Focus su Febbre emorragica Crimea-Congo e Encefalite da zecca

Si terrà il 27 febbraio a Roma, presso il Ministero della Salute a via Ribotta, il Convegno Nazionale, accreditato ECM, MALATTIE TRASMESSE DA VETTORI: focus su Febbre emorragica Crimea-Congo e Encefalite da zecca organizzato da SIVeMP e SIMeVeP.

A breve il programma completo e la scheda di iscrizione.




Rimandato il focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione

Purtroppo dobbiamo comunicare che l’evento su #farmacovigilanza è rimandato per causa di forza maggiore, non dipendente dalla nostra volontà.

Ci scusiamo con tutti.

Presto comunicheremo la nuova data.




Ulteriori notizie preoccupanti sull’influenza aviaria: i gatti potrebbero diventare portatori di influenza aviaria?

Ad oggi H5N1 clade 2.3.4.4b è stato segnalato in oltre 90 specie di uccelli selvatici e domestici e più di 21 specie di mammiferi, tra cui bovini, volpi, puzzole, leoni marini, visoni, delfini, cani procione, gatti e foche, e nell’uomo. Sul ruolo dei gatti come me portatori del virus dell’influenza avaria H5N1 due fonti indirizzano verso questo scenario: un studio pubblicato questa settimana sulla rivista Emerging Microbes and Infections dal titolo ‘Neurotropismo marcato e potenziale adattamento del virus del clade H5N1 2.3.4.4.b nei gatti domestici infettati naturalmente’, e la sospetta influenza aviaria H5 rilevata nei gatti della contea di Los Angeles associata al consumo di latte crudo oggetto di richiamo e proveniente da un allevamento da latte risultato positivo al virus dell’influenza aviaria H5 nelle vacche e nel latte. I gatti risultati positivi al virus H5N1 clade 2.3.4.4b dopo il consumo di latte crudo hanno manifestato sintomi che includevano mancanza di appetito, febbre e segni neurologici con peggioramento delle condizioni e decesso.  Ancora più recente è la notizia di un’epidemia di influenza aviaria che ha colpito un piccolo numero di animali al Wildlife World Zoo vicino a Phoenix, in Arizona.  I test presso il Dipartimento dell’Agricoltura dell’Arizona hanno mostrato che i campioni erano probabilmente positivi per H5N1. I funzionari della sanità pubblica stanno lavorando per identificare il personale e i volontari che probabilmente hanno avuto un’esposizione prolungata agli animali.

I ricercatori dello studio sopracitato hanno trovato due nuove mutazioni nella proteina PA (F314L, L342Q) che possono influenzare sia l’attività della polimerasi, un enzima che il virus usa per copiare il suo genoma che la virulenza, espressa dalla emoagglutinina, l’H in H5N1, la proteina che il virus usa per attaccarsi alle cellule, per stabilizzarla per la trasmissione per via aerea e aiutarla a legarsi meglio alle cellule nelle vie aeree superiori umane. I risultati dello studio suggeriscono un potenziale adattamento del virus e rilevano una diffusa co-espressione dei recettori dell’acido sialico α-2,6 (presente nell’uomo ed altri mammiferi) e α-2,3 (aviario) cha fanno dei gatti potenziali vasi di miscelazione per il riassortimento dei virus dell’influenza aviaria e dei mammiferi. Un cambiamento nell’affinità di legame dell’HA del virus H5N1 dai recettori dell’acido sialico α-2,3 a α-2,6,  abbondantemente espresso nelle vie aeree umane superiori, è fondamentale per ottenere la capacità di trasmissione da uomo a uomo. Uno studio recentissimo pubblicato su Science sull’analisi genetica e strutturale delle mutazioni necessarie per modificare completamente il riconoscimento del recettore ospite da parte del virus ha evidenziato come una singola mutazione dall’aminoacido glutammina a leucina al residuo 226 dell’antigene virale emoagglutinina (HA) sia stata sufficiente a modificare la specificità aviaria a quella umana. Tuttavia, una mutazione della polimerasi, soprannominata 627K perché porta all’amminoacido lisina (K) alla posizione 627 della proteina, è stata trovata più volte nei ceppi che infettano i mammiferi nonché in quelli isolati dal primo caso umano associato all’epidemia negli Stati Uniti nelle vacche da latte.  E’ anche vero che i virus negli uccelli, nei bovini e nell’uomo ad oggi non hanno mostrato mutazioni dell’emoagglutinina 226L che consentirebbe a H5N1 di agganciarsi meglio ai recettori umani.  In natura, il verificarsi di questa singola mutazione potrebbe essere un indicatore del rischio di pandemia umana. I ricercatori ritengono che perché il virus abbia successo sia necessaria una combinazione specifica di mutazioni nella neurominidasi ed emagglutinina. Le due proteine hanno effetti opposti sulle stesse catene di zucchero (acido sialico) sulla superficie delle cellule umane: l’emagglutinina si attacca a queste catene, aiutando il virus a infettare nuove cellule, mentre la neuraminidasi taglia quelle catene, liberando il virus appena formato dalle cellule ospiti. Se l’emoagglutinina è troppo appiccicosa e la neuraminidasi è troppo povera, il virus rimane bloccato nella cellula. E’ una questione di equilibrio che consente al virus di infettare nuove cellule.

