Ritrovato sulla costa laziale un pesce istrice tropicale

Un pesce istrice Chilomycterus reticulatus, conosciuto anche come pesce porcospino punteggiato, è l’esemplare di circa 60 cm spiaggiato a Santa Marinella e segnalato da un pescatore grazie alla campagna “Attenti a quei 4!” lanciata da ISPRA e CNR IRBIM per informare i cittadini sulla presenza di quattro pesci alieni potenzialmente pericolosi per la salute umana.
In seguito alla segnalazione ricevuta, i ricercatori dell’ISPRA sono intervenuti per recuperare l’esemplare di Santa Marinella ed effettuare le analisi morfologiche e molecolari per l’identificazione della specie.

E’ il secondo esemplare segnalato nel Mar Mediterraneo dal 2008

Il video del pesce istrice

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Principio di precauzione, una preziosa ancora di salvataggio quando si brancola nel buio

Mentre continua a suscitare grande scalpore l’inchiesta giudiziaria sull’impressionante numero di decessi avvenuti in Val Seriana durante le prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2, credo sia utile fare alcune precisazioni.

Premetto che desidero astenermi, in prima istanza, dall’addentrarmi in una qualsivoglia disamina del dato di fatto, pur innegabile, secondo cui troppe volte abbiamo assistito, nel nostro Paese, ad interventi della Magistratura in contesti professionali – di natura sanitaria e non – che invariabilmente hanno peccato di scarsa o nulla “capacità di autocritica” (“critical self evaluation“, si direbbe nel mondo anglosassone ed anglofono), giustificando in tal modo la discesa in campo dell’Autorità Giudiziaria.

In secundis, per quanto risulti fuor di ogni dubbio che il livello delle conoscenze all’epoca disponibili sul betacoronavirus SARS-CoV-2 e sulla COVID-19 fosse assolutamente deficitario ed incomparabile rispetto a quello attuale, non andrebbe tuttavia dimenticato che la Comunità Scientifica Internazionale aveva già acquisito una nutrita serie di informazioni su altri due betacoronavirus patogeni e correlati a SARS-CoV-2, SARS-CoV(-1) e MERS-CoV, emersi rispettivamente sulla scena evolutiva nel 2002-2003 e nel 2012.

Per completezza d’informazione e, nondimeno, per amor di verità, sarebbe “cosa buona e giusta” porre adeguata enfasi, in un siffatto contesto, sul “principio di precauzione”, una quantomai preziosa ancora di salvataggio alla quale aggrapparsi in tutte quelle situazioni in cui il “pericolo” (il virus SARS-CoV-2, nella fattispecie) e la conseguente “analisi del rischio” (“quantificazione” della circolazione virale e dell’esposizione al virus) presentassero significative lacune conoscitive, come giocoforza accadeva all’esordio e nelle prime fasi della pandemia.

In una lettera a mia firma, pubblicata nel Febbraio 2020 sulla Rivista “Science”, ricordavo che il principio di precauzione era già sceso prepotentemente in campo durante la seconda metà degli anni ’80, a seguito dell’identificazione nel Regno Unito del “morbo della mucca pazza” – alias “encefalopatia spongiforme bovina” – nel Novembre 1986.

E’ bene sottolineare, a tal proposito, che tanto meno si conosce di una determinata condizione morbosa e/o noxa esercitante un più o meno significativo impatto sulla nostra salute, tanto più diviene opportuno se non indispensabile far ricorso al salvifico principio di precauzione, a maggior ragione allorquando si abbia a che fare con un agente patogeno totalmente nuovo ed altamente diffusivo quale si è rivelato sin “ab initio” il betacoronavirus SARS-CoV-2.

Giovanni Di Guardo
Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 




EFSA, ECDC, EURL: focolai di influenza aviaria in atto nei volatili, basso il rischio per il pubblico

Continua a evolversi in Europa e a livello mondiale la situazione dell’influenza aviaria: segnalati nuovi focolai nei volatili e infezioni occasionali nei mammiferi. Sporadiche infezioni nell’uomo sono state segnalate in Paesi extra-UE, ma il rischio per la popolazione UE rimane basso. Sono queste alcune delle risultanze evidenziate nell’ultima relazione congiunta sull’influenza aviaria dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e del Laboratorio di riferimento dell’UE (EURL).

I virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) hanno provocato un aumento di casi di infezione negli uccelli selvatici dell’UE (in particolare nei gabbiani) e continuano a causare infezioni occasionali nei mammiferi. Il numero di focolai infettivi verificatisi nel pollame nell’UE tra dicembre 2022 e marzo 2023 è diminuito dopo il picco del novembre 2022. In Paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi e Italia è stata osservata nei gabbiani un’anomala mortalità di massa. Il rischio di infezioni nel pollame potrebbe aumentare nei prossimi mesi man mano che i gabbiani si spostano verso zone interne, sovrapponendosi eventualmente ad aree di produzione avicola. L’EFSA e l’EURL raccomandano pertanto di mettere in atto strategie di prevenzione nelle zone di produzione avicola.

Sorveglianza dei mammiferi sensibili

In alcuni dei virus circolanti sono state rilevate mutazioni associate ad adattamento genetico ai mammiferi, sia in mammiferi che uccelli. Inoltre recenti episodi di mortalità di massa di mammiferi come i leoni marini suggeriscono una potenziale trasmissione del virus HPAI anche tra i mammiferi. In questo contesto gli scienziati dell’EFSA e dell’EURL raccomandano di estendere e potenziare la sorveglianza ai mammiferi selvatici e d’allevamento, in particolare ai visoni americani e ai suini in quelle zone dove l’HPAI è circolante.

Basso il rischio per la popolazione generale

Anche se sono state segnalate sporadiche infezioni da influenza aviaria nell’uomo, che hanno causato grave malattia o esiti fatali, le infezioni nell’uomo restano un evento raro. La maggior parte delle infezioni gravi riferite nell’uomo di recente da Paesi extraeuropei erano connesse a persone esposte a pollame malato o morto che non avevano indossato dispositivi di protezione individuale, in particolare in piccoli allevamenti privati.

L’ECDC stima che il rischio per il pubblico in Europa sia basso, e da basso a moderato per i lavoratori addetti e altre persone a contatto con volatili e mammiferi morti o malati e potenzialmente infetti. L’ECDC conferma che i virus HPAI attualmente in circolazione sono sensibili ai farmaci antivirali disponibili per l’uomo, e che questi virus si legano di preferenza ai recettori di tipo avicolo presenti negli uccelli e non ai recettori umani.

ECDC, EFSA e EURL raccomandano l’uso appropriato di dispositivi di protezione individuale quando ci si trovi a contatto con volatili. Persone a contatto con volatili o mammiferi infetti devono essere sottoposte ad analisi e tenute sotto controllo onde individuare tempestivamente potenziali casi di trasmissione.

Atti scientifici di riferimento

Fonte: EFSA



Animali vulnerabili a Covid, non abbassare la guardia

A tre anni dalla sua esplosione, la pandemia sembra essere finalmente avviata verso la sua coda finale. Tuttavia, se quello che sta accadendo nell’uomo suggerisce un cauto ottimismo, gli esperti invitano a non perdere di vista quello che sta succedendo negli animali, dove il virus Sars-CoV-2 potrebbe trovare nuovi serbatoi e da lì tornare, magari in forma mutata, all’uomo.

Nei giorni scorsi, la Food and Agriculture Organization (Fao) ha pubblicato un aggiornamento sulla circolazione di Sars-CoV-2 negli animali.

A oggi circa 40 Paesi hanno riportato casi animali, compresa l’Italia.

I PAESI CON CASI DI COVID ANIMALE

Francia, Svizzera, Hong Kong, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Russia, Stati Uniti d’America, Danimarca, Giappone, Regno Unito, Cile, Canada, Brasile, Svezia, Italia, Spagna, Sud Africa, Grecia, Argentina, Lituania, Messico, Slovenia, Estonia, Bosnia Erzegovina, Lettonia, Polonia, Portogallo, Porto Rico, Croazia, Tailandia, Uruguay, Myanmar, Indonesia, Singapore, Colombia, Finlandia, India, Ecuador, Egitto.

Altrettanto lunga la lista degli animali di cui ci sono prove di trasmissione di Sars-Cov-2: dai cani e gatti domestici, fino agli ippopotami.

