

La chiave di volta consiste nel creare un contesto favorevole, che presupponga un uso coerente di vari strumenti politici contemporaneamente, tra cui norme e regolamenti, infrastrutture, accordi istituzionali, istruzione e formazione, ricerca e sviluppo, e il sostegno ai processi d’innovazione del settore privato.

Tra gli impegni presi per ridurre una diffusione disomogenea dell’automazione dovrebbero esserci gli investimenti inclusivi, con la partecipazione di produttori, fabbricanti e fornitori di servizi, in particolare giovani e donne, allo scopo ultimo di sviluppare ulteriormente le tecnologie e adattarle alle esigenze specifiche degli utenti finali.

Inoltre, gli investimenti e altre azioni politiche concepite per promuovere un’automazione responsabile in ambito agricolo dovrebbero tener conto delle condizioni specifiche di una determinata area, come lo stato della connettività, le sfide legate alle conoscenze e alle competenze, l’adeguatezza delle infrastrutture e le disparità di accesso. Anche le condizioni biofisiche, topografiche e climatiche giocano un ruolo in tal senso. Per esempio, piccoli macchinari e addirittura gli strumenti manuali possono offrire benefici sostanziali ai piccoli produttori che lavorano i terreni collinari.

Infine, il rapporto prende in esame i diffusi timori per i possibili impatti negativi delle tecnologie che semplificano il lavoro, in termini di disoccupazione e trasferimento dei posti di lavoro. Pur concludendo che tali timori sono eccessivi, il rapporto riconosce che l’automazione in agricoltura può effettivamente generare disoccupazione nelle zone in cui la manodopera rurale è abbondante e i salari sono bassi.

In tali zone ad alta intensità di manodopera, i responsabili politici dovrebbero evitare di incentivare l’automazione e concentrarsi piuttosto sulla creazione di un contesto favorevole per la sua adozione, offrendo, al tempo stesso, forme di protezione sociale ai lavoratori meno qualificati, che hanno maggiori probabilità di perdere il lavoro durante la transizione.

Definizioni

Con il termine automazione agricola nel rapporto si intende il ricorso a macchinari e attrezzature nelle attività agricole per migliorare la diagnosi, il processo decisionale o le prestazioni, riducendo la fatica del lavoro agricolo e/o migliorando la tempestività, nonché potenzialmente la precisione, delle operazioni agricole.

Con l’espressione sistemi agroalimentari si intende l’intera gamma di attori, nonché le attività generatrici di valore aggiunto ad essi correlate, coinvolti nella produzione primaria di alimenti e prodotti agricoli non alimentari, nonché nello stoccaggio, nell’aggregazione, nel trattamento post-raccolta, nel trasporto, nella lavorazione, nella distribuzione, nella commercializzazione, nello smaltimento e nel consumo di tutti i prodotti alimentari, compresi i prodotti di origine non agricola.

Fonte: FAO



Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

Dal monitoraggio costante la scoperta del nuovo virus del pipistrello in Lombardia

 La Regione Lombardia, dal 2012 si è dotata di un piano di Monitoraggio Sanitario della Fauna selvatica che si pone lo scopo di monitorare non solo un gruppo determinato di patologie e relative specie nelle quali ne è nota la possibile presenza, ma più in generale anche eventuali fenomeni di spillover (passaggio di virus) nella fauna selvatica.

Nell’ultimo ventennio infatti in Lombardia come in tutta Italia, si è assistito a un continuo ed esponenziale aumento delle popolazioni di animali selvatici, sia per consistenza numerica sia per distribuzione geografica, raggiungendo livelli tali da rappresentare un’entità non più trascurabile in termini di potenziali fattori di rischio sanitario per gli animali domestici e per l’uomo.

La diffusione degli animali selvatici e i conseguenti aumentati contatti con l’uomo esitano in un continuum epidemiologico tra animali selvatici, domestici e specie umana favorendo, tra le altre cose, la possibile diffusione e reciproca trasmissione di malattie comuni, nuove, emergenti o re-emergenti.