Da quando il virus ha iniziato a circolare nei bovini da latte negli USA (rilevato in 832 allevamenti in 16 stati) con almeno 60 casi umani, la maggior parte dei quali associati a stretto contatto con vacche da latte o pollame infetti (ma gli esperti ritengono che la cifra stata sottovalutata  data la mancanza di test obbligatori), si sono verificati diversi decessi nei gatti negli allevamenti da latte colpiti. Dalla fine del 2022, almeno 53 gatti domestici negli Stati Uniti sono stati infettati dal virus H5N1 2.3.4.4b. I gatti possono essere esposti all’influenza aviaria cibandosi di uccelli infetti o altri animali o consumando latte non pastorizzato di vacche infette. Si stima che la versione attuale di H5N1 abbia un tasso di mortalità nei felini del 67%. Il virus dell’influenza aviaria H5 puoi trasmettersi da mammifero a mammifero. L’attuale versione del ceppo H5N1 si è dimostrata sorprendentemente promiscua infettando non solo 90 specie di uccelli ma più di 20 specie di mammiferi. I gatti domestici potrebbero dunque fornire questo nuovo percorso inaspettato per l’H5N1 con il rischio di evolvere in una forma più pericolosa.  Ad oggi i gatti hanno trasmesso un altro ceppo influenzale all’uomo, ma mai l’H5. Tuttavia, nell’eventualità che un gatto venisse infettato contemporaneamente da H5N1 e dal virus dell’influenza stagionale, H5N1 potrebbe potenzialmente acquisire le mutazioni necessarie per l’adattamento ai mammiferi, alcune delle quali già evidenziate, per diffondersi in modo efficiente tra le persone. Il nuovo studio sopra citato evidenzia la necessità per i funzionari di sanità pubblica di rafforzare la sorveglianza dell’influenza aviaria nei felini domestici. Nei mesi passati in USA i test per la ricerca di H5N1 si sono limitati alle vacche da latte e uomo, lasciando gli esperti all’oscuro della vera portata dei focolai epidemici.  Il Dipartimento dell’agricoltura (USDA)- sebbene in ritardo, quasi un anno dopo che il virus ha iniziato a circolare attraverso i bovini da latte-  ha annunciato un programma di esecuzione di test su campioni di latte non pastorizzato da grandi centri di stoccaggio ubicati negli  impianti di lavorazione del latte in tutto il paese al fine di individuare gli allevamenti infetti, ma senza includere il monitoraggio di altri animali da allevamento, per non parlare di quelli domestici.

Come detto i virus dell’influenza aviaria si agganciamo naturalmente ai recettori di tipo aviario presente negli uccelli. Diversamente i virus dell’influenza stagionale richiedono recettori di tipo umano abbondantemente espressi nelle vie aeree umane superiori.  Naturalmente, preoccupano sia i  suini che dispongono di entrambi i tipi di recettori e per tale ragione fungono da vasi di miscelazione ideali con lo scambio di geni di entrambi i virus,  che altre specie animali. Difatti lo studio citato ha rilevato nei gatti entrambi i tipi di recettori nel cervello, nei polmoni e nel sistema gastrointestinale, il che li rende ospiti ideali di entrambi i virus. Man mano che la stagione influenzale riprende nelle prossime settimane negli USA, aumentano anche le probabilità che i gatti vengano infettati contemporaneamente da H5N1 e da un virus dell’influenza stagionale. L’acquisizione della specificità del recettore di tipo umano è necessaria per la trasmissione da uomo a uomo del virus influenzale ed è uno dei principali fattori considerati per il rischio di pandemia di un nuovo ceppo animale di influenza aviaria.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP




Africa: genetica zanzare spiega perchè virus Zika poco diffuso

C’entrano anche le zanzare se in Africa le epidemie del virus Zika sono rare. Un equilibrio che tuttavia potrebbe essee alterato dai cambiamenti climatici. Uno studio dell’High Meadows Environmental Institute (HMEI) presso la Princeton University, l’Institut Pasteur e della University of California, San Diego (US), pubblicato su The Lancet Planetary Health, dimostrerebbe che i bassi tassi correlati alla diffusione del virus Zika, responsabile di difetti alla nascita e di devastanti epidemie nelle Americhe dal 2015 al 2016, possa dipendere dalla composizione genetica delle zanzare autoctone africane. “Esistono due specie di zanzara che diffondono Zika”, dichiara Jamie Caldwell, Associate Research Scholar presso l’HMEI, “ciascuna con tipiche preferenze alimentari e capacità di trasmissione della malattia. Questa differenza genetica potrebbe spiegare perché Zika ha ampiamente risparmiato l’Africa, continente in cui il virus è stato originariamente scoperto, nonostante la presenza di grandi popolazioni di zanzare e le condizioni climatiche favorevoli alla loro attività”. In particolare la forma specializzata umana preferisce pungere gli esseri umani ed ha tendenza a vivere in aree urbane densamente popolate.

Al contrario, la forma ancestrale africana che domina in Africa, è “generalista” e si nutre sia di esseri umani che di animali e proprio la dieta mista ridurrebbe le possibilità che una zanzara infettiva punga un essere umano. Inoltre, la forma ancestrale africana è meno efficace nell’acquisire e trasmettere Zika rispetto alle quelle specializzate umane, costituendo una barriera naturale alla diffusione del virus nel continente africano. Sebbene entrambe le forme di zanzare vivano in Africa, la diversità delle popolazioni di zanzare spiegherebbe la variazione del carico di Zika in Africa, o quale altra ipotesi il contenimento epidemico sul territorio potrebbe dipendere dalla temperatura locale: l’Africa subsahariana ha il clima ideale per la trasmissione del virus Zika, mentre aree con temperature troppo calde o fredde potrebbero limitare la diffusione del virus. Il clima è infatti considerato un “trigger”, cioè un fattore stimolante importante, anche per la distribuzione di altre malattie correlate alle stesse specie di zanzare, come la dengue e la febbre gialla, e in grado di influenzare molti aspetti della trasmissione virale, come la frequenza con cui le zanzare pungono o la velocità con cui si sviluppano in adulti che prediligono gli esseri umani.

La creazione di modelli per studiare gli effetti genetici sulle preferenze di puntura delle zanzare e sulla capacità di diffondere il virus, così come per comprendere il ruolo della temperatura nell’influenzare lo sviluppo, la sopravvivenza e la capacità di trasmissione delle zanzare, ha permesso ai ricercatori di rilevare l’importanza della componente genetica della popolazione di zanzare con un ruolo di maggior peso rispetto al clima. Ciò avrebbe permesso di correlare la proporzione di zanzare specializzate umane in diverse popolazioni in Africa al carico del virus Zika.

Poiché il clima gioca comunque un ruolo importante nel processo di trasmissione, le attuali variazioni climatiche, come anche la rapida urbanizzazione, potrebbero rendere le città africane più vulnerabili alle epidemie del virus Zika nel prossimo futuro. I ricercatori hanno stimato che su un totale di 59 città africane considerate, con una densità di popolazione superiore a 1 milione, 23 città, pari al 39%, rispondano alle condizioni favorenti per la diffusione di un’epidemia di Zika. Se le attuali proiezioni sul clima e sulla crescita della popolazione e gli effetti previsti sulle zanzare si rivelassero accurati, altre 22 città diventeranno luoghi adatti alla contaminazione di Zika, portando a 76% le città africane più popolose. “La nostra ricerca sottolinea l’urgente necessità di sistemi di sorveglianza delle zanzare, soprattutto nelle città con popolazioni in rapida crescita dove anche il cambiamento climatico potrebbe alterare le dinamiche della malattia e sulla diffusione globale di Zika in modi inaspettati “, ha concluso il Noah Rose, coautore dello studio e professore associato presso l’Università della California, San Diego.