ANIMALI INFETTATI DA SARS-COV-2

Gatto domestico, cane domestico, visone americano domestico, furetto domestico, visone americano selvatico, gorilla, cervo, binturong, coati, gatto pescatore, tigre, leone, puma, leopardo delle nevi, leopardo indiano, lince canadese, iena maculata, lontra, criceto, ippopotamo, uistitì; lamantino, formichiere, mandrillo, saimiri, volpe rossa, bovini, bufalo.

A oggi non è ancora chiaro come gli animali possano contribuire all’evolversi della pandemia e se possano diventare una fonte di infezione per l’uomo.

La trasmissione da animane a uomo, seppure rara, è stata documentata più volte negli ultimi tre anni. Uno degli ultimi casi resi noti è quello di un leone che ha infettato tre dipendenti del Potawatomi Zoo di South Bend, in Usa. Secondo la ricostruzione contenuta in uno studio pubblicato su medRxiv il leone, che necessitava di essere alimentato da parte degli operatori dello zoo,  potrebbe aver contratto il virus da un dipendente dello zoo trasmettendolo a sua volta ad altri tre operatori.

«Il contatto stretto con i felini di grossa taglia dovrebbe essere considerato un fattore di rischio per la trasmissione zoonotica bidirezionale di Sars-CoV-2, indipendentemente dalla precedente immunizzazione», hanno concluso i ricercatori.

Intanto, proprio in questi giorni è stato pubblicato su mBio, rivista dell’American Society for Microbiology, uno studio che documenta la presenza del virus Sars-CoV-2 nei ratti di New York.

Lo studio è stato avviato nell’autunno del 2021, quando «l’U.S. Department of Agriculture (USDA) Animal and Plant Health Inspection Service ha prelevato degli esemplari di ratto grigio (Rattus norvegicus) a New York per cercare prove di infezione da SarsCoV2», spiega in una nota uno degli autori dello studio, Tom DeLiberto.

I test eseguiti dai ricercatori hanno rilevato che, dei 79 animali analizzati, 13 avevano anticorpi che dimostravano un’infezione da SarsCov2: in 9 di essi si trattava di un’infezione passata, mentre in 4 era ancora in corso. I test molecolari eseguiti su questi ultimi hanno mostrato che a causare l’infezione era un ceppo di virus che era diffuso in Usa circa un anno prima. Gli animali sono risultati però potenzialmente suscettibili anche alle varianti Delta e Omicron.

I ricercatori temono che il virus possa circolare in maniera silente nei ratti e poi tornare, magari in forma mutata, all’uomo. «I nostri risultati evidenziano la necessità di un ulteriore monitoraggio di Sars-CoV-2 nelle popolazioni di ratti per determinare se il virus circola negli animali e si sta evolvendo in nuovi ceppi che potrebbero rappresentare un rischio per l’uomo», afferma il primo firmatario dello studio Yang Wang. «Il virus Sars-CoV-2 rappresenta una tipica sfida ‘One Health’ che richiede approcci collaborativi, multisettoriali e transdisciplinari per essere compresa appieno», conclude il ricercatore.

Fonte: Healthdesk




ONU, aree protette anche negli Oceani

Anche gli Oceani avranno le aree protette, è il risultato dell’accordo storico all’Onu per il primo trattato internazionale a protezione dell’alto mare, quello che a oltre 200 miglia nautiche dalle coste esula dalle giurisdizioni nazionali e rappresenta i due terzi degli oceani, che rappresentano ecosistemi fondamentali per l’umanità.

“Il Trattato ONU sulle aree protette negli Oceani apre la strada all’umanità per fornire finalmente protezione alla vita marina in vaste aree dell’oceano. La sua adozione colmerà una lacuna significativa nel diritto internazionale e offrirà un quadro ai governi per lavorare insieme per proteggere la salute globale degli oceani, la resilienza climatica, il benessere socioeconomico e la sicurezza alimentare di miliardi di persone. Siamo pronti a supportarne l’attuazione”, afferma il direttore generale dell’IUCN, il dott. Bruno Oberle.

