I Veterinari, la pandemia COVID-19 e i vaccini
Di Maurizio Ferri
Coordinatore scientifico Società Italiana di Medicina veterinaria preventiva (SIMeVeP)
SIMEVEP: In un’ottica One Health è quanto più necessaria una collaborazione interprofessionale tra la medicina veterinaria e quella umana. L’esperienza sul campo e la ricerca veterinaria su virus patogeni nei selvatici con potenziale epidemico o pandemico possono contribuire alla messa a punto di vaccini e di strategie di controllo della pandemia COVID-19 e di prevenzione di quelle future
La pandemia COVID-19 ha fatto emergere una interrelazione stretta tra la salute delle persone, la sanità animale e la protezione dell’ambiente. Questo scenario, non nuovo se si considerano la passate pandemie SARS (2002), HIN1 (2009) e MERS (2012) deve richiamare i Governi e le istituzioni sanitarie ad un impegno preciso ed inderogabile: declinare con forza e consapevolezza le azioni di prevenzione e controllo delle infezioni secondo una visione olistica-globale che attiene il concetto One Health. Lo sforzo da compiere, a cui siamo chiamati tutti, in primis i decisori è di lavorare per trovare una convergenza delle professionalità che operano in settori diversi della sanità pubblica, ma che condividono gli stessi interessi ed obiettivi sanitari, ed inserire le emergenze sanitarie all’interno di un sistema molto più ampio per assicurare interventi di prevenzione e controllo efficaci e sostenibili. Per garantire l’efficacia dei piani pandemici e la loro coerenza con l’approccio One Health, occorre abbattere gli steccati tra le professioni e sviluppare sinergie ed integrazioni metodologiche tra la medicina veterinaria e quello umana, al netto del contributo altrettanto essenziale di altre figure professionali come sociologi, ingegneri, antropologi, esperti ambientali, economisti.
I piani pandemici devono prevedere opportuni e sempre aggiornati programmi di sorveglianza integrata finalizzati al rilevamento di segnali spill-over in contesti eco-ambientali con stretta interfaccia animale-umana e con potenziale epidemico o pandemico, oltre che assicurare una più ampia mobilizzazione delle competenze veterinarie (epidemiologi, virologi) all’interno delle task force nazionali. Detti piani devono inoltre far proprio un modello simile a quello militare, in cui le operazioni, comprensive delle esercitazioni annuali di simulazione di epidemie, vengono realizzate già in tempi di pace, sostenute da strumenti e dalla definizione di ruoli specifici all’interno di una piano strategico che consenta di essere sapere quando e come rispondere, ed essere più preparati a contrastare le future pandemie. In sostanza si tratta di un guerra tra noi ed il virus! Per tradurre ciò su scala nazionale è imperativo che la politica assicuri capitoli di finanziamenti ad hoc per la prevenzione e gestione delle ‘emergenze pandemiche,’ sotto la guida delle istituzioni sanitarie.
I veterinari e la sorveglianza epidemiologica.
La professione veterinaria parte già con un forte accento One Health in virtù delle esperienze fatte sul terreno della sorveglianza delle infezioni negli animali che si trasmettono alle persone (es. zoonosi come Salmonella e Campylobacter) per la loro prevenzione e controllo, gestione delle passate epidemie animali e costruzione di vaccini. Questo bagaglio professionale va sostenuto perché è funzionale alla gestione della pandemia COVID-19 e di quelle future. Un esempio eccellente della sorveglianza in chiave One-Health è il piano nazionale di preparazione e risposta all’infezione West Nile, che colpisce i cavalli, si trasmette all’uomo ed è endemica in alcune regioni italiane, principalmente nelle province del Nord situate nel bacino del Po. Dal 2018 nel nostro paese sono stati notificati oltre 247 casi umani autoctoni di malattia neuro-invasiva da West Nile. L’applicazione del piano ha permesso ai veterinari di rilevare la circolazione virale nei vettori (zanzare del genere Culex) nove giorni prima dell’insorgenza dei sintomi del primo caso umano confermato. Ciò ha consentito di attivare risposte tempestive sia per il controllo vettoriale, sia per l’applicazione in medicina umana delle misure di sicurezza nelle donazioni del sangue e trapianti e per prevenire la trasmissione dell’infezione umana.