 

Fonte: AGI




Malattia X da causa X in Congo, la storia si ripete!

La “nuova” malattia insorta nella Repubblica Democratica del Congo, già messa a dura prova dall’epidemia di “Monkeypox”, avrebbe sin qui provocato almeno 450 casi e oltre 30 decessi, soprattutto fra i bambini al di sotto dei 5 anni.

A dispetto della recentissima notizia relativa alla presenza di una “coinfezione” da Plasmodium falciparum/vivax/malariae – agenti della malaria, malattia endemica nel Continente Africano – nell’80% dei pazienti colpiti dalla “nuova” malattia congolese, fattispecie quest’ultima che renderebbe oltremodo di plausibile e giustificata la frequente coesistenza di quadri anemici negli stessi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e le più importanti Istituzioni planetarie coinvolte nella lotta, nel controllo e nella profilassi delle malattie infettive (quali i prestigiosi “Centers for Disease Control and Prevention”/CDC di Atlanta, negli USA) brancolano ancora nel buio.

A tal proposito, infatti, andrebbe parimenti sottolineato che i succitati quadri anemici si rinvenirebbero comunemente associati ad altre manifestazioni cliniche comprendenti tosse, disturbi respiratori, cefalea ed ipertermia febbrile, elementi dai quali trarrebbe sostegno l’ipotesi di un coinvolgimento di uno o più patogeni respiratori, ai quali potrebbe essere altresì ascritto il ruolo di agente/agenti primario/primari.

Mutatis mutandis, ben prima che il virus responsabile dell’AIDS (Human Immunodeficiency Virus/HIV) venisse contemporaneamente e definitivamente identificato da Luc Montagnier (in Francia) e da Robert Gallo (in USA) nel lontano 1983, i sospetti iniziali si erano indirizzati, per oltre due anni, su Pneumocystis carinii (successivamente ribattezzato P. jirovecii), un protozoo di frequente riscontro nei pazienti affetti da AIDS e che “col senno di poi” avrebbe rappresentato la “punta dell’iceberg” dell’infezione da HIV, costituendo al tempo stesso uno degli svariati agenti opportunisti responsabili di infezioni secondarie in tali individui.

In effetti, si potrebbero citare molteplici esempi di infezioni secondarie sostenute da protozoi sia in persone che in animali primariamente infetti ad opera di agenti immunodeprimenti/immunodepressivi, virali e non, quali Toxoplasma gondii sempre in pazienti con AIDS nonché in cani affetti da cimurro (malattia causata da “Canine Distemper Virus”/CDV, un Morbillivirus) e in delfini con infezione da “Cetacean Morbillivirus” (CeMV, un altro Morbillivirus).

E, poiché di agenti protozoari anche nel caso di Plasmodium falciparum, P. vivax e P. malariae si tratta, l’ipotesi di un coinvolgimento secondario degli stessi nell’eziologia della misteriosa malattia congolese potrebbe risultare plausibile, tanto più in ragione del fatto che i disturbi respiratori osservati nei bambini affetti da siffatta “sindrome X” non rientrerebbero fra i reperti clinico-sintomatologici tipici della malaria.

Se poi andiamo a scavare, neppure più di tanto, nell’affascinante storia delle malattie infettive, fatto salvo il succitato eloquente esempio dell’AIDS, ci accorgiamo che l’identificazione di SARS-CoV, il betacoronavirus responsabile della SARS – malattia riconosciuta per la prima volta nel 2002 dal medico italiano Carlo Urbani, poi deceduto a causa della stessa – è stata preceduta dall’attribuzione, ad opera di ricercatori cinesi, di una responsabilità causale non gia’ ad un agente virale, ma bensi’ a batteri del genere Chlamydia.