Il testo definito dai Paesi membri, sarà adottato dopo l’esame degli uffici legali e la traduzione nelle sei lingue delle Nazioni Unite. Dovrà essere ratificato in seguito da un numero sufficiente di Paesi. Il contenuto non è stato reso noto nel dettaglio ma si tratta di un passo avanti  per l’attuazione dell’impegno ’30×30′ preso alla conferenza Onu di dicembre sulla biodiversità, per proteggere un terzo dei mari (e delle terre) entro il 2030.

Senza un trattato, questo obiettivo sarebbe certamente fallito. Finora infatti non esistevano meccanismi legali per creare aree protette marine (Mpa) nelle acque internazionali difendendo la fauna e condividendo le risorse genetiche. Le acque oceaniche, benchè rappresentino i due terzi degli oceani e quasi la metà del pianeta,  è stato a lungo ignorato negli impegni ambientali, a vantaggio delle zone costiere e di qualche spazio particolare.

La necessità di proteggere gli oceani nella loro interezza è emerge dal fatto che essi  producono la metà dell’ossigeno che respiriamo e rappresentano il 95% della biosfera del pianeta, limitando il riscaldamento climatico assorbendo anidride carbonica.

Le principali minacce per gli oceani sono l’inquinamento, l’acidificazione delle acque e la pesca eccessiva. Tra i nodi che finora avevano impedito un accordo c’erano la procedura per creare le aree marine protette e il modello per gli studi di impatto ambientale.

“Una vittoria per il multilateralismo e per gli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che minacciano la salute degli oceani, oggi e per le generazioni a venire”, ha commentato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.

Fonte: IUCN




Trichinosi: 10 casi a Foggia, di cui 5 in corso di accertamento. Intervista al Vice Presidente Giunta

cinghialiGiunta (SIMeVeP): “Carne sicura. Basta cuocerla. I Medici Veterinari della Asl Foggia stanno controllando le macellerie locali: nessun caso di positività alla trichinosi tra i campioni esaminati”.

Stanno bene e si stanno curando a casa le persone risultate positive al parassita trichinella, in provincia di Foggia. Solo una donna è stata ricoverata, anche per altri motivi, all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza. «I casi di trichinosi accertati finora sono 5, tra questi due fanno parte di uno stesso nucleo familiare, altri due appartengono ad un’altra famiglia, mentre il quinto caso non ha alcun legame di parentela con il resto dei contagiati – racconta a Sanità Informazione Renato Paolo Giunta, Medico Veterinario, vice presidente SIMeVeP – . La positività di altre 5 persone è tuttora in corso di accertamento».

Al setaccio le macellerie locali

Si ipotizza che gli individui risultati positivi al parassita trichinella, che si trasmette all’uomo esclusivamente per via  alimentare, abbiano mangiato carne di cinghiale. «L’Asl di competenza – continua Giunta – è a lavoro per verificare l’origine del parassita. I Medici Veterinari della Asl Foggia stanno controllando anche le macellerie locali, senza riscontrare ad oggi alcun caso di positività tra i campioni di carne prelevati».

Trichinosi, come si trasmette

I primi casi in Puglia sono stati accertati all’inizio del mese di febbraio, ma la situazione è pienamente sotto controllo. «Il contagio avviene esclusivamente per via alimentare – precisa il Medico Veterinario -. Corre maggiori rischi chi consuma carne di suidi, selvatici o domestici, o equina cruda o poco cotta. L’essicamento, la salamoia o l’affumicatura non rendono inattivo il parassita trichinella che, invece, può essere inattivato con congelamento delle carni ad una temperatura di -15° per almeno un mese o con la cottura a cuore delle carni a 70 gradi per almeno quattro minuti».

La carne italiana è sicura

Tuttavia, il pericolo di mangiare carne suina o equina infestata da trichinella, in Italia come nel resto d’Europa, è quasi   del tutto irrilevante. «Tutte le carcasse di suini ed equini al mattatoio e prima di essere messe in commercio, vengono sottoposte ad un esame sistematico “esame trichinoscopico”, teso ad accertare l’eventuale presenza del parassita trichinella – spiega il vice presidente SIMeVeP -. Per questo, le carni, provenienti dal territorio Italiano o dai Paesi europei, sono del tutto affidabili».