È infatti un dato da tempo assodato che le malattie trasmissibili all’uomo di origine animale (c.d. zoonosi) originate dalla fauna selvatica, possono rappresentare una minaccia per la salute umana e individuare tempestivamente la comparsa e contrastarne efficacemente la diffusione rappresenta una priorità per la salute pubblica.

Grazie alla preziosa rete di collaborazione garantita dal Piano di monitoraggio, sviluppato dalla UO Veterinaria della DG Welfare e che vede come attori anche l’IZSLER e i Centri di Recupero degli Animali Selvatici, è stato possibile identificare per la prima volta in Italia il virus Issyk-Kul (ISKV).

Allo stato attuale si sa ancora poco su questo virus, anche se è descritto come causa di possibili focolai di malattia nell’uomo caratterizzati da febbre, mal di testa, mialgia, e nausea con tempi di convalescenza anche di alcune settimane (Vedi Scheda Tecnico-Scientifica).

Il virus è stato isolato da un pipistrello appartenente ad una specie (Hypsugo savii) sedentaria e molto diffusa nelle aree urbane, che utilizza gli edifici come siti di rifugio suggerendo possibili implicazioni per la salute pubblica. L’isolamento è stato eseguito su un esemplare deceduto spontaneamente presso il CRAS WWF della Valpredina e analizzato presso l’IZSLER all’interno delle indagini di sorveglianza passiva sui pipistrelli previste dal Piano Fauna Selvatica di Regione Lombardia.

Ad oggi l’IZSLER ha registrato una sola positività e sono in coso ulteriori indagini volte a definire la diffusione, distribuzione ed ecologia di questo virus, che permetterà anche di acquisire informazioni utili a definire la prevalenza/incidenza di ISKV per meglio capire se esiste un eventuale rischio di trasmissione e diffusione agli animali e all’uomo.

Questa importante scoperta, resa possibile grazie al lavoro di coordinamento della DG Welfare dei diversi attori coinvolti nel Piano di monitoraggio sanitario della fauna selvatica, ivi inclusi l’IZSLER e i CRSA regionali, sottolinea come le attività di sorveglianza sanitaria degli animali selvatici siano un importante momento di conoscenza e di prevenzione di possibili comparsa di fenomeni di spillover anche nel territorio di Regione Lombardia.

L’attività di monitoraggio rientra nel quadro delle numerose attività dell’IZSLER nella cosiddetta One Health (Una Sola Salute).

Fonte: IZS Lombardia Emilia Romagna




Utilizzo di insetti nell’alimentazione dei ruminanti: caratteristiche delle fermentazioni ruminali

Farina di insettiL’alimentazione dei ruminanti è sempre al centro dell’attenzione e degli studi da parte degli organi di Ricerca, e la necessità di trovare fonti proteiche alternative è quanto più importante dato il particolare momento storico che tutti viviamo. Come già discusso, il consumo di risorse e l’impatto ambientale della loro produzione restano un problema quotidiano, soprattutto quando si parla di alimentazione dei ruminanti e degli animali da pascolo. Ecco quindi una nuova ricerca che mostra come l’utilizzo di fonti proteiche alternative possa rivelarsi una soluzione efficace al problema. Vediamolo nel dettaglio.

 Recenti studi hanno dimostrato come le fonti proteiche maggiormente utilizzate nell’alimentazione dei ruminanti possano avere un impatto negativo sull’ambiente e causare un incremento della competizione per la gestione delle terre coltivabili e l’acqua altrimenti destinate all’alimentazione umana.

L’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con l’INRAE (Institut National de Recherche pour l’Agriculture, l’Alimentation et l’Environnement, Saint-Genès-Champanelle – France), ha sperimentato l’utilizzo di otto differenti farine di insetto (alcune delle quali mai state testate prima nell’alimentazione dei ruminanti o dei monogastrici), come potenziali fonti proteiche e lipidiche per la nutrizione di ruminanti.

Al fine di valutare al meglio la loro efficacia e idoneità da un punto di vista nutrizionale, queste farine sono state confrontate con tre farine di origine vegetale (farina di soia, di girasole e di colza, le più utilizzate nel settore) e con la farina di pesce, utilizzata come fonte proteica di origine animale di riferimento. Le otto specie di insetto testate sono state: Acheta domesticus L.; Alphitobius diaperinus Panzer; Blatta lateralis Walker; Grylloides sigillatus Walker; Gryllus bimaculatus De Geer; Hermetia illucens L.; Musca domestica L. e Tenebrio molitor L.