Nel mondo animale poi, tanto per citare un ulteriore, eloquente esempio, prima che si addivenisse alla scoperta di una serie di nuovi membri del genere Morbillivirus quali responsabili di devastanti epidemie fra i mammiferi marini (Pinnipedi e Cetacei), la cui salute e conservazione appaiono sempre più minacciate per mano dell’uomo, altri agenti erano stati indiziati quali noxae causali, primo fra tutti Herpesvirus, rivelatosi in seguito un patogeno frequentemente coinvolto in infezioni secondarie. Illuminanti esempi di questo tipo non mancano neppure tra gli ospiti animali invertebrati, come chiaramente ci mostrano i ripetuti episodi di mortalità collettiva che in anni recenti hanno interessato le popolazioni di nacchere (Pinna nobilis) in più aree del Mediterraneo. Si tratta del più grande mollusco bivalve lamellibranco presente nella regione, i cui eventi di mortalità collettiva erano stati ricondotti all’azione di un protozoo (Haplosporidium pinnae) e di batteri (Mycobacterium sherrisii, Vibrio mediterranei) prima che si addivenisse a definirne l’eziologia primaria, ascrivibile ad un piccolo virus a RNA facente parte dell’ordine Picornavirales, rispetto al quale il parassita e i due batteri anzidetti andrebbero considerati come agenti opportunisti d’irruzione secondaria.

Alla luce di quanto sopra, verrebbe da dire che la “malattia X” recentemente identificata in Congo non rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui l’identificazione certa di qualsivoglia agente causale di qualsivoglia nuova malattia infettiva (e non) sia anticipata, giocoforza, da “errori” grazie ai quali l’accertamento della responsabilità eziologica primaria emergera’ a tempo debito e a coronamento degli sforzi profusi dalla Comunità Scientifica, in una sana ottica di collaborazione intersettoriale e multidisciplinare e, nondimeno, nel segno della “One Health”, la salute unica di uomo, animali ed ambiente.

Historia Magistra Vitae!

 

Giovanni Di Guardo,

DVM, Dipl. ECVP,

Già Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Teramo

 

 




PSA: I veri esperti non si limitano a seguire le raccomandazioni, le anticipano

L’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha pubblicato di recente un ampio rapporto scientifico dedicato alla Peste Suina Africana. Il documento analizza i principali fattori di rischio e quelli di prevenzione, offrendo una panoramica sulle misure più efficaci per contenere la malattia. Questo lavoro si basa su un’approfondita revisione della letteratura scientifica e su uno studio caso-controllo specifico, fornendo così una base solida per affrontare il problema.

L’EFSA e la Peste Suina Africana: perché questo rapporto è importante

L’EFSA riveste un ruolo cruciale nella tutela della salute delle piante, degli animali e dei consumatori nell’Unione Europea. La sua importanza non deriva solo dal prestigio istituzionale, ma soprattutto dal rigore scientifico con cui affronta questioni complesse. Quando l’EFSA esprime un parere, lo fa attraverso un’analisi approfondita delle evidenze scientifiche disponibili, avvalendosi di team multidisciplinari composti da esperti di fama internazionale.Iin questo caso il rapporto è stato redatto da un gruppo di undici esperti di diverse nazionalità. Le sue valutazioni non solo guidano le politiche e le normative europee, ma costituiscono anche un punto di riferimento globale per chiunque operi in ambiti legati all’agricoltura, alla sicurezza alimentare e alla gestione ambientale.

La Peste Suina Africana (PSA) rappresenta per l’Italia non una semplice emergenza sanitaria, ma una vera e propria sciagura, capace di colpire il cuore pulsante di uno dei settori più importanti del nostro Paese, ovvero l’agroalimentare. La PSA, inoltre, è una malattia che provoca enormi sofferenze negli animali infetti, con febbre, emorragie interne ed esterne e difficoltà respiratorie ed ha un tasso di mortalità estremamente elevato. Questo virus, spietato nella sua semplicità e devastante nei suoi effetti, non conosce antidoti: non esiste cura e non esiste neppure vaccino. L’unica arma, e purtroppo una delle più difficili da impiegare, è la prevenzione.
Il problema delle misure di profilassi è che sembrano inutili quando funzionano bene, ma la loro importanza diventa evidente quando non vengono applicate. E parlando di prevenzione, abbiamo trovato il nuovo rapporto scientifico degli esperti EFSA particolarmente interessante, in quanto formula precise raccomandazioni su questioni di grande importanza pratica, dalle recinzioni per limitare la diffusione della malattia al possibile utilizzo di vaccini che abbiano un effetto contraccettivo e conseguentemente capaci di ridurre la popolazione dei cinghiali.