La trichinosi tra i selvatici

Anche per i selvatici esisteste una filiera di controllo, «tanto che – racconta Giunta -, lo scorso anno nel Lazio sono stati riscontrati due casi di presenza del parassita in due cinghiali prima ancora che arrivassero al consumatore. I medesimi  controlli possono essere effettuati, attraverso i Medici Veterinari dell’Asl locali, sulle carni di suini a seguito di macellazioni domestiche. Sono dunque proprio le specie selvatiche ad essere considerate più a   rischio – aggiunge l’esperto -. Ad aumentare il rischio della presenza del parassita trichinella sono alcuni animali carnivori, per il nostro territorio devono essere menzionati la volpe rossa e il lupo. Questi selvatici – conclude il Medico Veterinario – possono rappresentare dei veri e propri serbatoi, capaci, in determinati ambienti, di conservarne la presenza nel tempo».

Fonte: Sanitainformazione.it




Batteri resistenti ai nostri più diffusi antimicrobici si trovano ancora di frequente nell’uomo e negli animali

AntibioticoresistenzaLa resistenza dei batteri Salmonella e Campylobacter ad antimicrobici di uso comune viene osservata nell’uomo e negli animali di frequente, si rende noto in un rapporto pubblicato oggi dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). La resistenza simultanea ad antimicrobici di importanza critica per l’uomo è stata però rilevata generalmente a livelli bassi, eccezion fatta per alcuni tipi di Salmonella e Campylobacter coli in parecchi Paesi.

“La resistenza agli antimicrobici, che interessa l’uomo, gli animali e l’ambiente, è una delle più serie minacce che dobbiamo affrontare a livello mondiale. La collaborazione dei vari soggetti in campo resta la misura principe per affrontare questo problema complesso.

Nel nostro lavoro ci ispiriamo all’approccio One Health, che riconosce gli stretti legami e l’interdipendenza tra la salute degli esseri umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente in genere”, hanno dichiarato in una nota congiunta Mike Catchpole e Carlos Das Neves, rispettivamente direttori scientifici dell’ECDC e dell’EFSA.

In diversi Paesi si sono però registrate tendenze incoraggianti: una percentuale crescente di batteri provenienti da animali da produzione alimentare è risultata sensibile a tutti gli antimicrobici testati.  Inoltre la prevalenza delle beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) e delle beta-lattamasi AmpC (AmpC) che producono E. Coli sta diminuendo.

Nel periodo compreso tra il 2013 e il 2021 è stato osservato anche un calo della resistenza di Salmonella all’ampicillina e alla tetraciclina nell’uomo, in diversi Paesi. Questo è stato particolarmente evidente nella S. Typhimurium, un tipo di Salmonella comunemente associata a suini e vitelli, che è spesso resistente a più farmaci. I dati evidenziano anche una tendenza alla diminuzione della resistenza di Campylobacter jejuni all’eritromicina nell’uomo e nei polli da carne.

Questo tipo di antimicrobico è essenziale per la cura della campilobatteriosi.

Il rapporto evidenzia tuttavia anche una tendenza all’aumento nello stesso periodo di resistenza di S. Enteritidis C. jejuni alla ciprofloxacina nell’uomo. SEnteritidis C. jeuni provocano la maggior parte dei casi di salmonellosi e campilobatteriosi nell’uomo.

Tendenze simili sono state osservate in C. jejuni proveniente da polli da carne tra il 2009 e il 2020, con resistenza alla ciprofloxacina in aumento in parecchi Paesi. Il livello di resistenza alla ciprofloxacina nel Campylobacter è ora talmente elevato che questo antimicrobico non può più essere raccomandato per il trattamento delle infezioni gravi da Campylobacter nell’uomo.

La resistenza di E. coli ai carbapenemi rimane rara negli animali da produzione alimentare e nell’uomo. I carbapenemi sono una classe di antibiotici di ultima istanza e qualsiasi dato che evidenzi resistenza a essi nei batteri zoonotici è motivo di preoccupazione. Pertanto episodi di resistenza ai carbapenemi vanno tenuti sotto controllo e indagati.

Su questo tema l’EFSA comunica con diverse pagine interattive:

Una pagina interattiva di  visualizzazione  mostra i livelli di resistenza nell’uomo, negli animali e negli alimenti, per ciascun Paese, nel 2020 e 2021. Image

Come negli anni precedenti, i dati sulla resistenza nell’uomo agli antibiotici residuati in cibi e acque vengono invece presentati nella pubblicazione dell’ ECDC Surveillance Atlas of Infectious Diseases (alla voce, rispettivamente, campilobatteriosi, salmonellosi e shigellosi).