L’analisi chimico-bromatologica delle farine di insetto ha evidenziato un contenuto di proteina grezza paragonabile a quello delle farine vegetali, mentre il contenuto di estratto etereo è risultato di gran lunga superiore. Per tale motivo, le farine di insetto intere possono rappresentare anche un’ottima fonte lipidica o energetica, alternativa agli oli vegetali spesso utilizzati per aumentare la densità energetica delle diete o per migliorare il profilo acidico dei prodotti di origine animale, quali latte o carne.

Quest’ultimo risulta un aspetto particolarmente interessante, in quanto la maggior parte delle specie di insetto analizzate ha mantenuto, a seguito dei processi di bioidrogenazione, elevate concentrazioni di acidi grassi insaturi a livello ruminale, soprattutto acido linoleico (noto per avere effetti positivi sulla salute umana).

Con l’utilizzo delle farine di insetto si è osservata una produzione di gas (soprattutto metano) e acidi grassi volatili notevolmente inferiore rispetto a quanto verificatosi con gli altri alimenti convenzionali testati. Questo risultato è stato spiegato dagli autori dello studio come possibile conseguenza dell’elevato contenuto di proteina grezza ed estratto etereo delle farine di insetto, in quanto le proteine sono note per esercitare un effetto tampone (abbassano il livello di acidità), mentre un alto contenuto di lipidi può portare alla parziale inibizione della microflora metanigena ruminale e alla diminuzione della digeribilità dei carboidrati.

Infatti, anche la digeribilità totale dell’alimento è risultata inferiore per le farine di insetto rispetto alle farine vegetali e alla farina di pesce. Per tale esito, è necessario considerare anche la possibile influenza della chitina, un polisaccaride naturalmente presente nell’esoscheletro degli insetti e dei crostacei che non viene degradato dai microorganismi ruminali. Infine, le farine di insetto (ad eccezione di Blatta lateralis) risultano determinare una produzione inferiore di ammoniaca all’interno del rumine, rispetto agli altri alimenti convenzionali testati.

Ciò indicherebbe una minore degradazione delle proteine a livello ruminale, consentendo potenzialmente un loro maggior utilizzo a livello intestinale e rendendole di conseguenza più facilmente utilizzabili dall’animale. Alla luce di quanto riportato, gli autori di questo studio concludono che, da un punto di vista nutrizionale, le farine di insetto potrebbero essere potenzialmente impiegate come sostituti di fonti proteiche ed energetiche tradizionalmente utilizzate nelle diete dei ruminanti.

 Fonte: ASPA
 



Attività antimicrobica di nanoparticelle di carbonio caricate con ioni rame contro Listeria monocytogenes: la Ricerca dell’IZS Lazio e Toscana

Listeria monocytogenesI nanomateriali sono materiali naturali, derivati o fabbricati contenenti particelle allo stato libero, aggregato o agglomerato, con almeno una delle dimensioni compresa tra 1 e 100 nanometri.

Alla luce delle loro diverse proprietà fisiche, chimiche, meccaniche peculiari, i nanomateriali e le nanoparticelle trovano quindi applicazione in molteplici campi, tra cui quello alimentare, settore ancora in sviluppo soprattutto per quanto concerne la realizzazione di imballaggi a contatto con alimenti.

La loro applicazione in campo alimentare sembrerebbe infatti offrire importanti notevoli vantaggi tra cui il mantenimento dei valori nutrizionali, la riduzione dell’uso di componenti per la conservazione (es. zuccheri, sali, ecc.)e l’incremento della shelf life dell’alimento.

Le nanoparticelle di carbonio sono sempre più studiate per le loro proprietà di inibizione verso agenti patogeni mentre il rame, noto antimicrobico, legato a nanoparticelle di carbonio sembrerebbe formare un sistema promettente per limitare la crescita di specifici patogeni.