Ma vorremmo soffermarci su una questione cruciale e controversa sulla quale EFSA si è espressa, relativa ai fattori di rischio di introduzione della PSA negli allevamenti suinicoli nel corso dell’estate, e che i dati emersi anche negli ultimi mesi indicano chiaramente essere della massima importanza, almeno nell’Italia del Nord: su 40 focolai verificatisi nei suini domestici nel 2023 e nel 2024 in Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna, 38 sono stati confermati nel periodo compreso tra la fine di luglio e metà settembre. Abbiamo assistito, cioè, ad un picco epidemico stagionale fortissimo, con il 95% dei focolai concentrati in soli due mesi. Un dato che suggerisce che esistano uno o più fattori di rischio specifici alla base della introduzione del virus negli allevamenti in piena estate (si consideri anche che la data di introduzione del virus in un allevamento è in generale precedente alla conferma del focolaio di almeno un paio di settimane, corrispondenti al periodo incubazione e ai tempi necessari alla successiva conferma della malattia: questo significa che i mesi di luglio e agosto sono quelli in cui sussiste in Italia settentrionale il massimo rischio di PSA per gli allevamenti). Fattori di rischio che, evidentemente, non sono presenti o sono comunque molto meno importanti nelle altre stagioni dell’anno.

 

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Malattie zoonotiche in crescita nell’UE. Casi di listeriosi: il picco più alto dal 2007

Nel 2023 i casi di listeriosi hanno raggiunto il picco più alto dal 2007, e campilobatteriosi e salmonellosi sono rimaste le malattie zoonotiche più frequentemente registrate nell’UE. Nel complesso i casi segnalati di malattie zoonotiche nell’uomo sono aumentati, mentre i focolai infettivi veicolati da alimenti hanno visto un leggero calo. Sono queste le principali risultanze dell’annuale rapporto One Health dell’UE sulle zoonosi, curato dall’EFSA e dall’ECDC.

Il numero di casi di listeriosi segnalati nell’uomo (2 952) ha registrato un aumento costante nel periodo 2019-2023, raggiungendo i livelli più alti dal 2007. Ciò potrebbe essere legato all’invecchiamento della popolazione europea (il 21,3% degli europei ha infatti oggi più di 65 anni) che, in relazione alla prevalenza crescente di malattie croniche legate all’età, aumenta il rischio di sintomi gravi nei gruppi di età più avanzata. Gli alimenti pronti al consumo (RTE) contaminati, come ad esempio il salmone affumicato, i prodotti a base di carne e i latticini, sono la fonte più comune di infezioni. I dati più recenti indicano che la percentuale di campioni provenienti da categorie di alimenti RTE che superano i limiti di contaminazione per Listeria monocytogenes varia tra lo 0,11% e lo 0,78%, con il tenore più alto registrato nelle salsicce fermentate.

La campilobatteriosi e la salmonellosi sono state le malattie zoonotiche più frequentemente notificate nell’UE nel 2022. Nel 2023 sono stati segnalati 148 181 casi di campilobatteriosi, in aumento rispetto ai 139 225 del 2022.
Dopo la campilobatteriosi, la salmonellosi è stata la seconda infezione gastrointestinale più segnalata nell’uomo, con 77 486 casi rispetto ai 65 478 del 2022. Solo 15 Stati membri e l’Irlanda del Nord (Regno Unito) hanno raggiunto tutti gli obiettivi prefissati per la riduzione di Salmonella nel pollame. Questo dato indica un peggioramento rispetto al 2022, anno in cui 19 Stati membri raggiunsero la piena conformità agli obiettivi.

La presenza persistente di Salmonella nelle popolazioni di pollame mette in evidenza la necessità di una continua vigilanza nella lotta alle malattie veicolate da alimenti. Strumenti di sorveglianza avanzati, come il sequenziamento dell’intero genoma, sono preziosi per individuare e controllare i focolai in modo più efficace“, ha dichiarato Frank Verdonck, responsabile dell’unità Rischi biologici e salute e benessere degli animali presso l’EFSA.