Atti scientifici di riferimento

The European Union Summary Report on Antimicrobial Resistance in zoonotic and indicator bacteria from humans, animals and food in 2020/2021

Fonte: Efsa




Aviaria, allarme in Italia: intervista al Presidente Sorice

Sorice (SIMeVeP): «La vaccinazione destinata agli animali è già pronta all’uso. Non escluso che, presto, per evitare il diffondersi di altri focolai, le autorità competenti decideranno di mettere a disposizioni le dosi necessarie per vaccinare gli animali presenti nei nostri allevamenti»

Oltre sessanta volatili selvatici in 47 focolai: è questo il bilancio del monitoraggio dei casi di Aviaria in Italia relativo al mese di febbraio (ultimo aggiornamento 28 febbraio). Da settembre 2022, i casi confermati tra gli uccelli non domestici sono 79, di cui 19 gabbiani, 13 alzavole e 10 germani. Le altre infezioni sono state rilevate tra rapaci e anatidi. Ulteriori casi sospetti nei gabbiani sono in corso di conferma presso l’IZSVe.

I focolai di Aviaria sul Garda

«Più della metà di tutti i casi rilevati da settembre ad oggi si sono verificati nel solo mese di febbraio – commenta  Antonio Sorice, presidente della SIMeVeP, la Società Italiana di medicina veterinaria preventiva -. Quasi tutti i focolai, compresi quelle rilevati negli ultimi giorni, si concentrano nel aree limitrofe al lago di Garda, in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Non è escluso che nei prossimi giorni saranno rinvenute altre carcasse di volatili selvatici infetti dal virus dell’aviaria. Per questo – sottolinea il presidente Sorice – è doveroso ricordare a tutti i cittadini di non toccare animali morti e, in caso di ritrovamenti, di allertare immediatamente le autorità competenti».

L’intensificazione di prevenzione e monitoraggio

Osservando la mappa dei focolai emerge con chiarezza che anche quelli riscontrati negli allevamenti, sia di grandi che di piccole dimensioni, sono concentrati nella stessa zona, nelle aree limitrofe al lago di Garda. «Dopo l’ondata epidemica dell’inverno 2021-2022, con 317 focolai negli allevamenti, i sistemi di prevenzione e monitoraggio sono stati intensificati – spiega il veterinario -. All’identificazione di un focolaio, gli animali infetti vengono immediatamente abbattuti, la vendita delle carni e dei prodotti derivati sospesa, la mobilità degli allevamenti interrotta e i controlli in tutte le zone circostanti rafforzati. Questo intenso lavoro ha portato ad ottimi risultati: l’ultimo focolaio nel pollame risale, infatti, al 23 dicembre 2022 e le infezioni confermate da settembre 2022 sono 30 in totale. I casi negli allevamenti, come quelli tra i selvatici, sono stati riscontrati principalmente in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Questo perché sono proprio i volatili selvatici, soprattutto attraverso escrementi infetti, a contaminare gli allevamenti».

L’aviaria nel mondo

I casi nei selvatici riscontrati sul territorio italiano sono in linea con quanto sta avvenendo in altri Paesi: «Anche se, in Europa e nei Paesi extraeuropei  è stato riscontrato un aumento di casi di aviaria pure tra il pollame e tra i mammiferi selvatici, con sporadiche segnalazioni anche tra i mammiferi domestici», racconta Sorice. Nelle scorse settimane, proprio per un aumentato riscontro di casi tra i mammiferi, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, aveva esortato tutte le Nazioni alla massima allerta. «Anche in Italia è attivo il monitoraggio dei mammiferi selvatici rinvenuti sul territorio. Stando ai dati raccolti finora (aggiornati al 28/02/23) non sono stati rilevati casi di aviaria tra questa classe animali», assicura il veterinario