Lo Studio

Nel lavoro scientifico dal titolo “ Inhibitory effect against Listeria monocytogenes of carbon nanoparticles loaded with cooper as precursors of food active packaging”, pubblicato sul periodico “ Foods” , ricercatori dell’ Istituto Zooprofilattico del Lazio e della Toscana in collaborazione con l’ Università di Torino hanno valutato l’attività antimicrobica di nanoparticelle di carbonio caricate con ioni rame (CNP-Cu) contro Listeria monocytogenes, uno dei più importanti microrganismi patogeni di origine alimentare.

La Listeria monocytogenes rappresenta uno dei principali pericoli biologici di interesse alimentare, per la sua capacità di persistenza nell’ambiente.

La listeriosi, malattia di interesse in tutta Europa, rappresenta un grave rischio soprattutto per talune fasce di popolazione, tra cui gli individui immunocompromessi; ciò ha portato allo sviluppo di nuove strategie per limitarne la crescita nel tempo e, tra queste, lo sviluppo di materiali micrometrici ed in particolare a quelli a base di carbonio.

Nel presente studio, sono state sintetizzate due serie di nanoparticelle di carbonio (CNP) di diverse dimensioni, caricate successivamente con il rame (CNP-Cu), a differenti concentrazioni.

L’ attività antimicrobica è stata poi valutata in condizioni sperimentali nei confronti di Listeria monocytogenes.

I risultati ottenuti hanno dimostrato una elevata attività antimicrobica (85%) nei confronti di Listeria monocytogenes confermando le CNP-Cu come agenti promettenti per lo sviluppo di imballaggi attivi nei confronti del microorganismo target.

In ogni caso, in vista della possibile applicazione di questi materiali nell’ industria alimentare, si rende necessario valutare il rilascio di rame negli alimenti, in linea con i limiti stabiliti nel Regolamento della Commissione UE n 10/2011.

Fonte: IZS Lazio e Toscana




Ridurre la diffusione della resistenza agli antimicrobici durante il trasporto di animali: l’EFSA descrive misure attenuative

Ridurre al minimo la durata del trasporto e pulire accuratamente i veicoli, le attrezzature e gli spazi in cui gli animali vengono caricati e scaricati sono alcune delle misure considerate efficaci per ridurre la trasmissione di batteri resistenti durante il trasporto di animali.

Sono queste le risultanze di un parere scientifico dell’EFSA che valuta il rischio di diffusione di  resistenza agli antimicrobici (AMR) tra pollame, suini e bovini durante i trasferimenti tra allevamenti o ai mattatoi.

“Nonostante i dati disponibili evidenzino una riduzione del consumo di antibiotici negli ultimi anni, la resistenza agli antimicrobici rimane un’emergenza di salute pubblica che deve essere affrontata a livello mondiale e in tutti i settori”, ha dichiarato Frank Verdonck, responsabile dell’unità EFSA “Rischi biologici e salute e benessere degli animali”.

“Individuando i principali fattori di rischio, le misure di attenuazione e le esigenze di ricerca in relazione al trasporto di animali, la valutazione dell’EFSA segna un altro passo avanti nella lotta alla resistenza agli antimicrobici in base al principio di salute unica globale ‘One Health’, che integra la valutazione del rischio per l’animale e quello per l’uomo”.

Il parere sottolinea poi quanto sia essenziale un’adeguata organizzazione dei trasporti. Inoltre è molto probabile che qualsiasi misura che migliori la salute, il benessere e la biosicurezza degli animali immediatamente prima e durante il trasporto riduca il rischio di trasmissione di AMR. Le risultanze del parere vanno a integrare le indicazioni dell’EFSA recentemente pubblicate nell’insieme di raccomandazioni per migliorare il benessere degli animali durante il trasporto.

Principali fattori di rischio

La valutazione individua nella presenza di batteri resistenti negli animali prima del trasporto uno dei principali fattori di rischio che contribuiscono alla trasmissione di resistenza agli antimicrobici. Altri fattori di rischio che quasi certamente contribuiscono alla trasmissione sono l’aumento del rilascio di batteri resistenti attraverso le feci, l’esposizione ad altri animali portatori di più o diversi tipi di batteri resistenti, la scarsa igiene dei veicoli e delle attrezzature nonché la durata del trasporto.