Il rapporto comprende anche dati tratti dal monitoraggio di focolai di origine alimentare definiti come “eventi durante i quali almeno due persone contraggono la stessa malattia consumando lo stesso alimento contaminato”. Nel 2023 sono stati segnalati in totale 5 691 focolai veicolati da alimenti, in lieve diminuzione rispetto all’anno precedente. Tuttavia il numero di casi di ricoveri e decessi nell’uomo è aumentato: i decessi hanno raggiunto il picco più alto degli ultimi dieci anni. Salmonella è rimasta la principale causa di focolai infettivi, malattia, ricoveri e decessi legati ad alimenti. Le fonti più comuni di questi focolai risultano uova e ovoprodotti, alimenti composti e carne di pollo. L’uso crescente del sequenziamento dell’intero genoma ha migliorato la sensibilità della sorveglianza, aumentando la capacità di individuare i focolai negli Stati membri che lo hanno adottato.

L’incremento di esiti severi di questi focolai evidenzia la persistenza della minaccia per la salute pubblica costituita da Salmonella e altri patogeni di origine alimentare. Integrando salute umana, animale e ambientale all’interno di una strategia One Health possiamo prevenire con più efficacia la diffusione di queste malattie e proteggere la salute pubblica“, ha dichiarato Celine Gossner, responsabile della sezione “Malattie emergenti, alimentari e trasmesse da vettori” dell’ECDC.

One Health è un approccio multisettoriale che mira a bilanciare e ottimizzare la salute di persone, animali, piante e del loro ambiente comune, prendendo atto dell’interconnessione. Nell’intento di favorire misure congiunte, l’approccio One Health coinvolge specialisti di varie discipline per affrontare minacce sanitarie complesse in modo integrato.

L’EFSA pubblica oggi: una sintesi in linguaggio accessibile (PLS) (versione semplificata del rapporto “European Union One Health 2023 Zoonoses Report” ) oltre a pagine multimediali in versione storymap dashboard che consentono agli utenti di cercare e visualizzare dati sui focolai veicolati da alimenti e su 14 patogeni zoonotici. Nello specifico vengono pubblicati per la prima volta sei storymap e quattro dashboard su: Echinococcus, febbre Q, rabbia, Toxoplasma gondiiTrichinella, tularemia, virus West Nile e Yersinia.

Echinococcus

Dashboard

Echinococcus

Story map

Rabies

Dashboard

Rabies

Story map

Trichinella

Dashboard

Trichinella

Story map

West Nile virus

Dashboard

Yersinia

Story map

Toxoplasma gondii

Story map

Q-fever

Story map

Tularaemia

Story map

Other dashboards and story maps

Salmonella

Dashboard

Salmonella

Story map

Campylobacter

Dashboard

Campylobacter

Story map

Brucella

Dashboard

Brucella

Story map

Atti scientici di riferimento




Focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione

La SIMeVeP in collaborazione con ADMV, Associazione Donne Medico Veterinario, ha organizzato per il 18 dicembre il Webinar dal titolo “Focus sull’uso del farmaco negli animali d’affezione” tenuto dalla dottoressa Silvia Fiorina e dal dottor Marco Cecchetto del Gruppo di lavoro SIMeVeP “Farmaco veterinario e Antibioticoresistenza”.

L’incontro, rivolto esclusivamente ai medici veterinari, è stato organizzato per rispondere a domande pratiche e prevenire errori che potrebbero causare sanzioni. Verranno affrontate le problematiche legate alla gestione delle prescrizioni, all’uso di farmaci generici e alla complessa situazione del mercato, dove la scarsità di farmaci veterinari specifici spesso costringe i professionisti a scelte difficili.

Il convegno rappresenta un’occasione unica per acquisire chiarezza sulle novità normative e per ricevere linee guida operative da massimi esperti del settore.

Info sull’evento




Ferri: PSA tra fattori di rischio e di protezione

L’EFSA in un rapporto scientifico del 4 Dicembre 2024 dal titolo ‘Fattori di rischio e di protezione per la Peste suina africana nei suini domestici e nei cinghiali nell’UE e misure di mitigazione per la gestione della malattia nei cinghiali’, utilizzando revisioni delle pubblicazioni scientifiche, studi sul campo, questionari e modelli matematici, individua e valuta cinque aspetti epidemiologici della PSA.