Un vaccino contro l’aviaria per gli animali

Tuttavia, il passaggio del virus dalle specie avicole ai mammiferi in diversi Paesi del mondo fa temere un salto di specie. «Finora non è mai stato rilevato un contagio inter-umano. In Italia i casi registrati tra gli uomini, tutti asintomatici o di lieve entità, hanno riguardato individui che vivono o lavorano a stretto contatto con le specie avicole», sottolinea il presidente SIMeVep. Intanto, mentre i servizi veterinari d’Italia, e di tutto il mondo, sono a lavoro per monitorare la situazione e per rilevare tempestivamente eventuali ulteriori variazioni del virus, gli scienziati si concentrano sulla messa a punto di un vaccino contro l’aviaria. «La vaccinazione destinata agli animali è già pronta all’uso. E non escluso – conclude Sorice – che, presto, per evitare il diffondersi di altri focolai, le autorità competenti decideranno di mettere a disposizioni le dosi necessarie per vaccinare gli animali presenti nei nostri allevamenti».

Fonte: Sanità Informazione




Minacce al programma di reintroduzione dell’ ibis eremita (Geronticus eremita) in Italia: un’ indagine forense.

L’Ibis eremita (Geronticus eremita) è uno degli uccelli più rari al mondo; un tempo era diffuso in tutto il Medio Oriente, in Africa settentrionale ed Europa meridionale e centrale, ma da oltre 400 anni risulta scomparso dall’Europa e ne è rimasta una sola popolazione riproduttiva in Marocco, Algeria, Turchia e Siria.

Nel 2002, il waldrappteam ha avviato uno studio di fattibilità per consentire l’insediamento di colonie migratorie dell’Ibis eremita in Europa e dal 2012 ha iniziato un progetto Life di reintroduzione.

Tale progetto è stato fortemente minacciato da morti improvvise degli animali, soprattutto in Italia, dove vi sono il sito di svernamento e gran parte della rotta migratoria dell’Ibis eremita.

Una delle principali cause di morte in questa specie è il bracconaggio, che soprattutto durante la migrazione autunnale, è un enorme ostacolo, non solo demografico, ma anche economico, per il progetto di reintroduzione. Al fine di combattere il fenomeno della caccia illegale, dalla fine del 2016 il Centro di Referenza Nazionale per la Medicina Forense Veterinaria (CeMedForVet) ha iniziato una collaborazione con il waldrappteam, che tramite indagini forensi, si proponeva di fornire alle autorità prove e materiale per le indagini.

In questo studio sono stati analizzati presso il CeMedForVet tutti i 27 ibis eremita morti (con sospetto di bracconaggio) e consegnati dalle autorità giudiziarie presso il suddetto centro tra il 2016 e il 2022. In linea con la letteratura, anche in questo studio si è rilevato che il bracconaggio è la principale causa di morte di questa specie in Italia, soprattutto durante la stagione venatoria. Inoltre, le cause di morte antropiche hanno rappresentato il 60% dei decessi, di cui il 30% per bracconaggio.

In sintesi in questo studio i ricercatori del Centro di Referenza Nazionale per la Medicina Forense Veterinaria dell’ Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana hanno utilizzato un approccio forense per analizzare, per la prima volta, le principali cause di morte nell’Ibis eremita, ritenendo di straordinaria importanza l’individuazione di azioni illegali sulle specie animali selvatiche, ancor più se in via di estinzione, al fine di fermare il fenomeno del bracconaggio, che rimane tutt’ora la principale causa di morte di questi animali e di molte altre specie migratorie.

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Fonte: IZS Lazio e Toscana




Nuovo gruppo di Rotavirus identificato come agente di diarrea nei puledri

Il Rotavirus gruppo A è una delle cause più comuni di diarrea del puledro. A partire da febbraio 2021, negli USA c’è stato un aumento della frequenza di casi gravi di diarrea emorragica nei puledri neonati. Le indagini hanno identificato come responsabile un nuovo gruppo di Rotavirus appartenente al gruppo B, molto simile ai rotavirus dello stesso gruppo precedentemente trovati nei ruminanti.

In Europa, un’evidenza di questo nuovo gruppo di Rotavirus è attualmente assente, ma si deve considerare se i test siano adeguati per la diagnosi di questo gruppo.

In caso di diarrea neonatale si consiglia di consegnare un campione di feci all’Istituto e richiedere fra gli esami anche la ricerca di questo virus.

Fonte: IZS Lazio e Toscana