I veterinari ed i vaccini
La narrativa sui primi vaccini nella storia dell’umanità si intrecciano con gli animali e veterinari. Già il termine vaccino, nel senso etimologico di bovino, designava il vaiolo dei bovini (cowpox) o vaiolo vaccino. Ad Edward Jenner si deve nel 1796 il vaccino contro la variante umana (smallpox) del virus del vaiolo. Il medico e naturalista britannico, osservò che i contadini contagiati dal vaiolo bovino una volta superata la malattia, non si ammalavano della sua variante di gran lunga più grave. L’inoculazione di materiale purulento da una donna ammalata di cowpox al braccio di un ragazzo di otto anni lo rese immune e prevenne la malattia. Da allora il vaiolo vaccino ha permesso di debellare a livello mondiale la malattia. Successivamente, nel 1880, Louis Pasteur dimostrò l’applicabilità dello stesso principio, utilizzando colture di germi responsabili del colera dei polli che conferivano resistenza contro le infezioni batteriche nell’uomo e chiamò vaccino la coltura batterica.
Oggi, in un’ottica One Health si colloca la creazione di vaccini animali contro alcune zoonosi. Mi piace citare la ricerca sui virus del papilloma nei conigli e bovini che ha contribuito allo sviluppo del vaccino contro il papillomavirus umano somministrato alle ragazze per prevenire il cancro cervicale. Riguardo invece ai coronavirus, la veterinaria da decenni studia le relative infezioni animali (cani, gatti ed animali da allevamento) ed ha messo a punto vaccini efficaci per prevenirle. I veterinari sanno che i coronavirus isolati per lo sviluppo di vaccini contro alcune infezioni animali sono rimasti in gran parte invariati per decenni, il che suggerisce un basso tasso di mutazione rispetto ad altri virus come l’influenza, che al contrario richiedono vaccini stagionali contro gli ultimi ceppi circolanti. Forse ciò può costituire una lezione preziosa per lo studio dei vaccini contro il coronavirus? In sostanza le tecnologie esistenti ed il relativo know-how non necessitano di essere inventati dal nulla. E questo ci conduce ad un esempio eccellente dell’approccio One Health per la costruzione di vaccini, che consente alle diverse discipline di ricerca di collaborare per fornire soluzioni che giovino contemporaneamente agli animali, alle persone e agli ecosistemi. Ed è il nuovo vaccino contro la Febbre della Valle del Rift (FVR), denominato ChAdOx1, sviluppato dal Jenner Institute presso l’Università di Oxford e la cui l’efficacia protettiva è stata confermata dai ricercatori del Pirbright Institute nel Regno Unito. La FVR è un’infezione che colpisce i ruminanti e si trasmette all’uomo attraverso il contatto con animali infetti e relativi tessuti contaminati, oltre che con la puntura di zanzare infette. L’infezione umana può condurre a cecità, encefalite e febbre emorragica, ed ad oggi non esistono vaccini umani. La tecnologia ChAdOx1 si basa sull’utilizzo di un vettore costituito da un adenovirus della scimmia non replicante integrato con i geni che codificano alcune glicoproteine dell’envelope virale responsabili della risposta immunitaria. Oltre che per la FVR, il vaccino vettoriale ChAdOx1 viene attualmente sperimentato per le infezioni virali umane MERS, Chikungunya e Nipha che riconoscono tutte un serbatoio animale. La stessa tecnologia ChAdOx1 è stata impiegata sempre dal Jenner Institute in collaborazione con la casa farmaceutica anglo-svedese AstraZeneca per lo sviluppo del vaccino umano vettoriale ChAdOx1 nCov-19 contenente il materiale genetico della proteina Spike del virus SARS-CoV-2, attualmente in attesa di essere autorizzato dall’European Medicines Agency (EMA).
Il contributo è stato pubblicato da Quotidiano Sanità