In primo luogo i risultati della revisione della letteratura e di uno studio caso-controllo negli allevamenti di suini commerciali, sottolineano l’importanza dei fattori di rischio legati alla biosicurezza e pratiche agricole, compresa la diffusione del letame intorno agli allevamenti e l’uso di materiale da lettiera, mentre l’uso di reti anti-insetti svolge una azione protettiva. Per quanto riguarda la densità dei cinghiali, ritenuto essere un fattore rilevante dal punto di vista epidemiologico, i modelli statistici e meccanicistici utilizzati non hanno evidenziato un effetto chiaro e coerente sull’epidemiologia della PSA negli scenari selezionati, diversamente da altri fattori ambientali, come vegetazione, altitudine, clima e barriere che influenzando la connettività della popolazione, svolgono un ruolo epidemiologico chiave per la PSA nei cinghiali.

Riguardo alla presenza e sorveglianza di Ornithodoros erraticus sembra che questa zecca non abbia avuto alcun ruolo nell’attuale epidemia di PSA nelle aree colpite dell’UE. Le prove scientifiche disponibili suggeriscono invece che le mosche delle stalle e i tafani sono esposti alla PSA, hanno la capacità di introdurre l’infezione negli allevamenti e trasmetterla ai suini, anche se non è chiaro se ciò si verifichi e, in caso affermativo, in che misura.

Molto si è parlato delle recinzioni, ricordiamo quelle costruite in Danimarca lungo i confini con la Germania, dopo i primi focolai in quest’ultimo paese nel 2020 nei cinghiali nelle zone immediatamente adiacenti al confine con la Polonia. Ebbene la ricerca e l’esperienza sul campo dei paesi colpiti nell’UE dimostrano che il loro uso, potenzialmente abbinato alle infrastrutture stradali esistenti, insieme ad altri metodi di controllo come l’abbattimento e la rimozione delle carcasse di cinghiali, può ridurre efficacemente i movimenti dei cinghiali contribuendo alla gestione della PSA in natura. Le recinzioni possono contribuire a controllare l’infezione in entrambi gli scenari di introduzioni focali e diffusione a onde. In ultimo, i vaccini. Si è dimostrato che l’uso dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) come contraccettivo immunitario, ha il potenziale, come strumento complementare, di ridurre e controllare le popolazioni di cinghiali. Tuttavia, lo sviluppo di un vaccino orale GnRH per i cinghiali richiede ulteriori studi scientifici.

Dott. Maurizio Ferri, Coordinatore scientifico della SIMeVeP

Leggi il rapporto EFSA

 




I numeri dei grandi carnivori in Europa

In Europa vivono sei specie di grandi carnivori: orso, lupo, lince eurasiatica, lince iberica, ghiottone e sciacallo dorato. La maggior parte delle popolazioni di questi predatori ha mostrato negli ultimi sei anni un complessivo trend di crescita sia numerica che di distribuzione, come dimostra il report realizzato per l’Unione europea dal Large Carnivore Initiative for Europe (LCIE), gruppo specialistico dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) che si occupa della conservazione e gestione dei grandi carnivori in Europa. Studiare gli andamenti numerici e distributivi di una popolazione animale è fondamentale per capire l’evoluzione e lo “stato di salute” di una popolazione e di conseguenza per indirizzare le scelte gestionali e di conservazione. Lo è per qualsiasi specie, e nel caso dei grandi predatori è cruciale per ricondurre il discorso, che è spesso fortemente polarizzato, su dati oggettivi.

Il report della LCIE, a firma di oltre 200 esperti europei, ha proprio lo scopo di fornire un quadro di sintesi basato sui migliori dati disponibili raccolti tra il 2017 e il 2022. L’area investigata comprende 34 stati: oltre a quelli che fanno arte dell’UE, anche Svizzera, Norvegia e parte dell’Ucraina e della Turchia. La distribuzione delle specie è stata valutata mappando tutti i dati di presenza, classificati in base all’affidabilità del dato (una valutazione basata su una serie di criteri rigorosi), e sovrapponendo alla carta una griglia con quadrati di 10 Km di lato, un metodo utilizzato per fare la valutazione di tutte le specie animali e vegetali protette dalla Direttiva habitat. Le mappe prodotte distinguono per ogni quadrato se si tratta di una presenza stabile della specie o occasionale. Per tutte, è stato fatto un confronto con le stime ottenute nel report analogo pubblicato nel 2016.

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Fonte:scienzainrete.it