Viaggi lunghi che richiedano soste nei centri di raccolta e nei posti di controllo sono associati a rischi più elevati, a causa di fattori specifici come lo stretto contatto con animali provenienti da allevamenti diversi, la contaminazione ambientale e lo stress.

Il quadro generale: le implicazioni per la salute pubblica

L’impatto della valutazione dell’EFSA va oltre la salute e il benessere degli animali, perché molti batteri possono essere trasmessi dagli animali all’uomo. Quando tali batteri diventano resistenti agli antimicrobici, l’efficacia della cura delle malattie infettive nell’uomo può essere compromessa.

Necessaria ulteriore ricerca

Mancano studi scientifici specifici sulla diffusione della resistenza agli antimicrobici tra gli animali durante il trasporto. Il parere evidenzia varie lacune nei dati e raccomanda di focalizzare la ricerca su determinati aspetti.

La valutazione è stata richiesta dalla Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare del Parlamento europeo (ENVI) nel settembre 2021, a seguito di discussioni sull’argomento tra Parlamento europeo, Commissione europea ed EFSA.

Fonte: EFSA




Nuovi anticorpi monoclonali per l’identificazione della malattia emorragica epizootica del cervo

Anticorpi monoclonali, sviluppati in IZS, permetteranno una più efficiente diagnosi di una malattia virale che colpisce prevalentemente i cervi, ma che può attaccare anche i bovini danneggiando la produzione di latte

La Malattia Emorragica Epizootica (EHD acronimo della malattia in lingua inglese), è una patologia virale identificata originariamente in alcune specie di cervi nel Nord America. Negli ultimi anni la malattia è stata registrata nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo. Una sua introduzione in Europa rappresenta pertanto un pericolo che richiede metodi di identificazione e sorveglianza rapidi ed efficienti. Ad oggi non sono stati ancora registrati casi nelle nazioni europee e quindi la malattia può dirsi esotica.

Per assolvere ad uno dei compiti istituzionali in qualità di Centro di Referenza per le Malattie Esotiche (CESME), i ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo hanno avviato una ricerca per lo sviluppo di un metodo diagnostico, i cui risultati preliminari sono stati pubblicati sulla rivista Monoclonal antibodies in Immunodiagnosis and Immunotherapy. I ricercatori hanno infatti prodotto anticorpi monoclonali capaci di riconoscere una proteina specifica del virus responsabile della patologia (EDHV). In questo modo sarà possibile realizzare test di laboratorio affidabili, capaci di portare ad una rapida identificazione della sua eventuale presenza in animali selvatici o da allevamento.

“La Malattia Emorragica Epizootica – spiega Mirella Luciani, del reparto di Immunologia e sierologia, co-autore della pubblicazione scientifica – non costituisce alcun pericolo per l’uomo. Colpisce soprattutto alcune specie di cervi, nei quali può essere particolarmente grave, con tassi di mortalità che possono arrivare fino al 90% per i cervi dalla coda bianca. Occasionalmente, però, può rappresentare un problema anche per i bovini, nei quali la sintomatologia è molto più lieve e la mortalità molto rara, ma in questi casi ci può essere un rilevante calo della produzione di latte con conseguenti danni economici”.

Il virus EDHV viene trasmesso attraverso la puntura di insetti del genere Culicoides, gli stessi che possono trasmettere altri due virus: la bluetongue, che colpisce prevalentemente gli ovini, e la peste equina, che colpisce prevalentemente gli equini. “Questi insetti – continua Luciani – sono presenti in Europa. A loro si devono, ad esempio, i focolai di bluetongue che in anni passati hanno colpito gli allevamenti di pecore in Italia, soprattutto in Sardegna. Quindi ci troviamo di fronte allo stesso ciclo infettivo e alla stessa nicchia ecologica. Significa che l’introduzione in Europa del virus della Malattia Emorragica Epizootica del Cervo è una possibilità concreta. Per questo motivo abbiamo sviluppato un pannello di anticorpi monoclonali che potranno rappresentare un valido supporto per la diagnosi precoce della malattia”.

Fonte: IZS Teramo